Il filo dell’orizzonte –  Antonio Tabucchi

SINTESI DEL LIBRO:

 Una città
di mare che somiglia a Genova, un
oscuro fatto di sangue, un cadavere
anonimo, un uomo che istruisce una
sua privata inchiesta per svelarne
l’identità. Ma il procedimento di
Spino, il detective della vicenda, non
segue una logica di causa/effetto.
Invece delle apparenze visibili egli
cerca i significati che queste
apparenze contengono e la sua
ricerca corre sul filo ambiguo che
separa lo spettacolo dallo spettatore.
Così la sua inchiesta “impazzisce e
da indagine su una morte slitta sul
piano delle segrete ragioni che
guidano un’esistenza,
trasformandosi in una sorta di caduta
libera, vertiginosa e obbligata al
tempo stesso: una ricerca senza
respiro tesa verso un obiettivo che,
come l’orizzonte, sembra spostarsi
con chi lo insegue. Un
indimenticabile romanzoenigma che
sotto l’apparenza del “giallo”
nasconde un’interrogazione sul
senso delle cose. L’essere stato
appartiene in qualche modo a un
“terzo genere”, radicalmente
eterogeneo all’essere come al
nonessere. Vladimir Jankélévitch.
1. Per aprire i cassetti bisogna
girare la maniglia a leva, premendo.
Allora la molla si sgancia, il
meccanismo scatta con un lieve clic
metallico, si mettono
automaticamente in movimento i
cuscinetti a sfera, i cassetti sono
leggermente inclinati e scorrono da
soli su piccole rotaie. Prima
appaiono i piedi, poi il ventre, poi il
tronco, poi la testa del cadavere. A
volte, per i cadaveri non autopsiati,
bisogna aiutare il meccanismo
tirando con le mani, perché alcuni
hanno il ventre gonfio che preme
contro il cassetto superiore e
ostacola il movimento. Gli autopsiati
invece sono asciutti, come
prosciugati, con quella specie di
cernieralampo lungo il ventre e
l’interno riempito di segatura. Fanno
pensare a bamboloni, a grandi
fantocci di una rappresentazione
finita buttati in un deposito di robe
vecchie. A suo modo questo è un
magazzino della vita. I detriti della
scena, prima della definitiva
scomparsa, fanno qui un’ultima
sosta in attesa di una classificazione
opportuna, perché non si possono
ignorare le cause del loro decesso.
Per questo sostano qui, e lui li
assiste e li sorveglia. Amministra
l’anticamera della definitiva
scomparsa della loro immagine
visibile, registra la loro entrata e la
loro uscita, li classifica, li numera, a
volte li fotografa, riempie la scheda
che permette loro di sparire dal
mondo del sensibile, elargisce loro
l’ultimo biglietto. Lui è il loro
estremo compagno, e qualcosa di
più, come un tutore a posteriori,
impassibile e obiettivo. La distanza
che separa i vivi dai morti è poi
tanto grande?, pensa a volte. Non sa
rispondersi. La convivenza, diciamo
così, aiuta comunque a ridurla. Essi
devono portare un cartellino
attaccato all’alluce sul quale è
annotato un numero di matricola, ma
lui è certo che nel loro remoto essere
presenti essi detestano essere
classificati con un numero come se
fossero oggetti. Per questo fra sé e
sé li chiama con nomignoli
scherzosi, a volte del tutto gratuiti, a
volte suscitati da una vaga
somiglianza o da una circostanza in
comune col personaggio di un
vecchio film: Mae West, Professor
Unrat, Marcelino Pan y Vino.
Marcelino, per esempio, è uguale a
Pablito Calvo: viso tondo, ginocchia
sporgenti, una frangetta nera e
lustra. Tredici anni, caduto da
un’impalcatura, lavoro clandestino.
Il padre non è reperibile, la madre
abita in Sardegna e non può venire,
glielo rispediscono domani. Del
primitivo ospedale solo l’astanteria e
l’obitorio sono rimasti in questa
parte vecchia della città, altrimenti
detta centro storico, da tempo in fase
di studio e di risanamento. Ma gli
anni passano, le amministrazioni
comunali si avvicendano, gli
interessi cambiano e la parte da
risanare si ammala sempre più. E poi
la città preme minacciosa da altre
parti, attira altrove l’attenzione degli
esperti, là dove si addensa la
popolazione “produttiva, dove sono
nati dormitori immensi. Là sono gli
edifici che esigono gli interventi
degli uffici tecnici: a volte la collina
smotta come se volesse scrollarsi di
dosso quelle brutte incrostazioni, e
allora scattano le misure urgenti, gli
stanziamenti eccezionali; e poi vi
sono strade da fare, tubature da
allacciare, le scuole, gli asili nido, i
consultori. Qui invece è un’agonia
diffusa, una lebbra lenta che ha
invaso muri e case la cui fatiscenza è
sorniona e inarrestabile, come una
condanna. Vi abitano vecchi e
puttane, ambulanti, pescivendole,
giovinastri disoccupati, droghieri
con botteghe cupe e antiche, umide,
che odorano di spezie e di baccalà,
sulle cui porte si leggono a
malapena insegne sbiadite che
dicono: “Vini Coloniali
Tabacchi.

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