Il trono di Cesare. La saga completa: Combatti per il potere-Il prezzo del potere-Il fuoco e la spada – Harry Sidebottom

SINTESI DEL LIBRO:

Roma. Palatino. Il giorno prima delle None di marzo, 238 d.C.
Era ancora buio. Al prefetto pretoriano piaceva passeggiare nei giardini
imperiali prima dell’alba. Nessun assistente lo accompagnava e non portava con
sé alcuna torcia. Era un momento di quiete e solitudine, un momento dedicato
alla riflessione, prima dei doveri del giorno, i doveri che sembravano sempre
allungarsi come un viaggio seccante senza fine apparente.
Vitaliano pensava spesso di ritirarsi, di vivere in tranquillità in campagna con
moglie e figlie. Immaginò la casa in Etruria. La Via Aurelia e l’operosa cittadina
commerciale di Telamone erano a solo un paio di miglia al di là della collina, ma
era come se appartenessero a un paese o un’epoca diversi. La villa, situata tra la
costa e i pendii a terrazza, si affacciava sul mare. Era stato suo nonno a
costruirla. Vitaliano aveva fatto aggiungere due nuove ali e una stanza da bagno.
La tenuta adesso si estendeva nell’entroterra lungo entrambe le sponde
dell’Umbro. Era ideale per la pensione, per leggere e scrivere, apprezzare il
panorama, passare il tempo con sua moglie e godersi la compagnia delle figlie
negli anni che restavano prima che si sposassero. Nessun luogo era più adatto
per mettere da parte le preoccupazioni del lavoro.
Vitaliano si era guadagnato senz’altro il tempo del riposo. La sua carriera era
stata lunga: comandante di una coorte ausiliaria in Britannia, tribuno legionario
della Terza Augusta in Africa, prefetto di un’unità di cavalleria in Germania,
procuratore delle finanze imperiali nella Cirenaica, quattro anni con la cavalleria
mauritana che aveva condotto attraverso la campagna orientale e poi sul Reno.
Decenni di servizio, in lungo e largo per l’impero. Non era più giovane: aveva
più di cinquant’anni e bisogno di riposare. Ma il dovere chiamava ancora e
l’aumento del suo patrimonio non era stato ottenuto a poco prezzo. Bastavano
ancora tre o quattro anni di stipendio e altri guadagni come prefetto pretoriano e
avrebbe potuto dire basta.
I bordi di marmo bianco del sentiero rilucevano nell’oscurità. Le siepi di
bosso sapientemente potate e gli alberi da frutto erano indistinte sagome scure, i
platani e l’edera che li univa un solido muro nero. Era silenzioso
nell’Ippodromo, si udiva solo lo scrosciare dell’acqua nelle fontane; difficile
credere di trovarsi al centro di una città con un milione di abitanti. Vitaliano era
contento di aver eliminato le voliere del precedente imperatore. Il mormorio e i
movimenti delle colombe (ce n’erano davvero state ventimila?) avevano
disturbato le sue passeggiate mattutine. Era tipico di Alessandro occupare il suo
tempo emanando dichiarazioni imperiali sugli uccelli, vantandosi in modo
farisaico di come la vendita delle uova finanziasse la sua collezione e producesse
addirittura una piccola rendita, mentre sua madre rubava a man bassa dall’erario,
i persiani occupavano grandi porzioni dell’Est e le tribù germaniche davano alle
fiamme le province del Nord.
Vitaliano non aveva fatto parte del complotto ma era molto meglio che
Alessandro fosse morto.
Fermatosi accanto a una ninfa di marmo, le passò distrattamente una mano
sulla coscia levigata. Era in grado di trovare la strada tra quei sinuosi sentieri a
occhi chiusi. I suoi pensieri presero il proprio corso. Asceso dai ranghi militari,
Massimino poteva anche essere incolto, perfino rozzo e violento, ma era un
imperatore migliore del suo predecessore. Per lo meno il trace sapeva
combattere; negli ultimi tre anni non aveva fatto altro che condurre campagne al
di là del Reno e del Danubio. Vitaliano aveva tratto benefici dal regime;
promosso prima governatore della Mauretania Cesariense, poi vice prefetto
pretoriano. Era un risultato notevole per un equestre di un angolo sperduto
dell’Italia, un uomo con pochi significativi sostenitori. Un membro del secondo
ordine non poteva legittimamente aspirare a niente di più elevato. E Vitaliano
continuava a servire il regime con diligenza. Gli infiniti casi giudiziari che lo
attendevano quel giorno come di consueto, erano solo l’inizio.
