Una verità universalmente riconosciuta… Scrittrici per Jane Austen – Stefania Bertola

SINTESI DEL LIBRO:
Non è difficile immaginare quanto si sarebbe divertita Jane Austen all’idea
che tutto il mondo, in questo 2017, avrebbe festeggiato il bicentenario della
sua morte.
Sembra di sentire il suono allegro della sua risata, deliziata dallo scoprire
che la sua dipartita, il 18 luglio del 1817, a Winchester, nella cui cattedrale
ora è sepolta, avrebbe segnato sì la fine della sua esistenza mortale, ma
l’inizio, decisamente sorprendente anche per lei, di una fama che l’ha resa
immortale. Fama non immediata, è vero, un avvio lento e poi, in questi due
secoli, una fortuna alterna, ma, ormai da moltissimi anni, un crescendo
apparentemente inarrestabile.
Ventitré milioni di voci compaiono sullo schermo di chi si avventura alla
ricerca del suo nome su Google, la letteratura critica è vastissima, e non
provo nemmeno a elencare tutto quel che gira intorno a quanto si può
chiamare un vero e proprio “fenomeno” Austen, cui concorre una felice e a
volte dissennata “Austenmania”, che ha fatto di lei un’imprevedibile icona
pop, un marchio di successo, largamente spendibile sul mercato
internazionale.
Con questo piccolo libro, noi tutte, editrice, autrici e curatrice, abbiamo
scelto di immetterci nel grande fiume degli omaggi alla magnifica Jane, da
tutte letta con somma ammirazione, dandole qualcosa in cambio, che la
trasportasse, in un lampo, dal suo secolo al nostro. Fare un gioco: questa è
stata per me la molla iniziale, forse perché volevo provare a farla sorridere
anch’io, dopo che lei mi aveva fatto sorridere e ridere tanto. Allora ho scelto
sei scrittrici italiane contemporanee, diverse per stile, voce, tono,
generazione, e ho affidato loro una frase rubata a ognuno dei sei romanzi di
Austen, perché se la rigirassero fra le dita fino a poterla usare come pretesto
per scrivere un racconto libero da ogni altro vincolo. E così è stato, ognuna
ha risposto ascoltando se stessa e, nel rilanciare la propria Jane, ha mostrato
qualcosa di sé e del testo di partenza. Meglio ancora, stringendo solo un
pugno di righe, ognuna di loro ha spalancato il romanzo austeniano in
direzioni inaspettate e attuali, a dimostrazione, ce ne fosse bisogno, della
modernità intrinseca e sempre contemporanea di ogni capolavoro. Nessun
racconto è un prequel o un sequel, ogni racconto è un’idea. Un’idea
austeniana rimessa al lavoro per parlarci dell’oggi. Questo era l’intento e
questa la scommessa; se vinta lo dirà chi legge.
Non racconto nulla che possa rovinare il piacere della scoperta, ma accenno
solo a qualche segnale che ogni singola autrice ha conficcato sulla sua pista,
una volta lasciato alle spalle il romanzo di partenza. Stefania Bertola, già
autrice di un’abile riscrittura di Ragione e sentimento, ci offre qui un
raddoppiamento dell’elemento parodico che è il pedale più evidente
dell’Abbazia di Northanger, per far entrare e uscire i suoi personaggi da uno
spazio distopico la cui tensione temporale non concepisce confini di
anteriorità e posteriorità. In questo modo la cifra gotica risplende di una luce
radiante che “rilegge” molti eroi del genere, tirandoli fuori dalle loro tombe
“testuali”. Effetto straniante della lettura, così come avveniva, del resto,
proprio nel testo originale, e che qui, alla fine, costringe Catherine e Eleanor
a tornare a rinchiudersi nel loro Capitolo 22.
Questo allungo sul tempo è anche una caratteristica del testo di Bianca
Pitzorno, che ambienta la sua storia tra Sardegna e Continente, in epoca
fascista, e la fa vivere di una precisione stilistica che rende ogni situazione
intensamente limpida allo sguardo, mostrando insieme quanto antiche usanze
ed esperienze possano essere di insegnamento civile al presente, contro ogni
pregiudizio stratificato e privo di pensiero. Le figlie d’anima parlano della
maternità uscendo dagli schemi consueti, testimoniano della possibilità di
relazioni poco tecnologiche ma profondamente umane e per questo ci
interrogano anche oggi. Oltre a questo tema, se penso ai personaggi che ci
vengono incontro in queste righe, mi chiedo se la Lavinia di Pitzorno, così
libera e anticonformista, non sia quasi un leggero rimprovero all’invenzione
austeniana di Fanny, la protagonista di Mansfield Park, così modesta, troppo
virtuosa… A voi la risposta.
Con Beatrice Masini siamo agli interrogativi dell’amore, com’è giusto,
visto che si parte da Ragione e sentimento. Nessun personaggio ha un nome,
tutto quel che accade può accadere, è forse accaduto, a chiunque, forte
segnale, di nuovo, del ponte che lega le invenzioni di Jane Austen alla
contemporaneità. Masini accompagna con mano ferma e sagace il percorso di
formazione di una ragazza, la fa sbagliare, delinea i suoi interrogativi e le sue
mezze verità, e illumina di intelligenza la scoperta di sé. Questa nuova
Marianne, così esposta a tutto e a niente, è l’anonima ragazza di tutti i tempi,
cui l’autrice regala con maestria un effetto universale.
Il segreto è il cuore del racconto di Rossella Milone, che piega l’acuta
osservazione della Charlotte di Orgoglio e pregiudizio al tema più scabroso
dell’amore che non può dire il suo nome. Una misura costruttivamente
perfetta, direi, della scena che incastona Betta, la protagonista di Minuterie,
fra obblighi di sempre e piacere di una libertà sconosciuta, che è prima di
tutto libertà interiore e appunto piacere del segreto. Ed è proprio in questo
piacere/paura che si annida la possibile catastrofe annunciata dalla Charlotte
austeniana: il non detto, la dissimulazione fanno vincere sempre l’ovvio,
l’inerte, il conosciuto, perché qualcosa d’altro non ha nemmeno preso vita in
un gesto o in una parola esplicita. Il segreto, quando intuito da qualcuno,
viene negato; quando invece si è finalmente pronti a rivelarlo, è troppo tardi,
la banalità di esistenze abitate da altri segreti, scontati e comuni, ha già preso
il sopravvento.
A Lidia Ravera è capitata, non a caso, un’affermazione famosa di
Persuasione. Non a caso perché da sempre Ravera insegue il tema del tempo
che passa, dell’età che non dà scampo, e allora si meritava davvero di
ripensare ad Anne Elliot, a una possibile seconda occasione, per la sua Anna.
Una scrittura agile, che tutto fa muovere per via di dialoghi, anima questo
racconto che riesce in poche pagine a far intravedere l’arco di vite intere, con
un’abilità che non sorprende chi conosce l’autrice. Certo questa Anna non ha
la dirittura morale di Anne, non può rivendicare il proprio comportamento
alla luce di una scelta ragionata e non strumentale, e infatti Ravera fa pagare
questo scotto alla sua protagonista, mostrandocela ironicamente in tutta la sua
mediocrità. Che è però anche la mediocrità di tutto quanto la circonda, e
allora, poiché l’unico sguardo onesto su questa verità è proprio di Anna,
l’ironia diventa autoironia, il sarcasmo è la punizione che lei si auto-infligge
per poter poi agguantare la ricompensa di una seconda chance. Sì, si può
invecchiare senza perdere la speranza, l’allegria, e quel pizzico di
romanticismo che ci riporta alla nostra giovinezza.
Un discorso diverso merita Zitelle, di Ginevra Bompiani che, così come
Emma nel romanzo eponimo vuole predisporre i destini delle amiche che la
circondano, ha deciso di disporre il suo racconto attraverso un montaggio di
parole di Austen e di parole sue. Un racconto saggio o un saggio raccontato,
dove le due dimensioni della scrittura che Bompiani ha già messo in atto in
molte altre prove, qui si presentano intrecciate con un effetto singolare e
molto bello. Le scene si inseguono e si infilano una dentro l’altra e a mano a
mano mostrano in filigrana un discorso critico che non viene affrontato per
via argomentativa, ma viene mostrato nel suo darsi spontaneo nella forma del
romanzo austeniano (e non solo in Emma). Un tentativo affascinante e a mio
parere ben riuscito, un tentativo certo non privo di rischi per la sua autrice,
ma come negare la possibilità del rischio, dell’avventura stilistica, in un libro
che vuole essere un vero omaggio alla “più perfetta delle scrittrici inglesi”.
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