Formule mortali. La prima indagine dei Cinque di Monteverde – François Morlupi

SINTESI DEL LIBRO:
La ragazza, che quella notte di agosto varcò le porte
dell’ospedale, non era particolarmente bella, anzi. Probabilmente se
la incontraste per strada non vi girereste nemmeno per guardarla.
Magra e muscolosa, seno totalmente assente, sembrava uscita
da uno di quei programmi televisivi dove i concorrenti devono
affrontare una serie di prove di resistenza. La mancanza totale di
trucco, piercing viola appuntiti al naso ed una larga tuta comprata a
cinque euro in un mercatino dell’usato non aiutavano di certo a
renderla femminile. Eppure era nel fiore dell’età, appena trentenne, e
con qualche piccola accortezza, i suoi capelli neri, lunghi e lisci, il
viso rettangolare con un naso piccolo e sottile, avrebbero potuto
renderla perlomeno carina.
Addirittura quel suo strano tatuaggio sul braccio, a forma di
lanternino, se non fosse stato così vistoso, avrebbe avuto un suo
perché.
Ma a lei tutto ciò non sembrava importare. Soprattutto in
un’occasione simile.
Ciò che però colpiva in lei era il viso stanco, dispiaciuto e quasi
sofferente.
Salutò il poliziotto di guardia all’entrata con un cenno e gli fece
capire che non aveva bisogno di aiuto. Quest’ultimo ringraziò tra sé
e sé e continuò a sorseggiare il cappuccino appena emesso dalla
macchinetta. Accelerò il passo e svoltò a sinistra senza esitare un
secondo, destreggiandosi nei vari piani dell’ospedale in modo deciso
e fermo. Gli infiniti corridoi dispersivi dei reparti che quotidianamente
facevano ammattire ed imbestialire i malcapitati pazienti e visitatori
non sembravano turbarla. Visibilmente, non era la prima volta che li
percorreva.
Prese un ascensore tetro, con una luce che si illuminava ad
intermittenza e spinse il pulsante quattro. L’ascensore partì da terra
con un rumore poco rassicurante e simile a quello del lancio degli
Apollo.
“Già il mese scorso la luce non funzionava correttamente”,
constatò sconsolata, “possibile che per sostituire un neon ci voglia
così tanto?”.
Le porte si aprirono molto lentamente, quasi a voler risaltare
questa problematica. Sbuffando, fece qualche passo in avanti e
scorse il desk delle informazioni. Una ragazza era seduta davanti ad
uno schermo 17 pollici, concentrata. Non si degnò infatti nemmeno
di alzare lo sguardo per notare chi fosse entrato.
“Non l’ho mai vista”, pensò, “allora qualche nuova assunzione c’è
di tanto in tanto”.
Si avvicinò trascinando volutamente i piedi con le scarpe da
ginnastica sul pavimento. Irritata da quel fastidioso rumore, la
ragazza alzò finalmente lo sguardo. Sospirando, recitò:
«Le visite sono consentite unicamente dalle 10 alle 12 la mattina
e dalle 16 alle 18 il pomeriggio. La domenica però fino alle 19».
«La ringrazio per le informazioni signorina… Belli, vorrei solo
sapere se il signor Ansaldi è ricoverato qui e soprattutto quali sono le
sue condizioni».
«Lei chi è?».
«Sono Eugénie Loy».
«È straniera?».
Eugénie sospirò, non comprendendo il nesso della domanda con
la sua visita, ma come se fosse abituata, rispose automaticamente:
«No, italiana. Lei invece è straniera?».
L’infermiera la guardò di traverso, senza scomporsi:
«Non è una sua familiare?».
«No, sono una collega».
«Allora mi dispiace ma non le posso fornire alcuna informazione.
Può però provare a ripassare domani agli orari indicati e magari
incontrare un familiare del paziente per ricevere informazioni al
riguardo. L’uscita più breve è per le scale in fondo
a sinistra».
Soddisfatta per aver archiviato brillantemente questa pratica, la
ragazza ributtò lo sguardo sul pc, aspettandosi che l’ospite se ne
andasse senza importunarla più. Passò qualche secondo e, stranita
dalla totale assenza di rumori, alzò di nuovo gli occhi per notare che
la ragazza non si era spostata di un millimetro. I suoi occhi castani
intensi la fissavano attentamente.
«Dunque il signor Ansaldi è qui, ma questo già lo immaginavo.
Passiamo alla seconda domanda: potrei sapere come sta?».
Mordendosi il labbro per lo sbaglio commesso, l’infermiera
cambiò decisamente tono: «Sono le quattro del mattino, lei non
dovrebbe essere qui. Io sto lavorando e mi sta distogliendo dai miei
compiti. Non posso essere disturbata, monitoro la salute dei pazienti.
Mi vedo costretta a chiamare la sicurezza».
Eugénie non si scompose, anzi rilanciò: «Va bene e se possibile
chiami anche per favore il capo reparto Brizzi, dovrebbe lavorare di
venerdì notte. Le dica che sono qui e che se ha tempo l’aspetto».
Stupita dall’esatta conoscenza degli orari della sua superiora ed
impaurita, l’infermiera chiuse suo malgrado Candy crush appena
iniziato al pc. Indecisa, tentò di sostenere lo sguardo per verificare la
risolutezza della visitatrice. Vano tentativo. Prese il telefono e
compose un numero interno: «Mi scusi dottoressa Brizzi, c’è qui una
signora che chiede di lei. Sì, sì, le ho detto che è assolutamente
vietato vedere i pazienti a quest’ora, ma ha insistito… Come? Loy,
Eugénie Loy. Ah. La devo far accomodare? Sì, certo, non si
preoccupi». Riagganciò. Stizzita, ma consapevole di non poter fare
nulla, abdicò. «La dottoressa Brizzi arriverà tra qualche instante, può
accomodarsi nella sala d’aspetto».
«La ringrazio, lei invece può continuare il suo gravoso compito».
Quasi arrossendo dalla vergogna, l’infermiera aprì qualche
cartella a caso del desktop e fece finta di leggere referti importanti.
Eugénie si sedette su un divano sgualcito, mise le cuffie nelle
orecchie ed ascoltò l’ultimo cd dei Radiohead. Le piaceva
assaporare questi momenti di tranquillità prima della tempesta.
Isolarsi era la cosa che le riusciva meglio. Mezz’ora dopo, la
dottoressa arrivò. Bionda, con i capelli raccolti, era la perfetta antitesi
di Eugénie. Sempre impeccabile nel truccarsi, malgrado la tenuta da
lavoro, emanava femminilità da tutti i pori. Al tempo stesso sapeva
fondere nella propria figura, professionalità, dolcezza e fermezza. In
cuor suo, Eugénie l’ammirava.
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