Il sigillo di Caravaggio- Luigi De Pascalis

SINTESI DEL LIBRO:
Lo straniero vestito di nero
Toscana, Territorio dei Presìdi spagnoli
Spiaggia della Feniglia
17 luglio 1610, pomeriggio
L’uomo era rannicchiato sotto lo scafo di una vecchia barca, poco più di un
relitto messo in secco a cinque o sei passi dalla battigia. La sabbia umida gli
rinfrescava il viso tumefatto e dolorante. Era caduto da cavallo per sfinimento
a mezzo miglio da lì, nella macchia che costellava la striscia di terra bassa e
sabbiosa che andava da Ansedonia al promontorio dell’Argentario e chiudeva
da quel lato la laguna di Orbetello, città che era capoluogo del Territorio dei
Presìdi e sede del locale governatorato spagnolo.
Si era trascinato fino alla vecchia barca per riprendere un po’ le forze e
soprattutto per nascondersi da quelli che lo inseguivano per ucciderlo. Lo
avrebbero trovato presto, però, perché le sue tracce sulla sabbia erano chiare e
non aveva avuto la forza e il tempo di cancellarle.
“Vengano pure, che ho di che difendermi”, pensava di continuo
sincerandosi di avere accanto la spada, una buona lama milanese che
possedeva da quando, anni prima, aveva lasciato la capitale di quel ducato.
Ma la verità era che quanto gli era accaduto negli ultimi quattro giorni lo
aveva così debilitato che perfino un bambino avrebbe potuto avere la meglio
su di lui, figurarsi i tagliagole che l’inseguivano.
“Devi sforzarti di riposare almeno un poco”, si diceva. “E al diavolo il
mondo e le sue beghe”.
Tirò a sé la bisaccia che si era trascinato dietro, ci poggiò sopra la nuca e
chiuse gli occhi, esausto.
Si agitò per chi sa quanto in un sonno inquieto e pieno di incubi. Lo destò il
suono ritmico di qualcuno che picchiava con le nocche sulla vecchia chiglia.
Attraverso una fessura tra due tavole marcite del fasciame intravide
un’ombra.
“Ci siamo, sono loro”.
Solo a quel punto si rese conto che era stato così stupido da non sguainare
la spada prima di rifugiarsi sotto lo scafo e che lì lo spazio era troppo angusto
per farlo. Sfoderò il pugnale senza recriminare; tanto, se avevano uno
schioppo o una pistola, era spacciato comunque.
«Chi c’è qui sotto?», chiese una voce maschile sconosciuta.
L’accento era toscano. Il fatto che non fosse napoletano, spagnolesco o
romano come quello dei suoi inseguitori confortò l’uomo sotto lo scafo.
«Aiutatemi, in nome di Nostro Signore».
Due mani robuste afferrarono il bordo della vecchia imbarcazione e la
sollevarono.
«Non abbiate timore, sono solo», disse la stessa voce di prima.
L’uomo strisciò fuori, si sollevò sul gomito sinistro e si voltò a guardare il
soccorritore, strizzando gli occhi perché la luce del giorno era forte e lui era
stato per molto tempo quasi al buio.
L’altro, che era asciutto e nodoso, era a piedi nudi. Sembrava un pescatore.
Doveva avere circa vent’anni ma ne dimostrava di più perché il suo viso,
cotto dal sole e dal mare, era già solcato da piccole rughe. Aveva in testa un
berretto scuro, floscio, da cui sfuggivano ciuffi di capelli neri. Indossava una
vecchia camicia incolore annodata sulla pancia e un paio di calzoni blu, senza
forma, arrotolati sui polpacci e trattenuti da una fascia dello stesso colore del
berretto.
Una barba sbiadita dalla salsedine ne incorniciava le guance magre. Gli
occhi mostravano curiosità e preoccupazione.
