Americana- Don Delillo

SINTESI DEL LIBRO:

E così arrivammo alla fine di un altro stupido e lurido anno.
Le luminarie sormontavano scintillanti le porte dei negozi. I
venditori di caldarroste spingevano i carretti fumanti. Di sera,
la folla in strada era immensa e il fragore del traffico saliva a
trasformarsi in un’ondata di piena. i Babbi Natale della Quinta
Avenue scampanellavano con una delicatezza strana e quasi
dolente, come a spargere sale su un taglio di carne guasta. In
tutti i negozi risuonavano musichette, canti e osanna natalizi, e
le trombe dell’Esercito della Salvezza diffondevano i lamenti
marziali di antiche legioni cristiane.
L’effetto sonoro in quel luogo e in quel momento era
bizzarro, fragore di piatti e rullare di tamburi, come un
rimprovero impartito a dei bambini per un peccato
imperdonabile, e la gente era infastidita. Ma le ragazze erano
adorabili e spensierate, entravano nei negozi più stravaganti a
fare acquisti, attraversavano i tanti tramonti magnetici della
sera come majorettes, alte e rosee, stringendo ai morbidi seni
pacchetti avvolti in carta colorata. Il pastore tedesco del cieco
continuava a dormire senza accorgersi di nulla.
Finalmente arrivammo a casa di Quincy. Ci aprì sua moglie.
Io le presentai la ragazza che mi accompagnava, B.G. Haines,
dopo di che contai i presenti. Nel farlo mi ritrovai, quasi senza
accorgermi, a chiacchierare con lei dell’India. Quella di contare
i presenti nelle case altrui era una mia vecchia abitudine. Mi
era sempre sembrato importante sapere esattamente quante
persone avevo intorno, forse perché le notizie ricorrenti di
disastri aerei e offensive militari ponevano sempre grande
enfasi sul conteggio dei morti e dei dispersi, precisione utile a
pungolare anche i cervelli più intorpiditi come una scossettina
elettrica. Contati i presenti, il secondo imperativo in ordine di
importanza era accertarsi del loro grado di ostilità.
Relativamente semplice. Bastava vedere chi si voltava a fissare
il nuovo arrivato appena varcava la soglia. In genere bastava
un’occhiata attenta per farsi un’idea quasi esatta. Quella sera
nel soggiorno c’erano trentun persone. Ostili, più o meno tre su
quattro.
La moglie di Quincy e la mia accompagnatrice si
scambiarono un sorriso nel notare che portavano gli stessi
orecchini con il simbolo della pace. Restammo ad aspettare che
qualcuno si avvicinasse per fare conversazione. Era una festa e
non avevamo nessuna voglia di intrattenerci fra noi due.
Eravamo lì per incontrare gente interessante con cui
chiacchierare, quindi rivederci alla fine della serata e dirci
quanto ci eravamo annoiati e com’era bello ritrovarsi. È questa
l’essenza della civiltà occidentale. Solo che in realtà non aveva
poi grande importanza, visto che un’ora dopo ci annoiavamo
tutti indistintamente. Era una di quelle feste talmente noiose
che ben presto la noia diventa argomento principale di
conversazione. Dove ci si sposta da un gruppetto di convitati
all’altro e si sente la stessa frase almeno dieci volte: «Sembra di
stare in un film di Antonioni». Con la differenza che le facce
non sono altrettanto interessanti.
Decisi di andare in bagno per guardarmi allo specchio. Alle
pareti erano appesi sei graffiti incorniciati. Lettere enormi in
grassetto, corpo 60 circa, su carta patinata, stampate in
corsivo per dare un’impressione di maggiore realismo. Tre dei
graffiti erano blasfemi, gli altri tre osceni. Le cornici avevano
l’aria di costare un sacco. Mi accorsi che avevo un po’ di forfora
sulle spalle della giacca. Stavo per spazzolarla via, quando
entrò nel bagno una ragazza che si chiamava Pru Morrison.
Veniva da un paesino non meglio specificato della contea di
Bucks, e cominciava appena a lasciarsi travolgere dal vortice
della monotonia metropolitana. Rimase immobile a guardarmi,
con la schiena contro la porta chiusa. Aveva solo diciotto anni,
e io ero al tempo stesso troppo vecchio e troppo giovane per
interessarmi a lei. Ciò detto, non volevo farle scoprire che avevo
la forfora.
«Ho pensato di fare un salto a lavarmi le mani.»
