Il farmacista di Auschwitz – Dieter Schlesak

SINTESI DEL LIBRO:
Ci spingono nelle docce. Vedo fiamme che ardono in una lunga
fossa.
Sento strilli, bambini che piangono, cani che latrano, colpi di
pistola.
Le lunghe lingue di fuoco nascondono ombre saltellanti. Fumo,
cenere trasportata dal vento, odore di capelli e pelle bruciati
riempiono l'aria. "Non può essere vero", grida il mio vicino. Bambini,
donne, malati sono spinti vivi tra le fiamme dai cani pastori tedeschi.
Una vampata di calore pazzesco. Poi una raffica di spari. Una sedia
a rotelle precipita insieme con un vecchio tra le fiamme: un urlo
stridulo. Poppanti scaraventati nel fuoco, come candidi calici floreali
gettati tra i rifiuti. Un adolescente scappa per salvarsi; i cani gli
danno la caccia, lo sospingono tra le fiamme. Un grido, ciò che
resta.
Una donna, con il petto scoperto, allatta suo figlio. Finisce nel
fuoco con il bimbo al seno. Una sorsata di latte materno fino
all'eternità.»
Adam ha visto, Adam sa. Sa qualcosa che noi non sappiamo, né
sapremo mai. Ma è sopravvissuto. Dunque, neppure lui sa quello
che sanno i morti. Adam ha tutti i sensi di colpa di chi sopravvive.
Scrivere l'ha aiutato a sopravvivere. Adam ha scritto, «là», e ha
scritto in tedesco.
Adam: «Io sono tedesco, sono loro ad avermi fatto ebreo. Il
tedesco è la mia madrelingua. E da LEI, dalla madre lingua, mi sono
rifugiato, come se lei sola, e solo lei. potesse darmi conforto quando
non ce la facevo più, quando tutto diventava così insopportabile che
avrei preferito finire nel fuoco insieme con i miei compagni di
sventura, gettarmi anch'io nella fossa ardente. Leggi qui, io non
posso dimenticare». E mi allungò una delle sue carte fittamente
ricoperte da una scrittura minuta. «Ma la vita deve continuare»,
diceva. E guardava fisso davanti a sé. Se Adam entra in una stanza,
non si può fare a meno di notarlo: la riempie completamente, riempie
la casa. La sua presenza trasforma lo spazio. Tutti tacciono; appena
lui entra, diventano silenziosi. Lui è Adam. É stato «là». Ha fatto
parte del Sonderkommando, l'unità speciale dei crematori. É uno
che, dentro, ha cose che noi non possiamo capire.
Adam vive, esiste realmente. Io ho potuto guardarlo negli occhi,
abbracciarlo, mangiare, passeggiare, discorrere con lui. Ho potuto
vivere il suo silenzio. Il suo essere assorto. Il suo essere
costantemente presente e assente nello stesso istante... Essere
assente è come essere morto eppure ancora in vita... accanto a
quella fossa... a quei giorni. A quei giorni? Ma sono ancora qui: non
passeranno mai più... «Allora improvvisamente - una cosa del
genere non l'avevo mai vissuta, come posso descriverla? - il mio io
consapevole si estraniò, transitò dall'"altra" parte; avvertii una strana
compassione per la guardia delle SS che lassù, in mezzo a un
calore insopportabile, compiva il suo duro lavoro di assassino... Ci
guardammo muti: questo, questo non può, non deve essere. Eppure
è la verità.» Così scriveva Adam, l'ultimo ebreo di SchäBburg. Ero
andato a trovarlo a casa sua e ora, dopo essermene nuovamente
ripartito, quella visita mi pareva un addio definitivo, perché lui era
vecchio e malandato. Certo, posso sempre continuare a sentirlo al
telefono - due volte la settimana, - certo, possiedo molte sue lettere,
e il suo diario, e i «rotolini» che mi ha dato, ovviamente in copia. Lo
si può contattare, anche se la sua testa sembra un un teschio, con
gli occhi neri sprofondati in orbite che paiono vuote. Il cuore ha
subito un attacco, le sue ossa rotte non sono mai guarite bene e ha
dolori dappertutto. Dai gelidi inverni nel lager, anche trentasette gradi
sottozero, si porta appresso i reumatismi, e il pneumotorace. Gli è
rimasto un solo polmone; nell'altra metà la tubercolosi si è
calcificata. Ma è vivo, non è morto come tutti i suoi amici, come sua
moglie, i suoi bambini, i genitori; Adam vive ancora...
