Il figlio prediletto – Angela Nanetti

SINTESI DEL LIBRO:
Quando morì zio Nunzio, avevo otto anni e il funerale me lo ricordo ancora.
Arrivò una macchina da fuori, nera e lucida con una scritta d’oro sul vetro,
piena di fiori rossi e bianchi. Si fermò sulla piazza davanti alla chiesa e c’era
tutto il paese ad aspettarla, anche il sindaco e la banda. Quattro uomini
tirarono fuori una cassa e la presero sulle spalle, tutti vestiti di nero. Il resto
non me lo ricordo, ma mi ricordo di preciso quando la calarono nella fossa, la
banda che suonava e tanta gente attorno. Nonna Carmela vestita di nero che
piangeva dentro un fazzoletto, e anche mio padre vestito di nero, e zio Rocco
e zio Giuseppe. Ma non piangevano. Nessuno piangeva, solo la nonna. E
c’era una ragazza bionda e alta vicino a mio padre, la moglie di zio Nunzio.
Era venuta con la macchina, la cassa e i fiori, e anche lei era vestita di nero
con un velo in testa. Nemmeno lei piangeva, solo la nonna, ma poi mio padre
masticò qualcosa a voce bassa e lei tirò fuori un fazzoletto e si asciugò gli
occhi. Però l’unica che piangeva veramente era nonna Carmela. E continuò a
piangere e a portare i garofani bianchi e rossi a zio Nunzio tutte le settimane,
finché riuscì a trascinare le gambe al cimitero.
NUNZIO LO CASCIO DI ANNI 34, SPERANZA
DEL CALCIO ITALIANO E ORGOGLIO DEL SUO PAESE.
RAPITO PREMATURAMENTE
ALL’AFFETTO DEI SUOI CARI
IL GIORNO 16 OTTOBRE 1985
NELLA CITTà DI LONDRA DA UN FATO CRUDELE.
LA FAMIGLIA IN LACRIME POSE.
Così diceva la lapide già pronta, con la foto dello zio e la scritta sotto
quella del nonno. Ma le lacrime erano solo sulla lapide, e lì rimasero.
«Che cosa vuole dire “fato”?» chiesi a mia madre.
«Niente, non ci pensare».
Non ci pensare. A dire la verità a zio Nunzio non avevo pensato mai,
perché nessuno in casa parlava di lui quand’era vivo, e nessuno andò mai a
trovarlo al cimitero, solo nonna Carmela, che qualche volta portava anche
me. La tomba di mio zio era quella di famiglia, costruita quando era morto
mio nonno Ninuzzo Lo Cascio. Era davanti all’ingresso del cimitero e si
vedeva da fuori il cancello anche a distanza: una pietra di marmo nero grande
come mezza cucina nostra e sopra un vaso di ottone a forma di delfino che
salta fuori dall’acqua e dietro un’altra pietra nera di marmo con le scritte in
lettere dorate, una fiaccola dorata sempre accesa e le foto in cornice di ottone,
quella di mio nonno Nunzio coi baffi e il berretto e quella di mio zio, in
maglietta e calzoncini, che palleggia. Avrà avuto diciotto o vent’anni in
quella foto, più o meno la mia età, ed era carino zio Nunzio, biondo e magro.
Diverso dai Lo Cascio, che sono neri e pelosi.
Appena arrivate, nonna Carmela appoggiava i fiori sulla lapide e mi
mandava a prendere l’acqua col secchio. La fontanella era al centro del
cimitero, dopo la cappella del crocifisso, e lei aspettava che arrivassi lì e
girassi l’angolo per incominciare il compianto. «Figghjiu meu amaru!
Fiigghjiuuu!» La prima volta che lo sentii mi si gelò il sangue e il secchio mi
cadde dalle mani, ma anche dopo, quel lamento che sembrava uscire dalle
tombe s’infilava sotto il mio vestito, su su lungo la schiena fino alla radice
dei capelli, e i peli si drizzavano, il cuore incominciava a martellare e io
dovevo fermarmi e aspettare. Perché sapevo che quell’urlo durava poco, il
tempo di riempire il cimitero e di farsi sentire dai vivi e dai morti, poi il
silenzio.
Quando tornavo da lei col secchio che traboccava, la trovavo intenta a
lucidare il marmo come faceva a casa col pavimento o a sistemare i fiori
freschi nel vaso. «Va a buttare sta fetenzia» mi ordinava «che qui ci voglio il
meglio del meglio». Poi incominciava a parlare con zio Nunzio: «Che quando
te ne andasti me l’avevi promesso di tornare, ma non così, figlio mio bello…
Che tutti eravamo contenti che t’eri fatto così importante, e le tue lettere le
tenevo come una reliquia. Anche se i tuoi fratelli, e Santino soprattutto… Ma
chigglju è tali e quali so patri… tali e quali…»
Mentre mi allontanavo, mi seguivano i suoi sospiri e mozziconi di frasi,
alcune delle quali vagamente minacciose e oscure, come quella su mio padre
tale e quale il nonno Ninuzzo. Che voleva dire? Era una cosa bella o brutta? Il
nonno era morto quando avevo tre anni, e di lui non avevo nessun ricordo,
ma di mio padre allora ero innamorata.
