Gli eredi della terra – Ildefonso Falcones

SINTESI DEL LIBRO:

Il mare era burrascoso, il cielo grigio plumbeo. Sulla spiaggia, i
lavoratori dei cantieri navali, i barcaioli, i marinai e i bastaixos, i
mulattieri del mare, erano tesi; molti si fregavano le mani o le
battevano per scaldarle, mentre altri cercavano di proteggersi dal
vento gelido. Quasi tutti se ne stavano in silenzio, scambiandosi
occhiate furtive per poi rivolgere lo sguardo alle onde che
s’infrangevano con forza. L’imponente galea reale di trenta ordini di
rematori per lato era alla mercé della tempesta. Nei giorni
precedenti, i maestri d’ascia dei cantieri navali, aiutati da apprendisti
e marinai, avevano provveduto a smontare tutta l’attrezzatura e gli
elementi accessori della nave: timoni, armamento, vele, alberi,
banchi, remi... I barcaioli avevano portato sulla spiaggia tutto quello
che si poteva staccare dall’imbarcazione, dov’era stato recuperato
dai bastaixos, che, ligi al loro compito, trasportavano il materiale
recuperato fino ai depositi. Avevano lasciato tre ancore che adesso,
fissate al fondale, ormeggiavano la Santa Marta, un’imponente
carcassa indifesa contro la quale s’infrangeva la mareggiata.
Hugo, un ragazzo di dodici anni con i capelli castani, mani e
faccia sporche come la camicia che indossava e che gli arrivava alle
ginocchia, non riusciva a staccare dalla galea gli occhi in cui brillava
una luce intelligente. Da quando lavorava con il genovese nei
cantieri navali, aveva aiutato a tirare in secca e a mettere in mare
parecchie imbarcazioni del genere, ma quella era grandissima e il
temporale metteva a repentaglio l’operazione. Alcuni marinai
sarebbero dovuti salire a bordo della Santa Marta per disancorarla,
poi i barcaioli avrebbero dovuto trainarla fino a riva, dove un nugolo
di uomini l’aspettava per trascinarla all’interno dei capannoni. Lì
avrebbe svernato. Si trattava di un lavoro difficile e, soprattutto,
estremamente duro, anche usando le pulegge e gli argani di cui si
servivano per trainare la nave dopo che l’avevano tirata in secco
sulla spiaggia. Benché fosse una delle potenze marittime del
Mediterraneo insieme a Genova, Pisa e Venezia, Barcellona non
aveva un porto; non esistevano ripari né frangiflutti che facilitassero
tal compito: la spiaggia era completamente esposta.
«Anemmu, Hugo», ordinò il genovese al ragazzo.
Hugo guardò il maestro d’ascia. «Ma...» cercò di obiettare.
«Niente ma», lo interruppe il genovese. «Il luogotenente dei
cantieri ha appena stretto la mano al proboviro della confraternita dei
barcaioli», aggiunse, indicando con il mento un gruppo di uomini
poco distante. «Ciò significa che hanno raggiunto l’accordo sulla
nuova somma che il re pagherà per via del rischio aggiuntivo del
temporale. La tireremo in secca! Anemmu!» ripeté.
Hugo si chinò a raccogliere la palla di ferro collegata alla catena
serrata alla caviglia destra del genovese e, non senza sforzo, la
sollevò e se la strinse al ventre.
«Sei pronto?» chiese il genovese.
«Sì.»
«Il capomastro ci aspetta.»
Il ragazzo seguì il maestro d’ascia lungo la spiaggia e passò tra la
gente che, saputo dell’accordo, discuteva, gridava, gesticolava e
gridava di nuovo, nervosa, in attesa delle istruzioni del capomastro.
Tra loro c’erano altri genovesi, anch’essi prigionieri di guerra e
immobilizzati con le palle di ferro, ciascuno con un garzone accanto
che, sorreggendola tra le braccia, gli permetteva di svolgere i lavori
forzati nei cantieri navali catalani.
Domenico Blasio, così si chiamava il genovese che Hugo
scortava, era uno dei migliori maestri d’ascia di tutto il Mediterraneo,
e probabilmente superava in abilità anche il capomastro. Blasio
aveva preso Hugo come apprendista su richiesta di messer Arnau
Estanyol e Juan il Navarro, aiutante del luogotenente, un uomo
panciuto e dalla testa calva e rotonda. All’inizio il genovese lo aveva
trattato un po’ bruscamente, anche se, quando si trattava di lavorare
il legno, sembrava dimenticare di essere un prigioniero, tale era la
passione con cui quell’uomo si dedicava alla costruzione delle
barche; tuttavia da quando il re Pietro il Cerimonioso aveva firmato
una pace precaria con la signoria di Genova, tutti i prigionieri che