Con la maggioranza dei pretoriani al seguito dell’esercito in battaglia, per
Vitaliano mantenere l’ordine a Roma si era dimostrato difficile. I restanti mille
uomini non erano sufficienti a disperdere la folla generata da certi arresti o per
sgomberare le masse che occupavano quei templi, i cui tesori andavano requisiti
per contribuire alle spese belliche. L’efficienza non sarebbe stata un problema se
avesse potuto dare ordini anche ai seimila uomini delle coorti urbane. Ma questo
non sarebbe mai successo. Il primissimo imperatore, Augusto, aveva separato il
comando delle truppe di stanza a Roma. Un prefetto equestre guidava i
pretoriani mentre un prefetto della città di rango senatorio controllava le coorti
urbane. Un funzionario sorvegliava l’altro e l’imperatore era sicuro che nessun
individuo potesse impossessarsi della Città Eterna, per lo meno non senza una
lotta armata. A dire la verità, le cose erano andate meglio una volta che Sabino
aveva sostituito Pupino come prefetto della città. Le coorti urbane e i pretoriani
potevano anche non nutrire amore reciproco ma, sotto un saldo comando,
insieme erano in grado di contenere la turbolenta plebs urbana. La mano di
Massimino si levava pesante sulla città ma la guerra a settentrione esigeva
sacrifici e fino ad allora l’imperatore non aveva eliminato coloro che lo
servivano con lealtà. La sicurezza derivava dalla pronta obbedienza, qualunque
fosse l’ordine. Altri tre o quattro anni e Vitaliano avrebbe potuto ritirarsi dalla
mischia.
Uno stridio di gabbiani riportò Vitaliano al presente. Il cielo si stava
rischiarando. Era tempo di prendere le redini. Si sistemò la cintura della spada,
simbolo più che evidente del proprio incarico, si tirò su la tunica e si incamminò
lungo le scale dove lo aspettavano il suo segretario e due pretoriani. Insieme si
addentrarono nel cuore del palazzo.
A parte un gruppetto di domestici e guardie, non c’era nessuno nella sala
imperiale delle udienze. L’eco che vi risuonava ne rivelava le dimensioni
sovrumane. Tre piani di colonne svettavano per un centinaio di piedi fino a dove
le enormi travi di cedro, a sostegno dell’ampia distesa del soffitto, si perdevano
nell’ombra. In fondo alla sala, la luce crescente tracciava il contorno della porta
monumentale dalla quale gli imperatori facevano il proprio ingresso davanti alla
calca dei sudditi radunati nel piazzale sottostante. Dal lato opposto, una statua
seduta di Massimino occupava l’abside, nel punto in cui l’attuale regnante
avrebbe preso posto sul trono per ricevere il Senato e i postulanti prescelti, se
mai fosse tornato a Roma. Lungo le pareti, le divinità di marmo guardavano
dall’alto delle loro nicchie l’adamantino collega.
Vitaliano espresse devozione, chinando il capo e mandando un bacio con la
punta delle dita. D’un tratto si chiese come sarebbe stato tenere banco in quella
sala, non inchinarsi ma ricevere obbedienza, essere signore di tutti quelli su cui
si posava il tuo sguardo. Due imperatori erano appartenuti all’ordine equestre.
Da bambino, Massimino aveva fatto il pastore di capre. La mente di Vitaliano si
tirò indietro. Anche solo nutrire simili pensieri era considerato tradimento. Una
parola o un gesto superficiale, qualcosa mormorato nel sonno, tutto poteva
portare a un’accusa. A quel punto gli eventi avrebbero fatto il loro corso; un
carro chiuso diretto a nord, le pinze e le tenaglie brandite da mani esperte, fino a
farti implorare la spada del boia. La tua testa in cima a una picca. I corvi che
banchettavano coi tuoi occhi. Tirò su la schiena e si avviò con passo deciso alla
porta che dava accesso alla confinante basilica.
Quando entrò, il brusio della conversazione si spense. I primi ricorrenti erano
stati ammessi. Questa sala era più piccola. Per di più, due colonnati corinzi,
disposti lungo le pareti, si disputavano lo spazio. Tra coloro in attesa, vide
Timesiteo.
Mentre camminava lungo il colonnato più vicino, Vitaliano ripensò al caso. Il
piccolo greco era invischiato in un conflitto privato riguardante un’eredità.
