La quarta Italia- Joseph Roth 

SINTESI DEL LIBRO:

 «Nell’anno 1922 Mussolini
confessò a un inviato speciale del
parigino «Temps» di essere stato
«solo tre volte nella sua vita in un
museo», perché «non aveva tempo
di dedicarsi a fantasticherie nel
regno delle ombre». Solo un anno e
mezzo più tardi, nell’aprile del 1924,
quando divenne cittadino di Roma,
spiegava che si vedeva costretto «a
meditare sul mistero dell’eternità di
Roma, ogni volta che camminava
sulle vive rovine del foro». Egli si è
evidentemente riconciliato con il
regno di quelle ombre, che da allora
in Italia non hanno più pace, poiché
in molte città italiane archeologi
diligenti scavano alla ricerca di
nuove antichità, e lo Stato fascista si
industria per avere in deposito,
possibilmente al completo, i
testimoni del grande passato.
Però un inviato, che oggi parte
per l’Italia, ha sufficienti motivi per
fare come il Mussolini del 1922.
Dovrebbe andare in un museo al
massimo tre volte. Se prende un
Baedeker lo fa solo per darsi, nelle
strade delle città italiane, con
un’andatura ostentata e una guida in
mano, l’aspetto innocente di uno
straniero appassionato di cultura.
Perché l’Italia è ancor sempre – e
più che in tempi passati – un Paese
per sposini in viaggio di nozze e non
per giornalisti. Esso desidera
stranieri con un interesse univoco
per il passato, le rovine, i musei, il
Lido e il Vesuvio. Non sa che
farsene di stranieri con la passione
per l’attualità italiana, con un
interesse per la libertà di stampa, per
la situazione del proletariato e per la
condizione finanziaria dello Stato. In
Italia si è pronti a rendere tutto così
agevole, per quanto ciò sia possibile
in una dittatura, alla categoria dei
viaggiatori inoffensivi, mentre a tutti
gli altri si rende tutto così scomodo,
come solo in una dittatura è
possibile.
Il primo fascista mi si presentò
alla stazione ferroviaria. Era
facilmente riconoscibile per via
della camicia nera. Inoltre portava
un abito grigioverde, il cui taglio
ricordava l’uniforme di ufficiali
inglesi e americani. Il bavero e i
risvolti erano orlati di nero.
Improbabili pantaloni larghi da
cavallerizzo terminavano in bei
gambali di cuoio, gialli splendenti. I
pantaloni ricordavano grandi ali di
farfalla. Quando il fascista
camminava sembrava che
svolazzasse. Al suo fianco destro
pendeva, in un fodero di pelle
marrone, nuovo, una minuscola,
graziosa pistoletta simile più a un
ornamento che a un’arma. La mano
del fascista agitava l’aria con un
elegante frustino, che all’estremità
aveva un bottone metallico e un
laccio in pelle. Tranne che un
cavallo e gli speroni, l’uomo
possedeva tutti gli accessori del
cavallerizzo. Del resto andava avanti
e indietro sul marciapiede della
stazione come uno che è appena
sceso dalla sella e si vuole muovere
un po’. Forse il suo cavallo nitriva
da qualche parte vicino alla
locomotiva.
Era giovane, poteva avere
ventotto anni. Aveva un viso ben
rasato, con lineamenti marcati
dovuti in parte alla natura e in parte
a un ampio cappello di feltro
morbido, con la tesa alzata da un
lato. Non vi era alcun dubbio che il
giovane conoscesse la durezza del
suo profilo. Sembrava esibirlo, con
portamento studiato, ai passeggeri
che guardavano dai finestrini.
Talvolta si fermava, faceva dietro
front e si mostrava en face.
Esaminava gli stranieri per dovere di
servizio e allo stesso tempo con
soddisfazione. E nonostante il suo
sguardo fosse al servizio della patria
era come se esortasse tutti noi:
«Guardatemi! Sono lo sguardo di un
fascista!».
Del resto in questa stazione si
vedeva raramente qualcosa che non
venisse svolto per dovere di
servizio. Era piuttosto un comando
militare ferroviario. Mi ricordo
ancora bene di questa istituzione
militare. Ci si annunciava, si
riceveva un’indicazione
sull’alloggio in albergo, ci si faceva
certificare un ritardo di treno vero o
fittizio. Al tavolo sedeva il
sottufficiale che si serviva del
telefono. Nell’angolo stava
rannicchiato l’attendente. Pensavo di
dover aspettare la prossima guerra
per vedere nuovamente un comando
militare ferroviario. Ora eccolo qua,
uguale come da noi. L’attendente
porta un bicchiere di birra per il
signor tenente dal ristorante di
seconda classe. Al muro è appeso il
ritratto di Sua Maestà. Al posto della
fascia al braccio con la ruota alata,
l’ufficiale ferroviario porta al
braccio una magnifica sciarpa con i
colori della nazione italiana, come
un alfiere della guerra dei Sette anni.
È, si capisce, un ufficiale chic. Il suo
cappello alto e cilindrico è stretto
sotto e sopra si allarga. La sommità
in pelle è pendente, quasi ripida, e
sta un po’ di traverso. La sciabola, la
cui impugnatura è appoggiata al
braccio sinistro come fosse un
bambino, è troppo lunga in rapporto
alla bassa statura dell’uomo. Il viso,
la cui metà superiore è adombrata
dalla sommità del berretto, appare
come se in realtà l’ufficiale fosse
comodamente seduto anche mentre
cammina. È, come avrei notato più
tardi nelle città, un passo bighellone,
una sorta di andatura da passeggio
degli ufficiali. Forse viene insegnato
nelle scuole per cadetti. Comunque
non è facile da imitare. Il busto deve
poggiare rigido sui fianchi e tuttavia
può girarsi leggermente

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