L’uomo che salvò la bellezza – Francesco Pinto

SINTESI DEL LIBRO:

Dal finestrino non si vedeva nient’altro che l’oscurità profonda in
cui si era tuffato il treno non appena era calato il sole. Solo la luce
della motrice tagliava, come una lama, il buio della notte e un rumore
infernale ne annunciava il passaggio con la precedenza su tutti gli
altri convogli, compresi quelli militari, che sempre più affollavano la
rete ferroviaria del paese come sangue nuovo nel corpo di un
gigante che si stava risvegliando e armando.
Il vagone di prima classe era quasi deserto e, nello
scompartimento centrale, il fumo della sigaretta di un uomo si
impastava con la luce azzurrina della lampadina di lettura facendo
brillare a intermittenza la brace. In quella nebbia i tratti del suo viso
si smarrivano indefiniti. Un fantasma perduto nel nulla. Sul vetro
appannato iniziò lentamente a disegnare delle lettere: prima una E,
poi una R seguita da una F, una U e un’altra R e infine una T. Erfurt.
Era la città dove stava andando. Al centro della Turingia, nel cuore
della Germania nazista.
A fare la spia.
Diede di nuovo un tiro alla sua Macedonia e guardò l’orologio con
la stessa impazienza del giorno in cui era avvenuto l’incontro che lo
aveva messo su quel treno.
Non c’era rumore, quella mattina, solo un silenzio ovattato,
appena disturbato dal suono dei passi cauti che si muovono nelle
anticamere degli uomini potenti. L’uomo che doveva incontrare,
potente lo era davvero: Galeazzo Ciano, genero del Duce e nuovo
ministro degli Esteri. C’erano voluti mesi per coltivare la sua amicizia
e ora era lì per chiedergli quello che gli spettava: un incarico
culturale fuori dall’Italia, magari in Belgio o in Francia, dove avrebbe
potuto sfruttare al meglio la sua perfetta conoscenza del francese.
Tra tutte le pecore che avevano fatto domanda, lui era certamente
l’unico lupo.
Il ministro lo aveva fatto attendere a lungo mentre diversi
impiegati, uomini d’affari e funzionari di partito entravano e uscivano
dalla stanza dove si sarebbe deciso il suo destino. Durante tutto quel
tempo, un uomo, seduto immobile di fronte a lui, aveva continuato a
fissarlo senza fare nulla per nasconderlo. Non era riuscito a
scrollarsi quegli occhi di dosso. Con uno dei suoi soliti colpi di testa
si era alzato all’improvviso per chiedergli ragione di questo
atteggiamento.
«Ci conosciamo?» aveva domandato con tono aggressivo
piantandosi di fronte a lui furente.
«Sì» era stata la laconica risposta, «ora faccia il bravo e si
accomodi accanto a me.» Con la mano aveva indicato la sedia vuota
di fianco alla sua.
Spiazzato da quella reazione, aveva chiesto, cauto: «Chi è lei?
Quando ci siamo conosciuti?».
Come risposta aveva ricevuto solo un vago cenno della mano.
«Non hanno importanza né la prima e né la seconda cosa. Mi ha
chiesto se la conosco. A questo posso rispondere.»
Aveva poi iniziato a parlare con voce piatta come se leggesse un
rapporto: «Rodolfo Siviero nato a Guardistallo il 24 dicembre 1911,
figlio di Giovanni e di Caterina Bulgarini, studente brillante, ma con
studi irregolari. Ha collaborato al Bargello e ha scritto una raccolta di
poesie dal titolo La selva oscura che ha fatto fatica a pubblicare.
Malgrado la giovane età, non elenco tutte le donne con le quali ha
avuto una relazione. L’ultima, comunque, si chiama Hede, una
giovane scultrice romena di ventidue anni. Lei, Rodolfo, disprezza
Manacorda, il titolare della cattedra di letteratura tedesca
all’Università di Firenze che, in una conversazione privata, ha
chiamato disgraziatello. Frequenta il caffè delle Giubbe Rosse a
Firenze dove vive attualmente. Oltre che di Ciano è amico di
Pavolini. Adora d’Annunzio e, usando una sua espressione, ha più
volte definito il capo del Reich un imbianchino».
