Le donne preferiscono l’amore – Carole Matthews

SINTESI DEL LIBRO:
Sally Freeman, Mamma Single e Superdonna, ancora una volta al
servizio dei più deboli.
«Dai qua, cara. Te le porto io quelle», dico alla signora Kapur, che
arranca sulla prima rampa di scale con due buste belle pesanti del
discount sotto casa.
«L’ascensore è rotto di nuovo», brontola. «Delinquenti. È la terza
volta in una settimana che appiccicano le gomme da masticare sui
pulsanti. Ma se li prendo gli stacco le orecchie».
E forse sarebbe stata anche l’ultima cosa che avrebbe fatto. La
signora Kapur è una donnina piccina tutta pelle e rughe. Nessuna
chance contro quei ragazzoni che girano nel palazzo sempre a
caccia di guai. Persino io, più alta di lei di una trentina di centimetri,
mi definirei abbastanza bassina.
Vivere al decimo piano non è un’impresa facile per nessuno, a
qualsiasi età. Anche io arrivo in cima sempre spompata. Ma se hai
superato da un bel pezzo l’età della pensione – e questo è proprio il
caso della mia adorabile vicina – deve essere un incubo. La
vecchina se ne sta lì ferma, appoggiata al muro a riprendere fiato.
Fuori fanno almeno ottanta gradi. Il sole spacca i mattoni – quelli che
non sono spaccati già da anni perché tanto il Comune non manda
mai nessuno ad aggiustarli. Nonostante il caldo, la signora Kapur,
sopra il sari, indossa un cappotto pesante e il velo.
Super Sal le prende le buste. «Fatto scorta?», le chiedo.
«Avevo finito tutto», dice scuotendo la testa. «Niente carta igienica
e niente cibo per gatti».
In teoria in quel palazzone tenere gatti sarebbe vietato, ma Gandhi,
il micione rossiccio della signora Kapur, non dà noia a nessuno, a
parte al Comune ovviamente. Quel gatto è l’unica compagnia che le
resta. Originariamente aveva un altro nome, un nome più da gatto,
tipo Batuffolo o Birba, ma poi tutti gli inquilini lo hanno ribattezzato e
ormai il suo nome è quello. Persino la signora Kapur lo chiama
Gandhi, adesso. «Ma oggi ho preso la pensione», dice con un bel
sorriso sdentato.
«Spero tu ti sia regalata una fantastica torta alla crema».
«Sì, sì», risponde lei ridacchiando. «Ho preso anche un po’ di
pesce fresco per Gandhi, oltre alle solite scatolette. Forse è per
questo che le buste pesano tanto».
«Te l’ho già detto», le ricordo. «La spesa posso fartela io. Devi solo
venirmi a bussare e dirmi quello che ti serve. Mi trovi tutti i giorni».
«Non mi va di disturbarti, tesoro».
«Non è che io abbia un granché da fare, signora K. Non mi disturbi
affatto».
«Sei una brava ragazza, Sally Freeman. Come farei senza di te?».
Dovresti dire a quegli sfaticati buoni a nulla dei tuoi figli di prendersi
cura di te, sto per dirle, ma alla fine evito. Lei adora quegli
scansafatiche e non le piacerebbe sentirne parlar male. Si degnano
di venirla a trovare cinque minuti una volta ogni morte di papa e –
caso strano – quando se ne vanno sparisce anche la pensione. E io
che pensavo che le famiglie indiane fossero tanto unite.
Tiro su le buste e le dico: «Pronta ad assaltare il fronte
settentrionale?».
Lei ride.
Diversamente dagli altri supereroi io non ho la tipica tutina di lycra
col fulmine stampato sul petto. No. Solo una t-shirt, un paio di jeans
presi in un negozietto di vestiti usati – tutto davvero all’ultimo grido –
e scarpe comprate al mercato. Wonder Woman senza culotte di seta
e corsetto tempestato di stelle.
