Il desiderio – Vina Jackson

SINTESI DEL LIBRO:

La musica era alta. L’oscurità nella discoteca quasi totale. Aveva la gola
secca, ci voleva un altro drink.
Mentre si dirigeva verso il bancone, si lasciò distrarre dall’intreccio colorato
che le luci stroboscopiche disegnavano a intermittenza sul pavimento.
Un volto familiare. Una mano posata sul fianco di una donna. Una coppia che
si baciava.
Li riconosceva anche nella penombra.
Olen. E Simone.
Giselle stava per scoppiare a piangere.
Corse verso il canale, sul selciato scivoloso e, nel buio assoluto, attraversò con
prudenza lo stretto ponte di legno. In lontananza, il rombo del tuono annunciava
una tempesta imminente.
La pioggia cominciò a cadere quando raggiunse l’acciottolato della banchina
di sinistra. Era già stata a Camden Market diverse volte ma sempre di giorno,
quando il quartiere brulicava di vita e rumore. Di notte era un luogo desolato e
inquietante, una di quelle città fantasma che si vedono nei film.
Il cuore era pesante come un macigno nel petto. Il suo corpo era un’unica fitta
di dolore, un peso terribile le gravava sulle spalle, anche se non c’era nulla di
puramente fisico in quel malessere. Aveva radici più profonde, come se la sua
anima fosse stata lacerata.
Rallentò per non cadere.
Avrebbe voluto essere ovunque in quel momento tranne che a Londra. Di
nuovo a casa magari, a Parigi. O a Orléans, la città dove era nata e in cui aveva
passato l’infanzia. Chissà perché le era tornata in mente, in realtà ne aveva
ricordi piuttosto confusi, forse inaffidabili, ma di certo più felici. Oppure,
sempre sulle ali della fantasia, sarebbe potuta scappare in America, verso la tanto
sognata New Orleans – un luogo che non aveva mai visitato, ma che nella sua
fervida immaginazione brulicava di vita e magia nera. Lì avrebbe potuto vivere
come uno di quei personaggi nelle storie di vampiri di Anne Rice che amava
tanto. Mentre cercava di scacciare quell’illogica e assurda fantasia, si rese conto
che era da tanto tempo che non pensava alla città sulle sponde del Mississippi.
Come mai proprio ora?
«Giselle!».
Si voltò.
«Possiamo parlare? Ti prego».
Era Olen.
Il suo primo istinto fu scappare. E invece aspettò che Olen andasse da lei sulla
riva del canale che dolcemente degradava verso Camden High Street, dove con
un po’ di fortuna avrebbe preso l’autobus sfuggendo alla tempesta sempre più
furiosa. I capelli le si erano già appiccicati al viso e al collo.
Olen era più scarmigliato che mai. La T-shirt bianca e leggera e i jeans attillati
gli fasciavano il corpo alto e robusto, i ricci neri e indomabili erano
completamente appiattiti per la pioggia. Non aveva più un briciolo della sua
solita sicurezza, e anzi adesso aveva un’aria parecchio patetica.
La raggiunse.
«Grazie per avermi aspettato», disse.
La rabbia le montò improvvisamente nell’animo, e Giselle desiderò con tutto
il cuore di punirlo per averla umiliata in pubblico. Non disse una parola, si limitò
ad asciugarsi il fiume di acqua e lacrime che le rigava il volto.
Olen la fissava con occhi da cane bastonato, implorando silenziosamente il
suo perdono. Era come se diventasse sempre più piccolo in mezzo all’infuriare
della tempesta.
Quando aveva visto il suo ragazzo baciare la sua amica, Giselle aveva capito
una cosa importante.
Non era innamorata di lui.
E quella scoperta era stata come una coltellata improvvisa. Non le importava
assolutamente nulla di Olen. Per tutto quel tempo, non aveva fatto altro che
mentire a se stessa, innamorata soltanto dell’idea di avere un ragazzo. Dell’idea
che uno come Olen – bello, diverso – avesse perso la testa per lei. Ah, quant’era
stata sciocca!
«Che cosa posso dire?», chiese Olen.
«Niente».
E così la rabbia cominciò lentamente a scemare, lasciando il posto alla pietà.
Non verso se stessa, ma verso di lui. Voleva ancora bene a Olen, o almeno così
credeva, anche se non lo amava.
E ora doveva trovare un modo per spiegargli come mai non le importava più
di averlo visto baciare un’altra.
Eppure si sentiva ancora molto scossa. Persa. Confusa. Aveva una relazione
con un ragazzo che non amava affatto, e quella consapevolezza la tormentava.
Era come se una parte della sua identità fosse svanita. Non era la ragazza che
credeva di essere, ma una persona completamente diversa. Una verità con cui
adesso doveva fare i conti.
Probabilmente doveva soltanto girare i tacchi e andarsene, ma non ne aveva la
forza.
Un silenzio imbarazzato scese tra loro. La pioggia cadeva imperterrita,
rimasero a guardarsi, senza dire una parola. A quell’ora della notte praticamente
non c’era traffico.
«Mi dispiace», disse Olen, a testa bassa.
«Fai bene…».
Ma non le venivano le parole.
«Possiamo parlarne?», chiese Olen.
Giselle sventolò rabbiosamente una mano, indicando il cielo in tumulto e
alzando le spalle.
«Non credo sia il momento né il luogo adatto».
«Dovrà pur esserci un bar da qualche parte, no?».
Giselle si guardò intorno, scrutando la strada oltre il ponte. La luce arancione
di un taxi brillava in lontananza e quasi cedette alla tentazione di chiamarlo,
saltare su e filare dritta a casa. Ma sapeva benissimo che non si poteva
permettere un taxi. Se avesse sprecato così i suoi soldi, probabilmente si sarebbe
ritrovata a mangiare fagioli in scatola e toast per il resto della settimana, fino a
quando non le avessero accreditato la rata della sua misera borsa di studio.
D’altro canto, però, era già bagnata fradicia e la lunga camminata fino alla
metropolitana più vicina avrebbe soltanto peggiorato le cose. Non poteva
neanche rischiare di beccarsi l’influenza adesso che mancava solo una settimana
agli esami di fine semestre.
«Andiamo in un posto asciutto», gli disse.
Frequentavano la stessa scuola di danza. Olen era un anno avanti a lei e si era
trasferito definitivamente a Londra, ormai libero dalla pressione degli esami. Lo
aveva visto ballare diverse volte e non c’erano dubbi che fosse una delle stelle
del gruppo.
Sinuoso, elegante e sicuro di sé, fluttuava leggero sul pavimento di legno della
sala. Quando ballava lui sembrava tutto così semplice. I gesti armoniosi e
l’interazione con gli altri ballerini erano naturali, come se non richiedessero
alcuno sforzo, alcuna tecnica. E invece per lei… ogni movimento le comportava
un’enorme fatica. Se solo Olen avesse avuto la stessa sicurezza anche a letto.
«Dove?», le chiese.
«Ovunque, lontano da qui».
Il taxi nero aveva attraversato High Street e si trovava soltanto a qualche
metro di distanza. Olen sollevò il braccio sinistro per chiamarlo. Suo padre
dirigeva un’importante ditta di spedizioni in Danimarca e, al contrario di Giselle,
poteva permettersi tutti i taxi che voleva. Non aveva neanche fatto domanda per
la borsa di studio.
Il taxi sterzò e si fermò. Si misero a correre, Olen le aprì lo sportello e la
lasciò salire per prima. Giselle venne assalita da un’ondata di aria calda e stantia
non appena si lasciò cadere sul sedile di pelle. Anche Olen saltò su, chiudendo di
scatto la portiera.
«Dove vi porto, ragazzi?», chiese l’autista.
L’ultima cosa che Giselle desiderava in quel momento era tornare al suo
minuscolo loft a Dalston, promemoria costante di irraggiungibili sogni e
ambizioni infrante, con quella perdita nel soffitto che il padrone di casa non si
scomodava ad aggiustare e la caldaia talmente inaffidabile che ogni doccia si
trasformava in una pericolosa avventura.
Guardò Olen dritto negli occhi. Stava aspettando che decidesse lei la
destinazione.
«Da te?», gli suggerì. «Però magari ci fermiamo a bere qualcosa prima. Giusto
per sbollire un po’…». Sapeva che in quelle circostanze andare da Olen era la
cosa più sbagliata, in quella camera che era almeno il triplo della sua, al terzo
piano di un palazzo di Kensington di proprietà della scuola. Assolutamente fuori
dal budget di Giselle. Non riuscì nemmeno a finire la frase per la rabbia.
Olen ordinò al tassista di portarli a Notting Hill. Diedero la precedenza a un
autobus notturno che avanzava lentamente sotto la pioggia, girarono a destra
sotto il ponte della ferrovia. Giselle avrebbe potuto prendere quello stesso bus
che adesso si stava dirigendo verso East London. Ma ormai era troppo tardi.
Forse era stato un errore. Sentì la mano di Olen che le sfiorava un ginocchio in
cerca di perdono o rassicurazione, o magari entrambi, e subito rimpianse di non
aver avuto la forza mentale di girare i tacchi e abbandonarlo sotto la pioggia
incessante. Inghiottito dalla notte, il taxi si diresse verso sud.

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