Rodolfo lo aveva guardato esterrefatto.
L’altro non aveva mosso un muscolo e aveva aspettato qualche
istante per fargli assorbire il fatto che gli avesse squadernato davanti
tutta la sua vita e poi aveva continuato:
«Ma soprattutto pensiamo che lei sia una persona intelligente e
brillante.»
«Grazie» aveva mormorato Siviero.
«Noi crediamo possa essere molto utile al nostro paese.»
«Noi, chi?»
Ancora un gesto vago.
«Oltre al francese lei parla perfettamente il tedesco.» Non era una
domanda, semplicemente un altro paragrafo del dossier.
«E questo che c’entra? Mi dica rapidamente cosa vuole. Il
ministro può chiamarmi da un momento all’altro.»
«Non succederà, non si preoccupi» aveva risposto tranquillo il
suo interlocutore prima di cambiare improvvisamente discorso. «La
vita è stravagante e piena di imprevisti. Facciamo cose che, se il
giorno prima qualcuno ci avesse detto avremmo fatto, lo avremmo
liquidato con una risata e con un “impossibile”. Ma la politica è
ancora più imprevedibile» aveva affermato, con lo stesso tono piatto
usato fino a quel momento. «Prendiamo la Germania: appena due
anni fa eravamo a un passo dalla guerra e oggi siamo alleati.» Poi
aveva fatto un cenno verso la porta del ministro. «La sostituzione di
Suvich con Ciano sta tutta lì: un diplomatico legato ai francesi
sostituito da un filonazista.»
«E io cosa c’entro? Non ho nulla a che fare con la politica e con i
giochi della diplomazia.»
«Vede, Siviero, la Germania rimane un mistero. Hitler e Mussolini
non si sono ancora…» cercava la parola giusta, «… capiti. Il Duce
prese come un affronto personale l’assassinio del cancelliere
austriaco Dollfuss di cui era amico. Si ricorda? Le nostre divisioni
corazzate furono schierate sul confine del Brennero con l’ordine di
intervenire e aprire il fuoco se i tedeschi avessero davvero invaso
quel paese.» Aveva alzato la mano, lasciando un piccolissimo
spazio tra il pollice e l’indice. «Siamo stati a tanto così dallo scontro
armato. Poi gli accordi con i francesi, ai quali aveva lavorato Suvich,
sono saltati, gli inglesi hanno permesso ai nazisti di ricostruire la
flotta e noi ci siamo trovati dalla parte di Hitler.»
«E io cosa posso fare?»
«Vorremmo capire con chi davvero ci siamo alleati.»
Si era acceso una sigaretta senza nemmeno fare il gesto di offrirla
all’altro.
«Certo, leggiamo la stampa, guardiamo i cinegiornali, riceviamo
regolari rapporti dalla nostra ambasciata e parliamo con gli uomini
d’affari tedeschi che vengono da noi e con i nostri che tornano da
quel paese. Tutto sembra grandioso e perfetto, ma è proprio quando
sembra tutto in ordine che gli uomini come me iniziano a sospettare.
Avremmo bisogno di qualcuno che vada da loro per capire se i nostri
dubbi sono fondati.»
«Guardi che io sono un critico d’arte.»
«Cosa fa quando deve valutare un quadro?» chiese il suo
interlocutore con tono cortese.
«Be’, per prima cosa provo a fare una valutazione complessiva
dell’opera legata alla sua qualità visiva e alle mie impressioni.»
«E poi?»
«Inizio a studiarlo senza pregiudizio e cioè valutandolo non sulla
base di quello che mi piace o non mi piace, ma cercando di capirlo.
E così inizio a esaminare le singole parti: il soggetto centrale, le
figure di contorno, lo sfondo, in un’analisi dove i dettagli sono
fondamentali per capire il significato, spesso nascosto, dell’opera.
Per esempio le nature morte del Seicento non sono semplicemente
fiori e frutta, ma raccontano un mondo senza la presenza umana e la
crisi di quel secolo.»
«Molto interessante. E si ferma lì?»
Rodolfo aveva fatto una smorfia di sufficienza. «Non sarei un
buon critico. Vado avanti e analizzo il contesto in cui è stata prodotta
quella singola opera e chi è l’autore. Nel Rinascimento i quadri
iniziarono a essere firmati, ma quasi sempre manca l’anno. Sapere
chi è stato il committente e la sua collocazione originaria ci aiuta
molto per la datazione e la comprensione.»
«Bene, così ha finito.»
«Per niente. C’è la parte più delicata: l’esame del chiaroscuro,
dello stile delle pennellate e di come è fissato il colore. Ogni pittore
ha il suo modo inconfondibile e non serve la sua firma per
l’attribuzione.»
«Insomma, è in grado di dire anche se un quadro è vero o
fasullo?»
«Esatto.»
Per la prima volta un muscolo si era mosso sulla faccia del suo
interlocutore: un risolino appena accennato. «È stato scelto proprio
per questo.» Si era frugato tra le tasche e aveva estratto un biglietto
da visita su cui era semplicemente segnato un numero di telefono.
«Abbiamo bisogno dei suoi occhi. Dovrebbe studiare per noi non
una natura morta, ma una… viva.» Un ultimo sguardo alla porta
chiusa e poi aveva aggiunto: «Ci pensi e, per cortesia, non dica nulla
al ministro».
Erfurt, stazione di Erfurt.
L’annuncio dell’altoparlante lo strappò via dal ricordo di quel
colloquio.
Prese frettolosamente la valigia e mise piede sulla banchina
osservando gli altri pochi passeggeri avviarsi rapidamente verso
l’uscita. Persone del posto, pensò, che sapevano perfettamente
dove andare e che cosa li attendeva: una moglie e dei figli, una
fidanzata, un gruppo di amici in qualche birreria.
Osservò il treno ripartire e perdersi di nuovo nell’oscurità dalla
quale era emerso. Rimase da solo, sotto la luce fioca di un
lampione, domandandosi perché avesse accettato di finire in quel
nulla. Dopo quel primo contatto le cose si erano mosse in fretta,
qualche nuovo incontro con il suo interlocutore senza nome e un
colloquio con Pariani, un generale grosso e simpatico, che lo aveva
riempito di complimenti e gli aveva ordinato di riferire solo a lui. Dopo
meno di un mese gli era stata affidata la sua prima missione. E le
cose avevano iniziate subito a non quadrare: nessun incarico di
prestigio e soprattutto nessuna destinazione importante. Niente
Monaco, niente Berlino e niente Amburgo: le città dove il nazismo
brillava e dove tutto era permesso, se stavi dalla parte giusta. La
voglia di tuffarsi in quel mondo nuovo ed energico era una delle
ragioni per le quali aveva accettato di essere arruolato.
E invece… una piccola somma e una piccola città ai margini della
Foresta Nera.
Si alzò il bavero del cappotto per proteggersi dal freddo e si avviò
anche lui verso l’uscita, per poi muoversi in direzione
dell’appartamento che gli era stato assegnato in Marktstrasse.
La mattina dopo, Erfurt gli sembrò ancora più insignificante. Dette
uno sguardo dalla finestra osservando lo scarso traffico e i pedoni
che camminavano senza fretta o aspettavano tranquilli l’arrivo del
tram. Sapeva perfettamente il significato di quella mancanza di
impazienza e quello scorrere lento del tempo: era la provincia. La
conosceva bene.
Ma il posto dal quale veniva, anche se sembrava avere gli stessi
ritmi di quella piccola città tedesca, era stracolmo di bellezza: la
piazza della Signoria con il suo David giovane e sfrontato, la purezza
di Santa Maria Novella, l’eleganza di Palazzo Pitti con i suoi
meravigliosi giardini e la galleria degli Uffizi dove il genio italiano
raccontava al mondo la sua magnificenza. Qui, invece, per quel
poco che era riuscito a studiare prima di finire su quel treno, c’erano
solo il Duomo dedicato alla Vergine Maria, una chiesona gotica di
una certa importanza, e quella di San Severo, entrambe piazzate
sulla Domplatz. E poi, il Ponte dei Bottegai sulla Gera, che faceva il
verso al suo Ponte Vecchio.

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