Roma Arena Saga. La spada del gladiatore – Simon Scarrow

SINTESI DEL LIBRO:
Capua, inizio del 42 d.C.
Il giovane gladiatore fu risvegliato bruscamente nel mezzo della
notte da una pedata alle costole.
«Svegliati, inutile pezzo di merda!».
Sbattendo rapidamente le palpebre, MarcoValerio Pavone si
mosse, rovesciandosi sulla schiena. Strizzò gli occhi nell’oscurità e
mise a fuoco una guardia armata che gli torreggiava davanti; una
seconda guardia attendeva sulla soglia dell’angusto cubicolo. Il
giovane si portò una mano sulla costola dolorante e scosse la testa
per scacciare il sonno.
«Che succede?», chiese con voce gracchiante.
«Murena vuole parlarti», gli ringhiò contro la guardia più vicina a lui.
Al sentir nominare Servio Ulpio Murena, il braccio destro del
segretario imperiale, Pavone rabbrividì: Murena era uno dei tanti
liberti esecutori del lavoro sporco per l’imperatore e Pavone aveva
avuto la sfortuna di incrociarne il cammino ripetutamente, negli ultimi
tempi.
«Quella serpe di un greco», mormorò a denti stretti. «Che vuole da
me adesso?»
«E che cazzo ne posso sapere io?», gli ringhiò di rimando la
guardia, afferrandolo per un braccio e strattonandolo in piedi.
«Adesso muoviti! A Murena non piace aspettare!».
Pavone era troppo barcollante e confuso per protestare. Le guardie
lo spinsero fuori del dormitorio, trascinandolo poi oltre il cancello del
ludus. Si incamminarono lungo il sentiero che scendeva verso
Capua, spazzato da una brezza vivace. Su un colle distante
sfarfallava uno sciame di minuscole luci. Pavone distinse il contorno
scuro di una villa appollaiata sulla china del colle. Le guardie lo
diressero verso la costruzione. Il giovane gladiatore avanzava con
andatura goffa, tremando per il freddo, i muscoli delle gambe dolenti
per il peso delle catene alle caviglie e ai polsi. Un dolore pulsante gli
bruciava una ferita suturata alla spalla sinistra. Se l’era procurata
nell’ultimo combattimento nell’arena di Paestum contro un secutor
forsennato, Decimo Cominio Denter. Le guardie lo scortavano,
prudenti, ai fianchi. Dalle uniformi che indossavano – toghe di
semplice tessuto bianco sulle tuniche – Pavone capì che si trattava
di pretoriani.
«E quindi tu saresti il famoso Marco Valerio Pavone, eh?», lo
sbeffeggiò quello sulla sinistra. «Campione dell’arena. Arduo a
credersi che un coglioncello ricco come te...».
«Probabilmente hai ragione tu», rispose secco Pavone.
«Probabilmente i miei natali sono troppo alti per poter essere un
gladiatore campione. Ma voi due sembrate quasi spaventati da me,
tenete tutti e due la mano stretta sulla spada anche se sono
disarmato e in catene...».
La guardia lo fissò in cagnesco. «Vuoi fare il duro, per caso?
Attento!», gli ringhiò contro. «Stronzi gladiatori, sempre pronti a
mettersi in mostra. Aspetta a parlare, amico. Prima o poi finirai fatto
a pezzi nell’arena e buttato in una buca piena di altri gladiatori
sbruffoni come te. Poi voglio vedere se sei capace a fare lo
sbruffone».
Pavone era troppo scoraggiato per rispondere. Nelle fessure tra
una lastra di pietra e l’altra della pavimentazione stradale, minuscole
gemme di quarzo riflettevano la pallida luce lunare. Nell’avvicinarsi
alla villa, Pavone sentì crescergli dentro un senso di inquietudine. Da
quando era stato trasferito da Paestum nel ludus imperiale di Capua,
circa una settimana prima, il giovane gladiatore non aveva mai
smesso di chiedersi cosa avessero in mente per lui il segretario
imperiale, Marco Antonio Pallade, e il suo braccio destro. Da recluta
l’avevano fatto combattere con una serie di temibili avversari, ma
con gran disappunto di Murena e di Pallade, Pavone era sempre
uscito trionfante dall’arena, e le sue vittorie l’avevano trasformato in
un eroe agli occhi del popolo. Nonostante questi successi, però, un
pensiero cupo lo attanagliava. Non avrebbe mai più apprezzato la
libertà. Era figlio di un legato ritenuto traditore di Roma e motivo di
imbarazzo per il nuovo imperatore. E prima o poi Claudio se ne
sarebbe definitivamente sbarazzato.
Pavone temette che quel momento fosse alla fine arrivato.
Il trio raggiunse la villa mentre iniziava ad albeggiare e il sole
all’orizzonte rischiarava lentamente il cielo notturno. L’imponente
struttura dell’edificio era interamente cinta da uliveti. Davanti
all’entrata una serie di eleganti bighe con cavalli; un gruppo di
schiavi, borbottando, scaricava pesanti bagagli dai pianali,
trasferendoli poi all’interno della villa. La facciata della proprietà era
fiancheggiata da porticati che salivano a gradoni fino a un balcone
ornamentale due piani più in alto dove i ricchi ospiti, suppose
Pavone, potevano godere di una piacevole brezzolina nelle calde
sere estive. Il cancello della villa era presidiato da due guardie
pretoriane. Una delle due bloccò immediatamente il cammino a
Pavone e alla sua scorta mentre il compagno gli si parò davanti.
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