Timesiteo era responsabile della distribuzione del grano. Il suo avversario era un
eminente senatore. Nessuno dei due era un uomo del quale era consigliabile
alienarsi le simpatie se fossero stati alla pari, ma non lo erano. Timesiteo aveva
un nemico giurato in Domizio, prefetto del campo imperiale, mentre l’altro era
uno dei pochi protettori che Vitaliano aveva presso l’imperatore. E c’era un
rancore personale. Tre anni prima, durante il consilium, Timesiteo aveva messo
in discussione la nomina di Vitaliano a governatore della Mauretania Cesariense.
Il graeculus doveva essere disperato per aver bisogno del suo aiuto proprio ora.
La disperazione non gli avrebbe fatto alcun bene.
Un centurione dei pretoriani si fece avanti mentre Vitaliano giungeva presso
l’abside dove si trovava il tribunale.
«Sono arrivati soldati dal nord, prefetto. I dispacci recano il sigillo imperiale.
Il loro ufficiale dice che ha un messaggio privato di estrema importanza da parte
di Massimino Augusto in persona. Riguarda la sicurezza della Res Publica.
Stanno aspettando di fuori nel portico».
Vitaliano annuì. «Di’ loro che li riceverò tra un momento». Salì sulla pedana
rialzata e si rivolse alla sala. «Perdonatemi, la corte ritarderà la sua seduta. Sono
giunti ordini dal nobilissimo Augusto». Malgrado la sua gentilezza, un mare di
facce ansiose lo guardò dal basso. Sapevano bene quanto lui cosa significava:
altri arresti, altri uomini importanti mandati sotto stretta sorveglianza su a nord
per non essere mai più rivisti. Poteva essere chiunque di loro. Il graeculus
Timesiteo, il suo avversario senatore e ciascun uomo presente avrebbe
consultato la propria coscienza, richiamando alla mente ogni recente
conversazione, per quanto banale. Non temevano solo per se stessi. Tutti
conoscevano le terribili ripercussioni sulle famiglie delle vittime: il ceppo del
boia o, nel migliore dei casi, l’esilio, la confisca e l’abietta povertà.
Fuori il sole si era levato. La luce si rifletteva sul lucido rivestimento delle
pareti. Tradimento e paura non erano una novità a Roma. Tanto tempo prima,
l’imperatore Domiziano aveva fatto portare dalla remota Cappadocia la bianca
pietra dalla superficie riflettente. Come tutti gli imperatori, voleva vedere cosa
accadeva alle sue spalle.
Due soldati stavano parlando con il centurione e con le quattro guardie
pretoriane ferme all’ingresso posteriore della basilica. Ammutolirono e
scattarono sull’attenti quando videro Vitaliano. Il centurione indicò lo spazio
aperto al di là del portico.
Un ufficiale era fermo vicino alla fontana centrale. Dava le spalle a Vitaliano
e sembrava intento a studiare il modo in cui l’acqua scorreva sull’isola
raffigurante la Sicilia che dava il suo nome al cortile. Al rumore dei passi, si
voltò. Era giovane, forse sui venticinque anni, bruno e di belle sembianze. Aveva
un vago aspetto familiare ma Vitaliano non riusciva a collocarlo.
«Prefetto», salutò il giovane ufficiale. Da vicino si notavano il suo pallore e
l’aria stanca. Aveva la tunica sporca del viaggio. Tra gli ornamenti della cintura
militare c’era un memento mori, uno scheletro d’argento. Consegnò il dispaccio.
Vitaliano si rigirò il dittico tra le mani: avorio e oro, malamente sigillato
dalla porpora imperiale con l’aquila dei Cesari. Ruppe il sigillo, aprì la tavoletta
incernierata e lesse.
Imperatore Gaio Vero Giulio Massimino a Publio Elio Vitaliano, nostro
amatissimo e leale prefetto dei pretoriani.
Mentre eravamo in marcia contro i sarmati, è stato con immenso dispiacere
che abbiamo ricevuto notizia di un’ennesima cospirazione. La rilevanza dei
traditori impedisce di mettere per iscritto i loro nomi. Il latore di questa lettera
ti dirà le loro identità. Adesso mi rivolgo a te perché, nello stesso spirito per cui
sei stato scelto come prefetto e hai svolto i tuoi doveri, tu non risparmi alcuno
sforzo per arrestare questi malvagi malfattori e consegnarli a noi, in modo che,
con scrupolose indagini, possiamo accertare la diffusione del loro sacrilego
veleno.
Nostro figlio Vero Massimo manda i suoi saluti e anche sua moglie Giunia
Fadilla saluta sia te che tua moglie. Alle tue figlie invieremo un dono, degno
della loro virtù e della tua. Ti diamo ordine di mantenere le truppe in città fedeli
alla Res Publica e a noi stessi, mio fedelissimo, carissimo e affezionato amico.

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