«Forza, signora K., quando arriviamo su mi devi fare una bella
tazza di tè». La maggior parte dei supereroi salva l’umanità; il mio
compito invece è evitare un attacco di cuore a una povera vecchina
che non può prendere l’ascensore solo perché qualche stupido
coglioncello ha pensato bene di metterlo fuori uso.
Me la prendo sottobraccio e cerco di incoraggiarla nella scalata.
«Hai mai pensato di fare domanda per un appartamento a piano
terra o per un posto in una casa di cura, signora K.?». Se anche
fosse finita a vivere al secondo o al terzo piano sarebbe stato di gran
lunga meglio di dove stava ora.
Sale le scale con una lentezza e una fatica infinita. Mette un piede
sul gradino successivo e le ci vuole uno sforzo gigantesco per tirarsi
dietro anche l’altro. Mio figlio Charlie saliva le scale in quel modo
quando aveva due anni. Adesso ne ha dieci e schizza su con la
velocità di una bestia spaventata da un leone affamato alle
calcagna.
La signora Kapur si ferma a prendere fiato. «Ho sempre vissuto
qui, cara. Che vuoi che ti dica? Non me ne posso andare. E dove,
poi?». Scuote di nuovo la testa e il velo le cade sugli occhi. Metto giù
una busta e glielo sistemo. «Me ne andrò da qui solo dentro alla
bara».
E sarebbe avvenuto prima del tempo, se doveva continuare a farsi
tutte quelle scale. Ormai il Comune aveva smesso di aggiustare
l’ascensore. Potevo chiamarli e lamentarmi all’infinito. Funzionava
per una decina di giorni – a volte neanche tanto – prima che a
qualcuno saltasse in mente di prendere a calci le porte o mettere
fuori uso il pannello di controllo. Una volta ci abbiamo trovato dentro
una bella montagnetta di merda, e non ci giurerei che fosse quella di
un cane. In qualità di supereroina ho dovuto pulire io, ovviamente.
Ormai li conosco quasi tutti quelli che lavorano all’Ufficio Alloggi, ma
la cosa non ha vantaggi di sorta. Ci si aspetterebbe un po’ più di
cortesia per quelli che come me stanno lì da una vita, ma
francamente il loro servizio clienti lascia alquanto a desiderare.
Mentre siamo ferme a riprendere fiato, vi descrivo un po’ meglio il
posto in cui vivo. È quello che comunemente verrebbe definito
“quartiere abbandonato al degrado” alla periferia di Liverpool. Il
nostro palazzone – uno dei tre del quartiere – è circondato da un
ammasso di vecchie case popolari e prefabbricati che avrebbero
dovuto essere dichiarati inagibili da tempo. Schiere di case grigie e
squadrate, alloggi provvisori costruiti durante la seconda guerra
mondiale con materiali non molto più solidi dei mattoncini Lego, che
nonostante tutto riescono ancora oggi a stare in piedi e a resistere
alle forza degli elementi. Il William Shankly House – che prende il
nome dal leggendario allenatore del Liverpool Football Club – fu
costruito alla fine degli anni Sessanta e avrebbe dovuto essere
abbattuto all’inizio degli anni Settanta. Come e a chi sia saltato in
mente di dargli quel nome in onore di un così grande uomo non
riuscirò mai a capirlo. Bill Shankly non c’entra proprio niente con
questa merda. Si rivolterebbe nella tomba – che Dio lo abbia in
gloria – se potesse vedere una cosa del genere. Un monumento di
cemento al peggio del peggio dell’architettura inglese di quel tempo.
Vorrei tanto sapere chi è quell’idiota che ha creduto che costruire
palazzoni enormi nelle città fosse una gran pensata. Probabilmente
un architetto strapagato che viveva in un bel cottage immerso nel
verde e turbato da nient’altro se non dal canto delle allodole, sono
sicura.
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