«A figghjia i Santinu» mi chiamavano in paese, non Annina, e io ero
orgogliosa di lui e di come tutti lo rispettavano, anche il sindaco e il vigile,
che non gli faceva mai la multa. E alla processione del patrono era lui a
portare lo stendardo, perché faceva l’offerta più grande, e io gli camminavo
accanto. La figlia di Santino. «Peccatu, sulu na fimmina ndeppi! Ma i stoffa
bona, guarda chi occhji!» Dunque, era una cosa bella o brutta? Alla nonna
non avevo il coraggio di fare domande, perché era una donna dai modi
bruschi che parlava solo quando ne aveva voglia, il resto era silenzio. Mia
madre ne era intimorita, ma con me era affettuosa a modo suo e mi
raccontava storie di morti e di fantasmi, specie quando tornavamo dal
cimitero, o m’insegnava a lavorare all’uncinetto e a fare il pane. Diceva che
una donna se non faceva il pane non era donna, ma solo femmina e, dopo che
ebbe visto la moglie di zio Nunzio, aggiungeva sempre «come quella là».
La moglie di zio Nunzio si fermò in paese tre giorni in tutto e nonna
Carmela in quei tre giorni rimase chiusa in casa, perché sosteneva che «quella
le aveva rubato il figlio con una fattura» e non voleva vederla. Alloggiava
alla locanda di Zi’ Venanzio, e solo mio padre andò a trovarla, a noi l’aveva
proibito.
«Ma parla l’italiano? Capisci qualcosa?» gli chiese mia madre.
«Un poco» rispose lui asciutto.
«Potevamo invitarla almeno una volta… Il paese mormora…»
Mio padre la fulminò con un’occhiata.
«E cos’hanno da dire? Che mio fratello s’è preso una straniera? Chi
volivanu, ch’era nu ricchiuni?» La sua risata la ricordo ancora, un ringhio,
tant’era aspra, poi sospirò: «È per rispetto a mia madre che non può venire,
per lei è una puttana».
Tre giorni, e la straniera bionda, che si chiamava Eleonor, partì una
mattina su un taxi venuto dalla costa e di lei non sapemmo più niente.
La nonna allora uscì di casa e si diede da fare per preparare la chiesetta
delle Anime Sante di cui era custode. Questa chiesetta era in fondo al paese,
attaccata alla sua casa, e si apriva solo per le feste dei Morti. Lei la teneva
come un gioiello e niente la rendeva più orgogliosa dell’aprirla in quella
circostanza, col reliquiario in bella vista che brillava come oro, i lumini
accesi anche sopra le panche che scolavano cera, e lei, in nero e con un
cestino tra le mani, a ricevere le offerte dei visitatori dopo la novena.
Quell’anno del funerale dello zio Nunzio il lutto era, se possibile, ancora più
stretto, tanto che mi pareva che sotto il velo nero anche i capelli e la faccia le
si fossero scuriti.
«Condoglianze, Carmela» qualcuno le diceva.
«Poviru figghjiu meu!» rispondeva e portava il fazzoletto alla bocca. Ma
piangere non piangeva, solo al cimitero. Quando tornavo, dopo avere buttato
i fiori vecchi, lei si asciugava rapidamente gli occhi col fazzoletto che teneva
nella tasca del grembiule, l’unica cosa bianca che avesse addosso, poi buttava
l’acqua rimasta nel secchio sulla pietra nera finché non ne era coperta e
luccicava. Un paio di sospiri profondi e mi prendeva per mano: voleva dire
che ce ne potevamo andare. Al nonno appena un’occhiata. Solo se qualcuno
era nelle vicinanze una rapida carezza alla fotografia, tanto che pareva che, da
quando zio Nunzio era tornato, avesse smesso di essere vedova e si
considerasse unicamente «madre sventurata» come si definiva.
Prima di uscire, però, non mancava mai un giro tra le tombe a cercare i
nuovi arrivati, a salutare i vecchi conoscenti, ma soprattutto a controllare che
non ce ne fosse qualcuna più lucida, più ordinata, più importante di quella dei
Lo Cascio. Eh, anche al cimitero bisognava distinguersi! Anzi, soprattutto lì,
perché «questo è il posto dove ci vai per rimanere e se ci hai una tomba tua
nessuno ti può cacciare. Perciò bisogna presentarsi bene, che non ti possano
dire che nessuno ti ricorda, che stai peggio di un cane. Guarda quel
meschino! E quella!» E mentre indicava qua e là le tombe senza fiori o
trascurate, si voltava a guardare la lapide nera, unica di quel colore in mezzo
al bianco e al grigio della pietra, e approvava soddisfatta. Nonna Carmela.
Con lei sono andata al cimitero fino ai tredici anni, poi arrivarono quelli del
teatro e incominciarono le liti.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo