Il gioco interiore nel tennis – Edizione aggiornata: Come usare la mente per raggiungere l’eccellenza – Timothy W. Gallwey

SINTESI DEL LIBRO:
Riflessioni sull’aspetto mentale del tennis
Quello che più impensierisce i giocatori di tennis non è il modo
migliore di usare una racchetta. Ci sono libri e professionisti
in abbondanza che possono rispondere a questo quesito.
Allo stesso modo, ben pochi giocatori si lamentano troppo
dei propri limiti fisici. La lamentela storicamente più diffusa
tra gli sportivi è la seguente: «il problema non è che non so
cosa fare, ma che non faccio quel che so fare!». Eccone altre
più consuete:
Gioco meglio in allenamento che in partita.
So benissimo che cosa non va nel mio dritto, ma non
riesco ad abbandonare le mie cattive abitudini.
Quando provo a colpire la palla come è scritto nel libro,
sbaglio sempre. Quando mi concentro su una delle cose che
dovrei fare, mi dimentico di qualcos’altro.
Ogni volta che mi avvicino a un match point contro un
bravo avversario, mi innervosisco al punto di perdere la
concentrazione.
Sono il mio peggior nemico; in genere mi sconfiggo da
solo.
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tim gallwey
La maggior parte degli sportivi incontra spesso simili
difficoltà, ma non è facile capire come affrontarle nella pratica.
Spesso tutto quello che un giocatore ottiene in risposta sono
aforismi rifritti: «Beh, il tennis è uno sport molto psicologico,
e devi sviluppare il giusto atteggiamento mentale», o «Devi
avere fiducia in te stesso e voglia di vincere, o sarai sempre
un perdente». Ma come si può «avere fiducia in se stessi» o
sviluppare «il giusto atteggiamento mentale»? Sono domande
alle quali di solito non viene data risposta. Pertanto è il caso di
parlare di come migliorare i processi mentali che trasformano
in azione le informazioni tecniche sulla modalità migliore
per colpire una palla. L’argomento di questo libro è come
sviluppare quelle abilità interiori senza le quali è impossibile
una performance di qualità.
La tipica lezione di tennis
Immaginate quel che accade nella mente di uno studente
volenteroso che va a lezione da un tennista neo-professionista
altrettanto volenteroso. Supponiamo che lo studente sia
un uomo d’affari di mezza età intenzionato a migliorare
la sua posizione nella classifica del proprio tennis club. Il
professionista si piazza vicino alla rete con un grosso canestro
di palle e, domandandosi se lo studente lo consideri all’altezza
del suo onorario, con grande cura valuta ogni tiro dell’altro.
«Questo andava bene, ma inclina troppo la racchetta quando
risponde, Mr. Weil. Ecco, sposti il peso sul piede anteriore
quando si avvicina alla palla… La sua apertura dovrebbe
essere un po’ più bassa rispetto all’ultimo tiro… Ecco, così va
molto meglio». Ben presto la mente di Mr. Weil sarà intasata
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il gioco interiore nel tennis
da sei pensieri sulle cose che dovrebbe fare e sedici pensieri
su quelle che non dovrebbe fare. In tal modo, gli sarà difficile
migliorare, ma tanto lui quanto il professionista saranno
colpiti dall’attenta analisi di ogni colpo, e Mr. Weil pagherà il
prezzo della lezione ricevendo con gioia il seguente consiglio:
«Metta in pratica tutte queste cose e osserverà un notevole
miglioramento».
Ammetto io stesso di aver esagerato quando ero un neo
professionista, ma un giorno in cui ero più rilassato, ho iniziato
a parlare di meno e ad accorgermi di più delle cose. Con mia
grande sorpresa, alcuni errori che avevo osservato ma non
nominato, venivano corretti senza che neanche lo studente
sapesse di averli commessi. Come avvenivano tali cambiamenti?
Mi sembrava una cosa interessante, per quanto sgradevole per
il mio ego, che non avrebbe visto riconosciuti i progressi fatti
dall’allievo. Fu ancora più sconvolgente accorgermi che a
volte le mie indicazioni sembravano diminuire la possibilità di
correggere gli errori. Tutti i professionisti che insegnano sanno
di che cosa sto parlando. Tutti hanno studenti come la mia
Dorothy. Davo a Dorothy indicazioni gentili, senza metterla
sotto pressione: «Perché non provi a sollevare l’altezza della tua
risposta dalla vita alla spalla? Il topspin ti consentirà di tenere
la palla in campo». Dorothy di certo provava strenuamente a
seguire le mie indicazioni. I muscoli intorno alla sua bocca si
contraevano; il viso si accigliava; i muscoli del suo avambraccio
si indurivano, rendendo impossibile la fluidità; la risposta si
alzava solo di pochi centimetri. In genere la risposta standard
del professionista paziente è: «Meglio così, Dorothy, ma
rilassati, non sforzarti tanto!». Buon consiglio, ma Dorothy
non capisce come “rilassarsi” mentre sta provando con tutte
le forze a colpire la palla in modo corretto. Perché Dorothy
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tim gallwey– o tu o io – dovrebbe mai irrigidirsi in modo goffo mentre
sta compiendo un’azione che non è fisicamente difficile? Cosa
accade nella sua testa tra l’indicazione che le viene data e la
fine del colpo? Il primo barlume di risposta a questa domanda
chiave mi arrivò grazie a una preziosa intuizione dopo una
lezione con la mia allieva: «Qualunque cosa stia succedendo
nella sua testa, è troppo, maledizione! Si sta sforzando così
tanto per muovere la racchetta come le ho detto che non
riesce a concentrarsi sulla palla». Mi ripromisi che avrei dato
un taglio netto alla quantità di indicazioni verbali che davo. La
lezione successiva fu con un principiante chiamato Paul che
non aveva mai tenuto una racchetta in mano. Ero determinato
a insegnargli a giocare dandogli il minor numero di indicazioni
possibile; avrei provato a mantenere sgombra la sua mente,
per vedere se le cose cambiavano. Incominciai dicendogli che
volevo provare qualcosa di nuovo; avrei saltato la solita parte
nella quale insegnavo ai principianti l’impugnatura, il colpo
e la posizione dei piedi corretti per un dritto di base. Avrei
invece colpito io stesso la palla di dritto per dieci volte, e lui
avrebbe dovuto guardarmi attentamente, senza pensare a quel
che stavo facendo, ma semplicemente cercando di afferrare
un’immagine visiva del dritto. Avrebbe dovuto ripetere diverse
volte quell’immagine nella sua mente, e poi avrebbe dovuto
lasciare che il suo corpo la imitasse. Dopo i miei dieci dritti,
Paul immaginò di fare lo stesso. Poi, mentre mettevo nella
sua mano la racchetta, che scivolava nella presa corretta, mi
disse: «Mi sono accorto che la prima cosa che hai fatto è stata
muovere i piedi». Risposi con un grugnito evasivo e gli chiesi
di lasciare che il suo corpo imitasse il dritto al meglio. Lasciò
cadere la palla, aprì in modo perfetto, spostò il braccio in
avanti, allo stesso livello della racchetta, e con fluidità naturale.
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