Gli anni del nostro incanto – Giuseppe Lupo

SINTESI DEL LIBRO:
I fiori nel portapacchi papà li aveva regalati a mamma un
mattino di aprile, per l’anniversario delle nozze. Aveva appena
smesso di piovere, ma le strade erano asciutte, tanto che nella
foto dove ci siamo tutti non si vedono pozzanghere. Io sono quella
che mia madre stringe al petto. Ero nata quasi da un anno, ridevo
come un angelo al vento della Vespa e l’aria mi entrava in bocca.
Mamma non se n’era accorta. Nella foto ha il busto rigido, lo
sguardo preoccupato dalle manovre di papà che zigzagava da
spadaccino tra le automobili e i cartelli. Sembra voglia chiedere di
andare piano, ma ha paura di distrarlo, solo qualche ciocca dei
capelli sfugge al controllo delle forcine. Era la sua pettinatura
preferita: un toupet morbido e con qualche ciuffo ribelle, come
deve essere nelle regole dell’età in cui il sangue è ancora acerbo e
i giorni sono lunghi, perché è così che si annuncia la vita
sbarluscenta, come la chiamava lei, l’epoca luminosa che tutti noi
attraversiamo quando ci sentiamo il mondo in tasca.
Per raccogliersi i capelli all’indietro, trascorreva un’ora davanti
allo specchio e ogni volta compiva gesti compassati: ruotava la
testa a destra e a sinistra, prendeva le forcine strette fra le labbra
e le infilava sotto la nuca o sulle tempie. Un rito per i giorni di
festa, quando voleva presentarsi a suo marito con la stessa
acconciatura con cui si era regalata a lui sull’altare, dieci anni
prima, nell’abito di piqué bianco e il velo attaccato al toupet. A
quel modo, ma senza velo, si pettinava quando si svegliava di
buon umore, nelle stagioni successive, mentre il grigio della
vecchiaia cominciava a spargersi tra i boccoli e le prime rughe
attraversavano la fronte. Ma non avrebbe avuto il tempo di
rammaricarsene: qualcosa ha cancellato la memoria. Uguale al
mattino delle nozze è rimasta la messa in piega, non più i ricordi.
I dottori dell’ospedale non sanno spiegarselo: come mai
soltanto con la foto sotto gli occhi riprende a parlare? Si
consultano fra loro, azzardano ipotesi controverse, sanno che è
difficile trovare risposte. Su quel pezzo di carta, dicono, sono
incollati i segreti della malattia e se vogliono farle aprire la bocca
per infilarci una pastiglia, prima di colazione o dopo cena, gliela
mettono sotto gli occhi, poco per volta – noi quattro sulla Vespa, i
palazzi sullo sfondo, i fiori nel portapacchi –, e le rivolgono lo
stesso complimento.
«Guarda oggi cosa abbiamo per te!»
Mia madre si rianima. Non ha bisogno che qualcuno le indichi
chi sono le persone nel rettangolo di carta in bianco e nero.
Osserva la faccia di mio fratello, osserva le braccia di mio padre
ben piantate sul manubrio.
«Varda te il mio Louis… Varda te il mio piccolo Indiano… Varda
te che gambe!»
Ci tocca questa sceneggiata.
Appena mamma arriva a dire Varda te che gambe, i medici le
infilano la pastiglia tra le labbra e se ne vanno di fretta,
stranamente euforici, sarà per le partite di questo campionato
mondiale in Spagna che è iniziato da schifo e ora invece va
ingranando. Oggi pomeriggio giocano Italia e Brasile e a Milano
non si parla d’altro, nei bar, sui tram, in ufficio, nelle sagrestie.
Abbiamo sconfitto l’Argentina, sai che colpo se mandiamo a casa
pure Zico e Sócrates? Anche fra i medici si discute di gol più che
di malattie. Nessuno si sbilancia per scaramanzia, ma sotto sotto
ognuno cova speranze.
Mia madre rimane qualche attimo con la testa che è un’altalena
sospesa. Continua a guardare le gambe nella foto: le sue, belle e
tornite, com’erano da giovane, quando tutti la ammiravano
mentre ballava Rosamunda stretta alle braccia di mio padre, il suo
Louis. Fa in tempo a dire: «Varda te la mia Vittoria che mi casca
dalle mani.» Ma non c’è più nessuno intorno che ascolta, tranne
me, la sua Vittoria, a chiamarla da un angolo della stanza, mai lo
stesso però, è ciò che ordinano i medici, perché deve reagire agli
stimoli.
Da quando è in ospedale, non si orienta più e, se le scende una
lacrima, allunga le dita per accarezzarmi. È convinta che io sia
ferma all’età nella foto: dieci mesi o poco più, una bambola di
settantacinque centimetri, con un abitino dai fiocchetti rosa e il
riccetto di organza bianco.
«Vittoria, nè come ti piaceva stare quel giorno sul nostro
trabiccolo. A momenti, ti mettevi a volare.» E si fa dare un’altra
volta la foto.
Crede sia un pozzo di desideri, crede che ogni cosa
appartenente al passato, il riso e il pianto che ci hanno
accompagnato in questi anni, il grande nulla della vita e il piccolo
tutto, a cercarli bene, uno possa trovarli là dentro. Se sia la
malattia a provocare questa cascata di pensieri o altro, i medici
non vogliono pronunciarsi. Di fronte ad amnesie talmente
profonde chi può saperlo? E mi invitano a parlare, a raccontare la
nostra vita ad alta voce, chissà che non scatti nella testa
l’interruttore della memoria e tutto torni com’era prima.
«Non c’è migliore terapia, signorina» raccomandano prima di
raggiungere gli altri pazienti. «Continui, continui, non abbia
timore di esagerare. Il cervello è una spugna che chiede di essere
inzuppata.»
Io non faccio altro tutto il pomeriggio, non mi interrompono i
boati a ogni gol dell’Italia. Guardo la sagoma di mia madre nel
letto, riprendo da dove mi sono interrotta.
«Non sono cascata dalle tue braccia quel giorno. Sono qui,
sono io. Dimmi tu cosa ricordi?»
Parlo, parlo, ma lei reagisce solo dopo che le mostro la foto.
Forse hanno ragione i medici: quel pezzo di carta è la bibbia del
tempo.
2
La bibbia del tempo
La stanza dove mia madre è ricoverata affaccia sul Giuriati, un
campo da rugby circondato da pioppi. Ogni sera si allenano gli
studenti del Politecnico: corrono, allargano le mani, si piegano in
avanti e indietro, fanno esercizi di ginnastica obbedendo a un
uomo tarchiato che li comanda a bacchetta. Io li seguo con la coda
dell’occhio, mi diverto a capire, dall’accento, se sono di Milano o
fuori sede perché, quando gridano, lo fanno in tutte le lingue.
Siamo circondati di scienza, vorrei dire a mamma, qua tutto si
mette a posto. Ti affacci in via Celoria e vedi gli Istituti di
Chimica, rossi e bianchi che paiono cubetti Lego. A sinistra, in via
Golgi, trovi le vetrate dell’Aerospaziale, a destra i cancelli del
Politecnico.
«Non ti preoccupare, non ti preoccupare» ripeto. «Guarisci e
ce ne torniamo a casa come se niente fosse accaduto.»
Mia madre non poteva scegliere momento migliore per
svuotarsi della memoria. Fa un caldo insopportabile e la città è un
deserto perché sta giocando l’Italia contro il Brasile. Tutti con gli
occhi al televisore. Medici e infermieri misurano il quarto d’ora
d’intervallo tra il primo e il secondo tempo per fare il giro dei
reparti: ritirano pappagalli pieni di orina, controllano la febbre,
puntano le lucine tascabili nelle pupille dei malati, ma con un
occhio alle cartelle cliniche e con l’altro all’orologio, svelti come
lepri che hanno altre premure. I casi più impegnativi li lasciano
dopo il fischio dell’arbitro, alla fine dell’incontro. Solo allora si
presentano al letto di mia madre, riprendono il dialogo da dove lo
hanno interrotto.
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