In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia – Paolo Mieli

SINTESI DEL LIBRO:
Non c’era nessun contadino, artigiano o bracciante in quel Terzo Stato che
nel 1789 diede il «la» alla Rivoluzione francese. Strano. Ulteriore dettaglio,
ancora più sorprendente: il Terzo Stato non includeva praticamente nessun
uomo d’affari, banchiere, imprenditore, né persone che esercitassero una
delle occupazioni della borghesia medio-alta. Lo aveva già notato Edmund
Burke che seguiva gli avvenimenti della Rivoluzione da Londra: a
sconcertarlo era stata l’assenza tra i rivoluzionari di uomini ricchi, di grandi
proprietari terrieri e di alti dignitari della Chiesa. E non perché fossero dei
diseredati. Burke notò l’alta percentuale di avvocati presenti
nell’Assemblea, ma, scrive Jonathan Israel in La Rivoluzione francese,
«come la maggior parte degli storici moderni», non si rese conto della
pressoché totale mancanza di professionisti «nelle più importanti cerchie di
oratori, pamphlettisti e riformatori». Il fatto è che «in materia di
provenienza sociale, la leadership rivoluzionaria non rappresentava nessuna
categoria sociale definita». Era composta in prevalenza da giornalisti,
scrittori, precettori, librai, preti e nobili ribelli che si erano dati alla
letteratura. Altro che «philosophes». In concomitanza con l’inizio degli
Stati generali, nell’aprile 1789 fu pubblicato un pamphlet satirico che si
faceva beffe di quel «mucchio di giornalisti arroganti», di quei «presuntuosi
arrampicatori sociali» che si presentavano come «geni eccezionali» e in un
battibaleno avrebbero preso in mano le redini della Francia. Questo
libercolo di nessun valore, scrive Israel, «si sarebbe dimostrato molto più
accuratamente profetico di quanto il suo autore avrebbe potuto
immaginare». Se alcuni intellettuali si emozionarono per gli eventi di
Parigi, furono quelli non francesi.
Ma torniamo a Parigi. I brindisi alla Rivoluzione francese il 18
novembre 1792 (oltre tre anni dopo la presa della Bastiglia) furono sedici.
Coloro che levarono il calice erano più di cento inglesi, americani e
irlandesi che abitavano nella capitale e si erano dati appuntamento all’hotel
White’s (ribattezzato all’epoca British Club) per polemizzare platealmente
con i loro Paesi, che invece erano sempre più critici nei confronti della
piega presa dagli accadimenti di Francia. Tra quelli che brindarono, il poeta
americano Joel Barlow, l’autrice di Letters from France, Helen Maria
Williams, il presidente del club John Hurford Stone, e il celeberrimo autore
di Rights of Man, Thomas Paine. Paine tra l’altro, ancorché straniero, era
stato eletto alla Convenzione del 1792. Israel nota come «sebbene
l’opinione degli inglesi – incoraggiata dal governo di Londra e da quasi
tutto il clero – fosse in generale profondamente ostile alla Rivoluzione, gran
parte dell’élite intellettuale e letteraria d’Inghilterra, Stati Uniti e Irlanda era
invece entusiasta, per non dire rapita dalle sue conquiste e decisa a
schierarsi al suo fianco». Poi, però, quando nel 1793 si impose Maximilien
de Robespierre, prontamente tutti loro videro in lui e in ciò che
rappresentava «non il culmine, ma il crollo e la rovina della Rivoluzione».
Helen Maria Williams, durante i dieci mesi del Terrore (settembre 1793-
luglio 1794), finì anche in prigione e la sua amica francese Olympe de
Gouges sul patibolo. In Una rivoluzione della mente Israel aveva analizzato
i «due fiumi» dell’Illuminismo: quello di Locke e Newton, «riformista»,
deista e incline al compromesso con le confessioni cristiane, e quello di
Spinoza, «radicale», materialista, ateo e democratico. In La Rivoluzione
francese nota che «i filosofi e gli illuministi che presero parte agli Stati
generali del 1789 erano pochissimi»: Condorcet, che sarebbe stato uno dei
più importanti «architetti della Rivoluzione», non riuscì a farsi eleggere
deputato e Sieyès ci riuscì solo per un soffio. L’astronomo dell’Accademia
reale delle scienze Jean Sylvain Bailly invece venne eletto, ma, come
spiegò lui stesso, fu un’eccezione, tenuto conto della «grande
disapprovazione dell’assemblea elettorale nei confronti degli uomini di
lettere e degli académiciens». Talché si può dire che solo dieci dei
milleduecento deputati degli Stati generali del 1789 possono essere
considerati, al pari di Mirabeau e Sieyès, «philosophes» illuministi. E non
furono certo quei dieci a muovere la rifondazione umana mirabilmente
descritta in Rivoluzionari. Antropologia politica della Rivoluzione francese
di Haim Burstin.
L’ex gesuita lussemburghese François-Xavier de Feller fu il primo a
descrivere l’azione dei «philosophes» come frutto di «un potente piano
architettato negli anni Quaranta del Settecento da un gruppo di scrittori
eccezionali che riuscì – ideando, con sapienza e sarcasmo, un linguaggio e
un modo di pensare del tutto nuovi – a fare buona impressione su parti della
società di ogni classe sociale». Grazie a «un’astuta abilità e a un oscuro
utilizzo delle parole», il gruppo sarebbe riuscito a far passare per «sublimi»
delle idee «rovinose». A ordire la cospirazione sarebbe stato, ovviamente,
Diderot, che fece dell’Encyclopédie una «fucina di eversione e di empietà».