lavoravano nei cantieri speravano che il patto rimettesse in libertà i
prigionieri catalani, e che lo stesso accadesse con quelli genovesi in
Catalogna. Da quel momento, il maestro si era dedicato a Hugo,
insegnandogli uno a uno i segreti di uno dei mestieri più rispettati di
tutto il Mediterraneo: costruire navi.
Quando Blasio fece capannello insieme ad altri probiviri e maestri
attorno al capomastro, Hugo posò la palla sulla sabbia e lasciò
correre lo sguardo sulla spiaggia. La tensione cresceva: l’andirivieni
degli uomini che preparavano gli attrezzi, il vocio, le grida di
incoraggiamento e le pacche sulle spalle che lottavano per vincere il
vento e il freddo, quella luce tenue e brumosa, così strana in una
terra perennemente baciata dai raggi del sole. Benché il suo compito
si limitasse a reggere la palla che il genovese portava al piede, Hugo
si sentì orgoglioso di far parte di quel gruppo. Sulla riva, vicino alla
facciata dei cantieri rivolta verso il mare, si erano raccolti numerosi
spettatori, che applaudivano e strillavano. Il ragazzo osservò i
marinai che portavano le vanghe per scavare la sabbia sotto la
galea; alcuni preparavano gli argani, le pulegge e le funi, altri
armeggiavano con le traverse di legno, precedentemente oliate di
grasso o coperte di fieno, sulle quali doveva scivolare la nave per
l’alaggio; altri ancora portavano le pertiche, i bastaixos pronti a
tirare...
Dimenticò il genovese, abbandonò la palla e corse verso il nutrito
gruppo di bastaixos riuniti sulla spiaggia. Fu ben accolto, tra pacche
affettuose. «Dove hai lasciato la palla?» gli chiese uno di loro,
spezzando la tensione tra i convenuti. Lo conoscevano tutti, o
perlomeno sapevano dell’affetto che per lui nutriva messer Arnau
Estanyol, l’anziano che si trovava al centro del gruppo e che pareva
piccolo accanto ai forti probiviri della confraternita dei bastaixos di
Barcellona. Tutti sapevano chi era Arnau Estanyol e ne ammiravano
la storia; qualche vecchio ancora raccontava i tanti favori di Arnau
alla confraternita e ai colleghi. Hugo si piantò accanto a lui in
silenzio, come se fosse cosa sua. L’anziano si limitò a spettinargli i
capelli, senza perdere il filo del discorso. Parlavano del pericolo che
avrebbero corso i barcaioli nel rimorchiare la nave, e di quello che
avrebbero corso loro quando avrebbero dovuto raggiungere la nave
per ormeggiarla. Poteva rovesciarsi. La mareggiata era spaventosa
e i bastaixos, nella stragrande maggioranza, non sapevano nuotare.
«Hugo!» si sentì gridare al di sopra del vocio.
«Hai di nuovo abbandonato il maestro?» gli chiese Arnau.
«Per il momento non ha niente da fare», si giustificò il ragazzo.
«Va’ da lui.»
«Ma...»
«Va’.»
Sollevata la palla, Hugo seguì il genovese sulla spiaggia, mentre
l’altro impartiva ordini a destra e a manca. Il capomastro lo rispettava
e anche gli altri uomini; nessuno metteva in dubbio la competenza di
Domenico come maestro d’ascia. Nel momento in cui i barcaioli
riuscirono a raggiungere la Santa Marta e, dopo averne afferrato le
funi e averla disancorata, cominciarono a rimorchiarla verso riva
scattò la frenesia. La trainavano quattro barche, due per lato. Alcuni
osservavano la scena spaventati, con l’angoscia che si rifletteva su
volti e mani contratti. Altri, i più, preferivano gareggiare a chi gridava
più forte il proprio incoraggiamento, in un baccano incontrollabile.
«Non ti distrarre, Hugo», lo richiamò all’ordine il genovese,
vedendo che si attardava osservando lo stesso punto in cui era
rivolto lo sguardo della folla: una delle barche si stava capovolgendo
e un paio di barcaioli erano caduti in mare. Sarebbero riusciti a
tornare a bordo?
«Maestro...» implorò, senza staccare gli occhi dai barcaioli che
lottavano per salvare i compagni, mentre la Santa Marta s’inclinava
a causa delle manovre della quarta barca. Hugo tremava. Rivedeva
in quella situazione la scena che gli era stata raccontata da chi
viaggiava con suo padre quando era morto, un paio di anni prima,
inghiottito dalle onde durante una traversata verso la Sicilia.
Il genovese capì; conosceva la storia, e a sua volta si lasciò
prendere dal dramma che si consumava

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