«Chi è quella negra?»
«Pru, questa settimana da Peck and Peck c’è una grande
svendita di frustini. Perché non fai una scappata?»
«Non sapevo che uscissi con le negre, David.»
Io cominciai a lavarmi le mani. Pru si mise a sedere sul
bordo della vasca da bagno e aprì il rubinetto giusto quel tanto
per far scorrere un filo d’acqua. Mi domandai se il gesto
sottendesse messaggi sessuali di sorta. A volte è difficile capirle
certe cose.
«Mi è arrivata una lettera da mio fratello» disse lei. «Lo
hanno messo al comando di un lanciagranate M-79. Sta in una
delle zone di guerra più pericolose. Scrive che per ogni
centimetro quadrato di terra ci si batte con le unghie e i denti.
Dovresti, proprio leggere le sue lettere, David. Sono micidiali.»
Tutte le sere si sentiva parlare della guerra in televisione,
ma noi preferivamo andare al cinema. Ben presto i film erano
cominciati a sembrarci tutti uguali, e così avevamo traslocato
in massa in camerette immerse nella penombra dove ci
riunivamo a eccitarci o ammosciarci, oppure a guardare gli altri
che si eccitavano o ammosciavano, o a bruciare bastoncini
d’incenso e ascoltare cassette praticamente mute. Io portavo
sempre con me la cinepresa da 16 millimetri. Era un
giocattolino proprio spiritoso, e ogni volta tutti ne rimanevano
deliziati.
«Dice che non si riescono a distinguere gli amici dai nemici.»
«Chi?» domandai.
«Mi fai vomitare» rispose Pru.
«Quincy mi ha detto che hai un ragazzo nuovo, Pru.
Dell’Istituto di Meccanica Agricola del Texas. Una specie di
giovane cadetto. Mi ha detto anche che l’hai conosciuto tramite
una banca dati per cuori solitari.»
«Porco schifoso e bugiardo.»
«È tuo cugino, Pru.»
«Hai la forfora» gridò lei. «Te la vedo sulla giacca. Hai la
forfora!»
Quincy era in forma come raramente l’avevo visto.
Raccontava una sfilza di barzellette su portinai polacchi,
sacerdoti negri, ebrei chiusi in campo di concentramento e
italiane con le gambe pelose. Rovesciava sul suo pubblico un
fiume di insulti e provocazioni, sfidandolo a reagire.
Naturalmente tutti noi eravamo piegati in due dal ridere nello
sforzo di mostrarci ciascuno più illuminato degli altri. Almeno
nelle intenzioni, doveva servirci da esperienza etnicamente
liberatoria. Se qualcuno si sentiva offeso da simili barzellette in
generale, o risultava sensibile a osservazioni caustiche nei
riguardi della propria razza o ascendenza, non era degno di
essere accettato nel gruppo.
B.G. Haines, che era modella professionista nonché una
delle donne più belle che abbia mai conosciuto, pareva
apprezzare molto la performance di Quincy. Era l’unica
americana delle quattro persone di colore presenti alla serata,
ed evidentemente riteneva suo preciso dovere diplomatico
ridere più forte degli altri alle venefiche barzellette di Quincy
sui negri. Per poco non si buttava a terra, e mi pareva di
sentire al culmine di ogni suo scoppio di risa una specie di
singhiozzo spezzato e convulso. Mi sa che aveva bisogno di più
esercizio. Addirittura, per tutta la serata l’avevo vista sorridere
a chiunque le si avvicinasse e annuire solenne ogni volta che
qualcuno degli intellettuali presenti la metteva a parte di
questa o quell’altra acuta intuizione sociologica. Alla fine mi
vidi costretto a ricordarle che dovevamo essere noi educati con
lei, non viceversa.
Quindi la resi rapidamente edotta sulle responsabilità che
aveva nei riguardi della sua gente. Lei agguantò un “hors
d’oeuvre” di passaggio e riacquistò immediatamente
un’eleganza suprema.
Era quasi finita. Qualcuno degli ospiti se n’era già andato.
Era solo un aperitivo e si stavano già formando gruppetti per la
cena. In un angolo c’era la moglie di Quincy che si esibiva in
una versione riveduta e corretta a uso cocktail party di quello
che noi definivamo lo ‘spogliarello karate’, un ballo che lei
diceva di aver imparato durante un viaggio in Oriente.
Entro breve avrei chiesto a B.G. dove voleva cenare. Lei mi
avrebbe sicuramente risposto che potevo decidere io.

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