Appena notò che lo sconosciuto stringeva nella destra un pugnale, il
pescatore fece un salto indietro. Il relitto ricadde sulla sabbia con un rumore
ovattato, ma chi stava sotto ne era già fuori.
L’uomo col pugnale aveva un aspetto orribile. L’abito nero che indossava
era stato di buona fattura, una volta, ma adesso era sporco e strappato. I
capelli e la barba corta e rada erano scuri, arruffati e pieni di sabbia. Le
labbra erano screpolate e tumefatte. Gli occhi, lievemente sporgenti,
mandavano lampi di minaccia e paura. Il sinistro era semichiuso a causa di
una cicatrice rossastra che deturpava quel lato del viso. In uno o due punti si
era riaperta ed era incrostata di sangue rappreso.
«Cristo Santo», gli disse il pescatore. «Chi vi ha ridotto in questo stato?».
Invece di rispondere, lo straniero vestito di nero si guardò febbrilmente
attorno, poi fece una strana domanda.
«Avete visto per caso un cavallo baio?».
Il giovane notò che aveva una parlata insolita, forse lombarda.
Gli indicò la barca tirata in secco lì vicino.
«In mare non ce ne sono», disse come se fosse una cosa spiritosa. E
siccome l’altro strinse con più decisione l’elsa del pugnale, si affrettò ad
aggiungere: «Intendo, signore, che sono in mare da prima dell’alba e sono
rientrato in questo momento. Se pure qui attorno ci fosse un cavallo, non
potrei saperlo. Comunque non ne vedo. Ce la fate a mettervi in piedi?».
L’uomo provò a tirarsi su, ma non ci riuscì. Il pescatore gli tese un braccio,
lui ci si aggrappò e si alzò barcollando.
«Quanto dista Porto Ercole?», domandò.
«A piedi circa un’ora, andando di buon passo».
«Cosa che non fa per me, oggi». Un attimo di silenzio e poi: «Quando
eravate in mare avete avvistato per caso la feluca che fa la spola fra Napoli e
qui?»
«La Santa Maria di Porto Salvo, dite?»
«Sì, quella».
«No, mi dispiace; ma non è detto che non sia in porto. Oggi ero tra
Ansedonia e lo scoglio che diciamo della Tagliata. Potrebbe essere passata
mentre quello mi copriva la visuale».
«Forse sono ancora in tempo», disse l’uomo vestito di nero.
«In tempo per cosa?»
«Su quella feluca ci sono i miei bagagli».
«Ah! E perché non ci siete pure voi?»
«È una storia lunga e forse è meglio che non la sappiate». Il viso del
pescatore si fece scuro. L’uomo precisò stancamente: «Non ve ne abbiate a
male, mi sembrate un buon cristiano ma chi mi ha separato a forza dalla mia
roba e mi ha ridotto come vedete non lo è. Mi vuole morto. Certe volte
ignorare le cose salva la vita».
Quel giorno il pescatore non aveva preso neppure una sardina e aveva
lacerato la rete su uno scoglio sommerso. L’essersi imbattuto in
quell’inquietante personaggio che per sua stessa ammissione avrebbe potuto
portargli dei guai chiudeva degnamente una giornata davvero schifosa! Voltò
le spalle e si avviò verso la propria barca.
«Aspettate».
L’uomo con la cicatrice fece per raggiungerlo ma dopo due o tre passi
crollò in ginocchio. Il pescatore si voltò, lo guardò e disse con un vago tono
di commiserazione: «Siete proprio male in arnese, signore mio».
L’altro fece una smorfia e lo guardò da sotto in su.
«Vorrei vedere voi al mio posto. Sono digiuno da quasi quattro giorni e per
due notti, invece di dormire, sono stato picchiato e torturato. Poi ho galoppato
quasi senza sosta da Palo a qui, dormendo pochissimo. Insomma, non ho più
forze e se non mi aiutate sarò una preda anche troppo facile per chi mi
insegue».
«E chi vi insegue, alla fine?».
Lo sconosciuto capì che se non avesse detto qualcosa il pescatore l’avrebbe
lasciato lì, così decise di rivelargli l’indispensabile.
«Non lo so di preciso. Di uno conosco il volto, questo sì, ma ignoro il
nome. L’unica cosa sicura è che si accompagna a ceffi peggiori di lui». Provò
di nuovo ad alzarsi ma non ce la fece. «Se mi date riparo per la notte», disse
in tono disperato, «e mi aiutate a recuperare la mia roba o a imbarcarmi di
nuovo su quella maledetta feluca, vi darò dieci ducati d’oro. È quasi tutto
quello che mi è rimasto».
«Dieci ducati? Siete sicuro? Scusate, ma non avete l’aria di essere ricco».
Per tutta risposta l’uomo lanciò al pescatore una piccola borsa.
«Contateli!».
Quello la aprì e ne scrutò il contenuto, poi la richiuse e la soppesò
pensieroso. Con quella cifra avrebbe potuto dar via la sua barchetta e
comprarne una più grande; e procurarsi anche una rete nuova. Se la infilò
nella fascia che gli cingeva i fianchi e disse a mezza bocca: «Immagino che il
vostro bagaglio valga più di dieci ducati».
«Sì, ma non ho da darvi altro».
«Non l’ho detto per questo. Dieci ducati bastano e avanzano per ciò che
chiedete. Sono solo curioso di sapere cosa rischiate di perdere».
Ecco un’altra notizia che l’uomo vestito di nero non avrebbe voluto dare,
ma non aveva scelta.
«Sulla feluca ci sono tre dipinti che valgono la mia vita».
«Devono essere molto belli per contare quanto una vita, signore mio».
«Sì, credo che lo siano. Comunque sono la sola merce di scambio che ho».
Il pescatore aggrottò la fronte. Non capiva. «Sono un artista, un pittore»,
proseguì l’uomo con un sospiro rassegnato. «Mi chiamo Michelangelo
Merisi, ma alcuni mi conoscono come Caravaggio perché sono cresciuto in
quel marchesato. Quattro anni fa, a Roma, ho ucciso in duello un uomo e
sono stato condannato alla decapitazione. Quelle tre tele sono il pagamento
concordato con sua santità per la grazia. L’accordo era che avrei dovuto
portargliele di persona, a Roma».
Il giovane fissò con maggiore attenzione il viso sfregiato del pittore. Se era
davvero un assassino ricercato dal papa, non c’era da fidarsene.
«Non sarebbe stato più sicuro spedire i quadri e farsi mandare l’atto di
grazia?», domandò con tono sospettoso.
Caravaggio sorrise con amarezza.
«Sì, l’ho pensato anch’io e l’ho fatto presente al mio mediatore, che è un
cardinale. Mi ha risposto che l’andata a Roma doveva essere un necessario
gesto di sottomissione».
«O una trappola!».
«O una trappola, certo. Ho pensato anche questo, soprattutto negli ultimi
giorni. Ma a volte non si può negoziare; come nel nostro caso, dal momento
che io ho bisogno di aiuto e sembra che possiate darmelo solo voi».
Nonostante i dieci ducati appena intascati il pescatore continuava a essere
diffidente.
«Non vi capisco, signore: se dovevate andare a Roma, come mai siete finito
nei Territori spagnoli di Toscana?».
Michelangelo capì che se voleva convincere il pescatore ad aiutarlo doveva
aprirsi di più.
«Vi dirò ogni cosa, lo giuro. Ma per carità di Dio, trovatemi un rifugio per
la notte e cancellate meglio che potete le tracce sulla sabbia e qui in giro.
Cancellate pure le vostre se volete godervi i miei dieci ducati».
«Sì, ma…».
«Non c’è tempo, vi dico! Quella gente potrebbe venire qui da un momento
all’altro. E giuro che non scherza
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