Mi dice che abbraccia tutti i giorni sua moglie, morta. Ed è come
se qualcosa penetrasse ovunque, nella terra o nel pavimento, come
se i fiori, l'erba, gli alberi, la luce diventassero grigi e sempre questa
angoscia profonda, che svuota ogni cosa dall'interno,
quest'angoscia.
Dal diario di Adam:
Sono le bestie nere che ho dentro. Ghignano, ridono atroci,
appena taccio. Le tetre bestie nere alle mie costole. Con le ali
minacciosamente chiuse, se ne stanno accovacciate qui oppure si
rannicchiano nelle caverne dei miei organi in cui non ho più il
coraggio di rientrare. Nel buio delle mie viscere si è insinuato
qualcosa di spaventoso. Le caverne, le cerco fuori di me, fuori di me
per la paura.
E quando ingoio pillole forti, per un po' se ne stanno nella mia
debole carcassa e sognano il mio incubo, fino a che io, scacciato, mi
sveglio di soprassalto in un altro sogno... Improvvisamente tutto si
dissolve, le braccia s'anneriscono, mia moglie, che «là» è diventata
cenere, si dissolve in qualcosa di grigio. La stanza, le pareti cadono
a pezzi, ma non in una luce sfolgorante. No. Tutto si dissolve in un
nulla grigiastro, in un torbido mattino delle ceneri, in cenere,
cenere... il mondo un'unica voragine... E poi il risveglio, come ogni
mattino ai quattro acuti colpi di fischietto, al comando: «In piedi!
Prepararsi! In piedi, cani bastardi! Su, alzarsi!». Sono un'altra volta
nel lager, come sempre! E lo so, tutto il resto era solo un sogno, una
sorta di vacanza.
Quel che conta sono solo gli uomini, che conosciamo e abbiamo
conosciuto, i vivi e i morti. E noi parliamo per i morti. Viviamo per
loro. Forse loro hanno aperto una porta in quel regno, la cui
dimenticanza, forse, più d'ogni altra cosa ha reso possibile questi
crimini. I morti sono l'unica realtà rimasta. Quelli che sanno, che
l'hanno vissuto. Tutto il resto, per me, è come scomparso.
Le esperienze di Adam non si lasciano raccontare. «Capita a tutti
noi che l'abbiamo vissuto», diceva. «Veniamo da un altro mondo...
da voi ci separa un abisso, una sorta di vuoto dell'orrore che ha a
che fare con la vita in sé e non tanto con l'abisso tra i carnefici e le
vittime; a meno che tutti coloro che non sanno, o continuano a
pensare come hanno fatto fino adesso, non appartengano anch'essi
ai carnefici! Perché, da quando è accaduto "quello", è cambiato tutto
sulla terra!» E parlando sottovoce, pianissimo, a sé stesso, citava
una poesia del suo compaesano di Czernowitz, Paul Celan, perché
sembrava che ora parlassero i morti, le vittime, gli uccisi, che
avessero oltrepassato il confine venendo verso noi viventi, come per
infonderci speranza, per consolarci, perché da allora era cambiato
tutto ed era come se la vecchia morte non esistesse più e non
dovessimo più temerla, perché loro erano qui, leggeri, pieni di
speranze, anche se quasi inudibili: «Se deve esistere un senso nella
morte di milioni di vittime, va concessa una chance alla speranza
decisamente folle che sia stata aperta la frontiera tra la vita e la
morte: Voi macinate nei mulini della morte la bianca farina della
promessa, / la imbandite ai nostri fratelli e sorelle - / Noi agitiamo le
chiome bianche del tempo. / (...) venga ciò che ancora non fu mai! /
Venga dal sepolcro un uomo «.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo