La rabbia, l’amore e le nuvole senza tempo. Ventinove racconti ispirati alla (e dalle) canzoni di Fabrizio De Andrè – Dante Bernamonti

SINTESI DEL LIBRO:
Si son presi il nostro cuore sotto a una coperta scura.
La voce di Davide mi fece sollevare di colpo la testa dalla relazione che
stavo finendo di leggere. Era arrivato in leggero anticipo, ma sul momento
non ci feci caso, sollevato com’ero dalle sue parole.
Dovevo essere sicuro, però. – Cosa, scusa?
Non mi rispose subito. Niente di strano, non lo faceva mai.
Invece, cominciò a togliersi la sciarpa e, solo quando ebbe finito di
arrotolarla con attenzione, per poi infilarla nella tasca della giacca - così che
sporgeva fuori come un salame multicolore - aprì di nuovo bocca: – Sotto una
luna morta piccola.
Evvai! Finalmente aveva cambiato. Non ne potevo più dell’ultima, erano
ormai dieci giorni che le uniche parole che sentivo c’entravano con Via del
Campo, fino ad arrivare al top della vergogna quando, davanti alla dirigente
scolastica in visita, Davide se n’era uscito con un chiarissimo, e
perfettamente udibile: – C’è una puttana. – L’ideale per la mia credibilità,
insomma.
Quando l’avevo incontrato per la prima volta, non avevo la minima idea di
cosa aspettarmi. Mi avevano convocato in fretta e furia per sostituire una
collega che aveva avvertito in ritardo della sua malattia, e tutto quello che
sapevo di Davide era che era autistico.
La maestra me l’aveva indicato: un ragazzino pallido e magro, con una
massa ispida di capelli ricci che accentuavano la forma appuntita del viso. Un
brutto sfogo rossastro, o un’irritazione, non so, gli circondava le labbra,
ricordando un clown triste.
Avevo evitato di toccarlo, perché sapevo che non sempre questi bambini
accettano il contatto fisico, e mi ero limitato a sorridergli, spiegandogli chi
ero, e che avremmo passato qualche ora insieme, fuori dalla classe.
Quel primo giorno non aveva aperto bocca, ed era uscito dalla sua
immobilità silenziosa solo quando gli avevo messo sotto alle mani un foglio,
allungandogli anche dei pennarelli. Aveva disegnato un treno, in fretta e
molto bene.
Il secondo giorno sentii per la prima volta la sua voce, poco prima che lo
riaccompagnassi in classe: – Non si trattava di un missionario. – Cosa?
Pensava forse che fossi una specie di volontario? Lo guardai stupito,
pensando di aver capito male, ma lui aveva gli occhi rivolti altrove,
l’espressione serena e impenetrabile.
Il terzo giorno fui informato che la malattia della collega si era tramutata in
una gravidanza a rischio, e che con Davide sarei rimasto io, fino al suo
rientro. Nell’attesa di parlarle, ero riuscito invece a prendere appuntamento
con la mamma del bambino, quello stesso pomeriggio alla fine della scuola.
Non so di preciso cosa mi aspettassi, certo è che non fui stupito della donna
minuta, con l’aria stanca, che varcò la soglia. Avevo già lavorato con qualche
ragazzo problematico, e il suo sguardo era uguale a quello che avevo letto
negli occhi di molti genitori: l’amore rassegnato di chi ha avuto qualcosa di
molto diverso da quello che si sarebbe aspettato.
– Davide le ha già parlato? – aveva esordito, dopo le presentazioni.
– Solo poche parole. Ha detto: “Non si trattava di un missionario”.
La donna aveva sorriso: – Bocca di rosa. È quella del momento.
Subito non capii, ma poi mi colse un lampo di consapevolezza:
– Tutti si accorsero con uno sguardo che non si trattava di un missionario –
cantai.
– Lei è stonatissimo – aveva osservato la donna, ma senza sorridere: una
semplice constatazione. – Davide ha la fissazione delle canzoni di De André
– aveva spiegato poi, iniziando a stropicciarsi le mani, come se fossero
sporche e se le stesse lavando. – Sono anni che non dice una parola che non
sia tratta da una delle sue canzoni. Era suo padre che aveva la passione: Dio
solo sa quante volte gliele ha fatte ascoltare, mentre lo scarrozzava in giro per
medici. – Non ebbi nemmeno bisogno di fare la domanda. – Se n’è andato,
sono anni che non vede Davide.
Da quell’incontro non seppi molto di più, anche se ora almeno avevo una
chiave di lettura.
Canzoni di De André? Bene, era meglio di niente.
Mi munii di un canzoniere completo, e iniziai a provare a decifrare quel
bambino.
Quando Davide sceglieva una canzone - e le cambiava dopo alcuni giorni,
una settimana, fino a ora quella che era durata di più era stata proprio Bocca
di rosa, rimasta in voga per due settimane abbondanti, e abbandonata di
colpo dopo un ferale “L’ira sdegnosa delle cagnette” - la sua era una full
immersion. Parlava con quella canzone, ne scriveva i versi, ne disegnava
delle scene.
Era strano sentirlo declamare, a spizzichi e bocconi, parole che ero abituato
a sentir cantare; fra l’altro, tolte dal loro contesto, a volte assumevano un
senso diverso, e quello che magari fino a quel momento avevo considerato il
più poetico dei versi assumeva foschi significati.
Non mi era chiaro se effettivamente esistesse un senso alle parole che
diceva, ovvero, se le canzoni fossero o no un canale di comunicazione. Sua
madre sosteneva di no, che non se n’era mai accorta: anzi, semmai era vero il
contrario ovvero capitava che Davide in qualche modo applicasse anche nella
realtà le parole che declamava. “Una volta, quella di Maria nella bottega del
falegname, l’ho fermato mentre cercava di fare non so cosa col martello”,
aveva raccontato in uno dei nostri incontri. Di volta in volta, la vedevo triste,
rassegnata, anche arrabbiata, angosciata dal futuro di suo figlio, che non
riusciva a immaginare.
A me invece sembrava di scorgere un legame fra qualcosa che era successo
e le parole del testo scelto da Davide… per esempio, quando fu il turno di Via
del Campo, era appena arrivata in classe una nuova bambina, molto graziosa,
e avevo pensato che potesse essere lei “la bambina con le labbra color
rugiada”, ma poi lui si era incagliato sulla frase “Dai diamanti non nasce
niente, dal letame nascono i fiori”, e ci avevo ripensato.
Un’altra volta, era stato dall’oculista il giorno precedente, e si era
presentato con addosso un paio di occhiali di plastica nera, stranamente
antiquati per un bambino della sua età. Ci avevo provato:
– Non più ottico, ma spacciatore di lenti, per improvvisare occhi contenti –
avevo canterellato. Mi rifiutavo di recitare semplicemente quelle frasi, perché
pensavo che anche la melodia avesse un suo significato.
Non so se era stato per la mia penosa intonazione, o se per una volta ero
riuscito a stabilire un legame, ma mi era parso che un debole sorriso
incurvasse appena le labbra di Davide. Ma potevo anche essermi sbagliato,
ovviamente, anche perché lui non adottò la mia canzone, ma andò avanti per
la sua strada.
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