Lui, d’Alembert e i loro seguaci erano, secondo Feller, atei «parassiti» che
«oziavano nei caffè», impegnati a «fare allusioni», a «vantarsi e a beffarsi
del modo in cui avevano imposto la loro presenza nei salotti e nelle
accademie», finendo per conquistare «posizioni di grande potere». Feller
suggeriva anche che una delle loro armi migliori fosse «l’attrazione che
esercitavano sulle donne, specialmente sulle donne giovani, dall’aspetto
grazioso, sensibili alle belle parole, ai giri di frase eleganti, alle battute e
alle più o meno sottili allusioni erotiche».
Il primo a porsi domande sulla reale influenza dei «philosophes» era
stato un discepolo di Voltaire, Jean-François de La Harpe, sostenitore della
Rivoluzione fino al 1793, il quale già a fine Settecento notò come l’autore
del Trattato sulla tolleranza avesse avuto un ruolo assai marginale nel
retroterra filosofico dei rivoluzionari, e fosse tenuto in considerazione
soprattutto per le sue «ineguagliabili abilità letterarie e per il ridicolo di cui
colpiva senza posa i vecchi pregiudizi costituiti». Per il resto era
considerato «un amico del re e degli aristocratici» e qualcuno, come il
leader dei girondini Jacques Pierre Brissot, lo giudicò addirittura un
«nemico del popolo».
Per non parlare dell’aperta ostilità di Robespierre nei confronti del
«partito dei filosofi», o meglio della «setta», come la definì il dittatore, al
cui cosmopolitismo opponeva quasi una sorta di xenofobia che lo indusse a
stroncare l’ateismo «in quanto non patriottico e contrario alla virtù e alla
normalità». «Si tratta» scrive Israel «di una tensione a cui bisogna che gli
storici diano più peso di quanto abbiano fatto finora.» Quasi esplicita a
questo punto è la polemica contro François Furet e il suo celeberrimo libro
Critica della Rivoluzione francese. C’è stato un collegamento fra il Terrore
e i princìpi rivoluzionari del 1789? Il Terrore fu, in qualche modo, un
«prodotto della philosophie»? È quel che sostengono e hanno sempre
sostenuto monarchici, cattolici e rivoluzionari disillusi, «tutti ansiosi di
mettere in relazione il philosophisme, il repubblicanesimo, il materialismo e
l’ateismo con la perversione morale», secondo Israel. Il quale poi afferma in
modo categorico che «lo studio meticoloso delle fonti suggerisce che i
sostenitori di queste tesi avevano torto».
Si dimentica troppo spesso che i filosofi, che possono dirsi responsabili
per la stagione che va dal 1789 al 1793, «furono brutalmente mandati alla
ghigliottina da Robespierre» e i sopravvissuti «negarono ostinatamente che
la Rivoluzione si fosse autoimmolata, spiegando che le idee di Robespierre
e dei suoi alleati furono il risultato di un’ideologia del tutto diversa e
contraria». Quelle idee erano, semmai, riconducibili a Jean-Jacques
Rousseau: «L’ideologia e la cultura giacobina sotto Robespierre erano
ispirate a un ossessivo puritanesimo morale rousseauista intriso di
autoritarismo, anti intellettualismo, xenofobia». Ragione per cui, scrive
Israel, «nello stesso modo in cui le letture marxiste della Rivoluzione come
risultato della lotta di classe appaiono oggi infondate, bisogna rifiutare nel
suo complesso la tesi di Furet, ampiamente rispettata, che attribuisce alle
origini e ai princìpi di base della Rivoluzione connaturate inclinazioni
totalitarie e un latente pensiero illiberale».
Parole ancor più dure sono quelle pronunciate da Israel contro un altro
mito «sconcertante» ancorché «largamente condiviso» e tuttavia «del tutto
infondato»: «Fra i più astrusi preconcetti che affliggono le interpretazioni
della Rivoluzione francese» scrive «figura la convinzione, tuttora
predominante, che la frattura tra Rivoluzione e Cristianità – in special modo
la Chiesa cattolica – non fu essenziale, ma contingente e spiegabile solo
facendo ricorso a vicissitudini successive alla Rivoluzione stessa». In realtà
«tutte le prove dimostrano il contrario»: l’impulso rivoluzionario («e non
violento») alla scristianizzazione fu «fondamentale nella visione della
leadership philosophique che fece la Rivoluzione, prima e durante il 1789».
Fu invece Robespierre che, «pur incline in modo discontinuo a concezioni
anticlericali, avversò la scristianizzazione fin dall’inizio». Quale fedele
discepolo di Rousseau, riteneva che la religione costituisse il basamento del
contratto sociale e andasse «con ogni riguardo tutelata». Anche Danton
mostrava poco entusiasmo nei confronti della persecuzione del clero o della
Chiesa. E questo conferma che «la dittatura giacobina, consolidata
nell’estate del 1793, si reggeva su una ristretta e instabile coalizione
formata da gruppi sorprendentemente disparati». Ragione per cui si può
affermare che «alcune speculazioni generali e di primaria importanza sulla
Rivoluzione francese, ribadite spesso e in ogni sede e da tempo accolte sia
dai filosofi che dagli storici, si rivelano fondamentalmente scorrette,
consegnandoci il dovere straordinariamente urgente di un riesame
approfondito e rigoroso
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