Fuga senza fine. Una storia vera –  Joseph Roth 

SINTESI DEL LIBRO:

Il tenente dell'esercito austriaco Franz Tunda finì prigioniero di guerra dei
Russi nell'agosto dell'anno 1916. Arrivò in un campo, qualche versta a nordest di Irkutsk. Con l'aiuto di un polacco diventato siberiano riuscì a fuggire.
Nel triste, remoto, solitario casolare del polacco, ai margini della taiga,
l'ufficiale rimase fino alla primavera del 1919.
Dal polacco capitavano gente che viveva della foresta, cacciatori d'orsi e
mercanti di pellicce. Tunda poteva sentirsi al sicuro. Nessuno lo conosceva.
Figlio di un maggiore austriaco e di un'ebrea polacca, era nato in una piccola
città della Galizia sede della guarnigione di suo padre. Parlava polacco,
avendo prestato servizio in un reggimento galiziano. Gli riuscì facile farsi
passare per un fratello minore del polacco. Questi si chiama Baranowicz.
Anche Tunda si chiamò così.
Ebbe un documento falso col nome di Baranowicz: adesso era nato a
Lodz, congedato dall'esercito russo nell'anno 1917 per un male contagioso e
incurabile agli occhi, di professione mercante di pellicce, residente a Verkhne
Udinsk.
Il polacco contava le sue parole come perle, una barba nera gli imponeva
il riserbo. Trent'anni prima era arrivato in Siberia come detenuto comune. Poi
rimase di sua volontà. Divenne collaboratore di una spedizione scientifica per
lo studio della taiga, camminò cinque anni per le foreste, poi sposò una
cinese, passò al buddismo, si fermò in un villaggio cinese come medico ed
erborista, ebbe due figli, li perse entrambi con la moglie per la peste, ritornò
nelle foreste, visse di caccia e commercio di pellicce, imparò a riconoscere le
orme delle tigri nell'erba più folta, i prodromi della bufera nel volo spaurito
degli uccelli, sapeva distinguere nelle nubi la grandine dalla neve e la neve
dalla pioggia, conosceva le abitudini dei cacciatori, dei predoni e degli
innocui viandanti, amava i suoi due cani come fratelli e venerava i serpenti e
le tigri. Andò in guerra volontario, ma già in caserma commilitoni e ufficiali
lo trovarono così poco rassicurante che lo rispedirono nelle sue foreste come
malato di mente. Ogni anno, a marzo, andava in città. Barattava corna, pelli,
palchi di cervo con munizioni, tè, tabacco e acquavite. Portava via qualche
giornale per tenersi al corrente, ma non credeva né alle notizie, né agli
articoli; dubitava persino delle inserzioni. Da anni andava in un bordello, da
una rossa, Jekaterina Pavlovna si chiamava. Quando dalla ragazza c'era un
altro, Baranowicz, amante paziente, aspettava. La ragazza invecchiò, si tinse i
capelli argentei, perse un dente dopo l'altro e persino la dentiera. Ogni anno
Baranowicz aveva meno da aspettare, alla fine era l'unico che andava da
Jekaterina. Lei cominciò ad amarlo, per tutto l'anno ardeva in lei il desiderio,
il tardivo desiderio di una sposa tardiva. Ogni anno la sua tenerezza diventava
più forte, la passione più calda, era una vecchia, con la carne appassita
godeva il primo amore della sua vita. Baranowicz le portava ogni anno le
stesse collane cinesi e i piccoli flauti che intagliava lui stesso e con i quali
imitava la voce degli uccelli.
Nel febbraio 1918 Baranowicz perse il pollice della mano sinistra per
un'imprudenza, segando la legna. La guarigione richiese sei settimane, e
poiché ad aprile sarebbero arrivati i cacciatori di Vladivostok, quell'anno non
poté andare in città. Jekaterina lo aspettò invano. Baranowicz le scrisse
tramite un cacciatore, confortandola. Invece delle perle cinesi le mandò uno
zibellino e una pelle di serpente e, per scendiletto, una pelliccia di orso. Fu
così che Tunda quell'anno, il più importante di ogni altro, non lesse i giornali.
Solo nella primavera del 1919 seppe da Baranowicz, ritornato dal viaggio,
che la guerra era finita.
Era un venerdì, Tunda lavava le stoviglie in cucina, Baranowicz apparve
sulla porta, si udì l'abbaiare dei cani. I ghiaccioli tintinnavano nella sua barba
nera, un corvo stava sul davanzale.
“C'è la pace, c'è la rivoluzione!” disse Baranowicz.
In quell'istante ci fu un gran silenzio in cucina. L'orologio della stanza
accanto batté forte tre colpi. Franz Tunda posò piano e con cautela i piatti
sulla panca. Non voleva turbare il silenzio. Probabilmente aveva anche paura
che i piatti si rompessero. Gli tremavano le mani.
“Per tutta la strada” disse Baranowicz “pensavo se te lo dovessi dire.
Dopotutto mi dispiace che tu vada a casa. Probabilmente non ci rivedremo
più, e neanche mi scriverai”.
“Non ti dimenticherò” disse Tunda.
“Non promettere nulla!” disse Baranowicz.
Questo fu l'addio.
2.
Tunda voleva raggiungere l'Ucraina e da Zmerinka, dove era stato fatto
prigioniero, la stazione austriaca di confine Podwoloczyska, e poi Vienna.
Non aveva un itinerario preciso, davanti a lui la strada era incerta, quanto mai
tortuosa. Sapeva che ci avrebbe messo molto. Aveva un unico piano: starsene
lontano dalle truppe bianche e dalle rosse, non preoccuparsi della rivoluzione.
La monarchia austro-ungarica era caduta, lui non aveva più patria. Suo padre
era morto come colonnello, sua madre sepolta da un pezzo. Un fratello era
direttore d'orchestra in una città tedesca di media grandezza.
A Vienna lo aspettava la fidanzata, figlia del fabbricante di matite
Hartmann. Il tenente non sapeva più nulla di lei, se non che era bella, brava,
ricca e bionda. Quei quattro attributi l'avevano abilitata a diventare la sua
fidanzata.
Lei gli spediva al fronte lettere e pasticci di fegato, qualche volta un fiore
secco da Heiligenkreuz. Lui le scriveva ogni settimana su carta da lettera
militare azzurro-scuro, con la matita copiativa inumidita, lettere brevi, concisi
resoconti della situazione, notizie.
Da quando era fuggito dal campo non aveva più saputo nulla di lei. Che
gli fosse fedele e lo aspettasse, non dubitava.
Che lo aspettasse fino al suo ritorno, non dubitava. Ma che avrebbe
smesso di amarlo quando, ritornato, le fosse stato davanti, gli pareva
altrettanto certo. Quando si erano fidanzati, lui era un ufficiale. Il grande
dolore del mondo lo rendeva, allora, più bello, la vicinanza della morte lo
faceva più grande, la sacralità di un defunto circondava l'uomo vivo, la croce
sul petto richiamava la croce su un tumulo. Se poi si contava su un lieto fine,
dopo la marcia trionfale delle truppe vittoriose sulla Ringstrasse, c'era da
aspettarsi il colletto dorato da maggiore, la scuola di guerra e finalmente il
grado di generale, il tutto avvolto nel tenero suono dei tamburi della marcia di
Radetzky.
Ma adesso Franz Tunda era un giovane senza nome, senza credito, senza
rango, senza titolo, senza soldi e senza professione; non aveva né patria né
diritti.
Si era cucito dentro la giacca le sue vecchie carte e una foto della
fidanzata. Gli sembrava più opportuno girare per la Russia con il nuovo
nome, che gli era familiare come il proprio. Solo oltre il confine avrebbe
ripreso a usare le sue vecchie carte.
Sul petto Tunda sentiva, solido e rassicurante, il cartoncino su cui era
ritratta la sua bella fidanzata. La foto veniva dal fotografo di corte, che
forniva ritratti di signore della buona società ai giornali di moda. Anche la
signorina Hartmann era apparsa in una serie di “Fidanzate dei nostri eroi”,
come la fidanzata del valoroso tenente Franz Tunda; il giornale gli era
arrivato appena una settimana prima che finisse prigioniero.
Dalla tasca della giacca Tunda poteva estrarre facilmente il ritaglio con la
foto, ogni volta che gli veniva voglia di contemplare la fidanzata. La
compiangeva prima ancora di averla guardata. L'amava due volte: come una
meta e come una cosa perduta. Amava l'aspetto eroico del proprio lungo e
pericoloso viaggio. Amava i sacrifici che erano necessari per raggiungere la
fidanzata e la vanità di quei sacrifici. Tutto l'eroismo dei suoi anni di guerra
gli pareva puerile rispetto all'impresa che ora tentava. A fianco del suo
sconforto cresceva la speranza che soltanto a causa di quel periglioso ritorno
sarebbe stato ancora un uomo desiderabile. Fu felice per tutto il viaggio. Gli
avessero chiesto se lo rendeva felice la speranza o la tristezza, non l'avrebbe
saputo. Nell'animo di alcuni uomini il dolore provoca un'esaltazione più
intensa della gioia. Di tutte le lacrime che s'ingoiano le più care sono quelle
piante su se stessi.
Tunda riuscì a evitare le truppe bianche e le rosse. In qualche mese
attraversò la Siberia e gran parte della Russia europea, in treno, a cavallo e a
piedi. Arrivò in Ucraina. Non si preoccupò né della vittoria, né della sconfitta
della rivoluzione. Al suono di quella parola legava immagini vaghe di
barricate, di plebe, dell'insegnante di storia all'accademia, maggiore Horwath.
Per barricate s'immaginava banchi neri di scuola accatastati gli uni sopra gli
altri, con le gambe rivolte in su. Plebe era pressappoco la folla che si stipava
dietro il cordone della territoriale alla parata del giovedì santo. Di quegli
uomini si vedevano solo i volti sudati e i cappelli gualciti. In mano
probabilmente tenevano sassi. Quella gente generava l'anarchia e amava la
pigrizia.
Qualche volta a Tunda veniva in mente anche la ghigliottina, che il
maggiore Horwath pronunciava sempre guillotin, senza desinenza, proprio
come diceva Parì, invece di Parigi. La ghigliottina, il cui meccanismo il
maggiore conosceva bene e ammirava, era adesso probabilmente nella
Stephansplatz, la circolazione delle carrozze e delle automobili era sospesa
(come la notte di San Silvestro), e le teste delle migliori famiglie dell'impero
rotolavano fino alla Peterskirche e nella Jasomirgottstrasse. La stessa cosa
accadeva a Pietroburgo e a Berlino. Una rivoluzione senza ghigliottina era
improbabile quanto una rivoluzione senza bandiera rossa. Si cantava
l'Internazionale, un inno che l'allievo dell'accademia, Mohr, aveva cantato
nelle cosiddette maialate dei pomeriggi della domenica. Mohr mostrava a
quel tempo cartoline pornografiche e cantava canzoni socialiste. Il cortile era
vuoto guardando giù dalla finestra, vuoto e silenzioso, tra le grosse pietre del
lastricato si udiva crescere l'erba… Una ghigliottina con la e mozza, quasi
recisa dal resto, aveva un che di eroico, di blu acciaio spruzzato di sangue.
Vista come puro strumento, pareva a Tunda più eroica di una mitragliatrice.
Tunda non prese dunque personalmente partito. La rivoluzione non gli era
simpatica, gli aveva rovinato la carriera e la vita. Ma non era in servizio
quando si trovò di fronte la storia mondiale, e per fortuna nessuna
disposizione ufficiale l'obbligava a prendere partito. Era un austriaco.
Marciava alla volta di Vienna

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