Il fumo della falena – Mohsin Hamid

SINTESI DEL LIBRO:
La mia cella è piena di ombre. Fuori, in corridoio, una lampadina pende
nuda dal filo. Spande una luce che le sbarre arrugginite tagliano in strisce
sottili, serpeggianti lungo il pavimento di cemento e il muro alle mie spalle.
Corpi simili a macchie si dissolvono nel grigiore.
Siedo da solo, il fetore del vomito di un altro uomo mi brucia le narici.
Immagino il suono dei passi di una guardia che si avvicina, finché una
sagoma scura si staglia davvero oltre le sbarre, e un’ombra copre quelle della
cella, oscurandomi la vista. Sento l’uomo squassato dai conati rifugiarsi in un
angolo, poi silenzio.
La guardia chiama il mio nome.
Esito prima di alzarmi in piedi e avvicinarmi alle sbarre, con la schiena
dritta e il mento in su, le braccia incrociate a proteggere la parte inferiore
della gabbia toracica. Dalla sagoma della guardia spunta una mano che mi
offre qualcosa. Io allungo lentamente la mia, aspettandomi che la ritiri, e
resto sorpreso quando questo non accade. L’afferro, sento tra le dita la busta
liscia e tagliente. La guardia si allontana, fermandosi solo per alzare la mano
e sfiorare il filo della lampadina, imprimendo alla luce un sinistro tremolio.
Qualcuno impreca, chiudo gli occhi per fermare il capogiro. Quando li riapro
le ombre sono quasi immobili e riesco a intravedere il sudiciume delle mie
dita sulla superficie candida della busta.
Il mio nome scritto in una calligrafia femminile che conosco bene.
Non la leggo, nemmeno quando mi accorgo delle impronte che le mie dita
sudate cominciano a lasciare sulla carta.
Capitolo secondo
Giudizio (prima dell’intervallo)
Siedi a un’alta scrivania, con una toga nera e una parrucca bianca
incipriata. Il cast comincia a entrare, sfilando sotto le pallide luci al neon e i
ventilatori che girano lenti attaccati al soffitto dell’aula. Murad Badshah, il
complice: di un’imponenza senza rimorsi, straordinariamente eloquente nella
sua balbuzie. Aurangzeb, il migliore amico: giustamente traditore,
impeccabilmente vestito, slealmente sexy. E la raggiante Mumtaz, fiamma
brucia-falene: moglie, madre e amante. Tre attori in questo processo tra
intimi, tutti e tre testimoni e bugiardi.
Dietro di loro avanzano due uomini dalla faccia di falco, vestiti di bianco e
nero: entrambi repellenti, entrambi avidi, ma uno è alto e snello, l’altro
piccolo e grasso. Due riflessi della stessa anima nel labirinto di specchi del
cosmo o strana coincidenza? Impossibile dirlo. I loro occhi guizzano, le
labbra recitano mute litanie di potere ed emozione. Appartenere al genere
umano significa riconoscerli, riconoscere che cosa sono e cosa devono essere:
due avvocati.
Segue un disciplinato stuolo di nobili e cittadini, la loro varietà è opera di
un abile direttore delle comparse. Prendono posto con un mormorio
silenzioso, muovendosi lentamente, ogni esitazione è studiata. Una scena di
massa breve ma elegante, che tu domini e presiedi come il cavaliere di
marmo di una grande statua equestre.
Poi una pausa, un silenzio. Tutti gli occhi sono rivolti alla porta.
Entra. È l’accusato: Darashikoh Shezad.
Un uomo duro dagli occhi ombrosi, incatenato, ammanettato, scapigliato,
fiero, eretto. Un uomo capace di tutto e timoroso di niente. È accompagnato
da due guardie; due energumeni, naturalmente, ma la loro presenza non
basterebbe a rassicurare i presenti se l’imputato non fosse in catene. È il
terribile quasi eroe di una grande storia; potente, tragico e pericoloso. È
l’unico a guardarti negli occhi.
Poi si siede e il processo comincia.
Il tuo martelletto si abbatte sul tavolo come il martello di Dio.
Forse una domanda (Dove ho preso questo affare?) ti attraversa la mente
prima di svanire per sempre come una lucciola nel ventre di una rana. Ma il
dado è tratto. Non si torna indietro. Viene annunciato il caso.
Il pubblico ministero si alza, la sua arringa di apertura puzza già di
conclusione.– Vostro Onore, – dice (ed è a te che si rivolge), – la corte affronta oggi un
caso non meno chiaro del compito del boia. Il collo dell’accusato è già sotto
la pesante spada della giustizia e non vi è alcun dubbio che tale spada debba
cadere. Le sue mani sono sporche di sangue, Vostro Onore. Di sangue
giovane. Il sangue di un bambino. Non ha ucciso travolto dall’ira, non ha
ucciso con uno scopo, un piano o un progetto. Ha ucciso come il serpente
uccide ciò di cui non intende cibarsi: per indifferenza. Ha ucciso perché
uccidere è la sua natura, perché la morte di un bambino non significa nulla
per lui.
Non possono esserci dubbi, Vostro Onore; non esistono altri fatti da
considerare. La bilancia della giustizia aspetta, Vostro Onore: è giunta l’ora
di riparare al torto. Di fronte a un tale mostro l’umanità indifesa leva grida di
terrore e la coscienza piange lacrime di rabbia. Alla prospettiva di punire un
simile individuo la legge si lecca le labbra e la giustizia può chiudere gli
occhi: tanto facile è oggi il suo compito.
Il pubblico ministero fa una pausa, le sue parole rimbalzano nell’aula
come ombre di coltelli sguainati nella luce tremula di una candela che muore.– Poiché, Signore, questo è il suo crimine…
Capitolo terzo
Due
Tenendo il volante tra le ginocchia estraggo l’ultima sigaretta intera da un
pacchetto di Flakes malconcio. Ci sono degli alberi lungo la strada, ma su un
lato solo, ed è quello sbagliato, cosà le loro ombre si allontanano in lunghi
sorrisi che scavalcano le mura di cinta ridacchiando tra loro mentre io in
macchina arrostisco come una lumaca sull’asfalto caldo.
Le ginocchia girano il volante a sinistra, poi a destra, sterzando attorno a
una buca ambiziosa, una fenditura che aspira a diventare canyon. Le dita
lavorano sul cilindro della sigaretta, liberano il tabacco, raccogliendolo con
delicatezza nel palmo sudato, strofinando la Flake tra il pollice e l’indice fino
a svuotarla quasi del tutto. Gli occhi guizzano dal mio grembo alla strada, che
osservo attraverso l’arco del volante sul parabrezza. Il piede tocca appena
l’acceleratore.
Aprire il portacenere e farci cadere la metà del tabacco. Prendere il
compasso che possiedo da quando ho preso la macchina, quindi da molto
tempo, e usare la punta annerita per infilzare il fumo. La mano sinistra tiene il
tabacco sul palmo e il compasso tra le dita, la mano destra stringe un
accendino di plastica mentre col pollice fa ruotare la pietra focaia. Scintille,
niente fiamma. Scintille, niente fiamma. Poi una luce, e quando la fiamma blu
sfiora l’hashish, un profumo dolce, improvviso.
Sbriciolare l’hashish nel tabacco, comprimerlo, disfarlo e sentire il suo
calore trasmettere alla punta delle dita il messaggio di un leggero dolore.
Impastare, mescolare tutto per bene. Tenere fra le labbra il filtro della Flake
vuota, aspirare fino a riempirla di nuovo, distribuire il contenuto battendola
contro l’unghia del pollice, tip tip tip, ancora una volta, tip tip tip, poi
chiudere l’estremità avvitandola. Gli incisivi afferrano un lembo del filtro e
tirano fino ad estrarlo, delicatamente, come una cagna solleva il suo cucciolo.
Strappare una sottile striscia dal filtro in modo da lasciar passare il fumo,
reintrodurre quello che resta per assicurarsi che l’estremità resti aperta e ogni
cosa sia al suo posto.
Accendo, e intanto strofino la mano sui jeans per ripulirla dai residui di
hashish e tabacco. Rollare mentre viaggio, da solo, fumare nel caldo che fa
fumare l’asfalto. Aiuta ad ammazzare il tempo nei lunghi pomeriggi, e anche
se non ho viaggiato molto, so che nessun luogo ha pomeriggi tanto lunghi
quanto quelli di questo posto, Lahore, specialmente in estate.
Due gocce di Visine e sono a posto.
Il sole si riposa. È sera. Accosto davanti al grande cancello di quella che
credo sia la casa di Ozi. Voglio dire la sua nuova casa. Quella vecchia era piú
piccola. Sono un po’ nervoso perché è passato qualche anno, o forse perché le
dimensioni della mia casa non sono cambiate da quando lui è partito, cosà mi
sporgo verso lo specchietto e mi guardo negli occhi. Poi suono il clacson
finché non compaiono due uomini della security.
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