Sant’Agostino –  Giovanni Papini

SINTESI DEL LIBRO:

HO MIEI RAPPORTI CON SANT’AGOSTINO
Da bambino avevo una zia brava e vispa la quale, per dare un’idea
del grande studio d’un suo figliolo che appena cominciava a
combatter coi latinetti, esclamava spesso:
«Scrive quanto Sant’Agostino!»
E questo suo detto è l’unico che mi sia rimasto in memoria tra i
molti che ricorrevano nella sua conversazione volubile. Quel nome di
Sant’Agostino mi restò fisso in mente, ché da quel tempo cominciavo
anch’io ad asciugar calamai e conciar carte per altro che non compiti
di scuola. Su quel santo, che aveva scritto tanto da passare in
proverbio, la mia immaginazione cominciò a lavorare: vidi, sulla
scena dell’obbediente fantasia, un uomo chiuso in una stanza con
tanti libri attorno, tutti scritti da lui, e monti di fogli accanto e rotoli di
pergamene e un portapenne irto di punte al par d’un turcasso. E
quando, molti anni dipoi, scoprii sul palchetto d’una biblioteca, gli
undici massicci volumi dell’edizione agostiniana dei Maurini mi
accorsi che la loquace zia non sbagliava.
Qualche anno dopo, girando solo solo per la Galleria degli Uffizi,
mi attrasse una tavoletta del nostro Sandro Botticelli, dove un
vecchio con una barba bianca vestito d’una cappa vermiglia discorre
con un fanciullino in riva a un mare verde e translucido simile a
quello della Nascita di Venere. Il vecchio s’inchina un po’ verso il
putto che, inginocchiato accanto a una pozza, tiene in mano una
specie di ciotola. Guardai il cartellino sotto il quadro: era
Sant’Agostino al quale un fanciullo confessa di voler vuotare il mare.
Quel singolare colloquio tra la sacra vecchiezza e l’ingenua puerizia
dinanzi al gran mare chiaro e deserto mi piacque infinitamente e
tutte le volte che tornavo in Galleria mi fermavo dinanzi a quella
tavoletta, non celebre, credo, tra le opere di Sandro.
All’incirca in quel tempo mi toccò ad ingabbiarmi in una scuola
ch’era in Via Sant’Agostino, di là d’Arno. Era, si capisce, un vecchio
convento espropriato e la chiesa l’avevan ridotta a palestra di
ginnastica. Sicché quando mi arrampicavo su per le pertiche (che
bruciore alle mani!) o aspettavo in riga il comando di andare
all’assalto delle parallele, intravedevo su in alto, nei rettorici
affreschi, un barbone bigiastro e una mitra vescovile che dovevano
appartenere, secondo fantasticavo, all’autore delle Confessioni.
Son reminiscenze infantili che sanno di poco ma che a me
appariscono, oggi, come i segni della mia predestinazione a scriver
questo libro.
Sant’Agostino lo conobbi, a dire il vero, a gioventù inoltrata: un
lettore universale non poteva lasciar dapparte le celeberrime
Confessioni. Si capisce che gustai le parti umane più di quelle
divine, ma quel romantico frugar nell’animo proprio e quella
scottante e trepidante sincerità mi conquistarono. Posso dire che,
prima di tornare a Cristo, Sant’Agostino fu, con Pascal, l’unico
scrittore cristiano ch’io leggessi con ammirazione non soltanto
intellettuale. E quando mi dibattevo per uscire dalle cantine
dell’orgoglio a respirare l’aria divina dell’assoluto, Sant’Agostino mi
fu di gran soccorso. Mi sembrava che tra lui e me qualche
somiglianza ci fosse: anche lui letterato e amatore delle parole, ma
insieme cercatore inquieto di filosofie e di verità, tanto da esser
tentato dall’occultismo, anche lui sensuale e desideroso di fama. Gli
somigliavo, si capisce, nel peggio, ma insomma gli somigliavo. E che
un uomo a quel modo, così vicino a me nelle debolezze, fosse
arrivato a rinascere e a rifarsi mi rincorava. Il parallelo, si badi,
termina qui, ché oggi somiglio a Sant’Agostino come una formicola
coll’ali può somigliare a un condor, ma insomma gli debbo una
riconoscenza grandissima: se prima l’ammiravo come scrittore ora
gli voglio bene come un figliolo vuol bene al padre, lo venero come
un cristiano venera un Santo.
Di questo debito e di questo amore il presente libro vorrebbe
essere una prova; inadeguata alla grandezza del suo genio e alla
forza del mio affetto, lo so, ma forse non del tutto inutile e indegna.
Da un pezzo meditavo di scriver questa vita, ma, preso da
un’opera che mi pareva di gran lunga più importante, l’avevo sempre
rimandata, senza mai rinunziarvi, finché la voglia mi ha vinto e mi ha
forzato a sciogliere il voto.
Non è questa una vita, come oggi dicono, romanzata, cioè con
frangiature di fantasie, sia pur verosimili. Ho voluto raccontare la vita
esteriore ed interiore del grande affricano con semplicità proba,
avvertendo dove i fatti son certi e dove soltanto probabili. Non è,
s’intende, una semplice parafrasi delle Confessioni, che del resto
arrivano soltanto al trentatreesimo anno, e neppure un’esposizione
completa del suo pensiero, che soltanto per dare un’idea della sua
filosofia o della sua teologia o della sua mistica ci vorrebbero volumi
più grossi di questo.
Ho voluto fare, più che altro, la storia di un’anima e anche gli
accenni alla sua opera immensa non sono che assaggi, necessari
per illuminare meglio il suo spirito e per dare un’idea meno monca
della sua grandezza. Io non son teologo, né potevo inoltrarmi senza
rischi, nella foresta “spessa e viva” del suo sistema: ho scritto come
artista e come cristiano, non come patrologo o scolastico.
Pure qualche novità mi par che ci sia e di certe mie supposizioni
ho dato le prove nelle note in fondo al volume, e che non ho
aggiunto per lusso di pedanteria ma per non sembrare avventato.
Non ho nascosta o velata nessuna delle colpe di Agostino giovane, a
differenza di certi panegiristi di buona volontà ma di poco senno, i
quali si studiano di ridurre quasi a nulla la peccaminosità dei
convertiti e dei santi, non pensando che proprio nell’esser riusciti a
salire dal letamaio alle stelle consiste la loro gloria e si manifesta la
potenza della Grazia.

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