Giuseppe e i suoi fratelli – Giuseppe il Nutritore – Thomas Mann

SINTESI DEL LIBRO:
Vedere questo lavoro colossale, sorta di piramide che si distingue dai
suoi mostri fraterni ai margini del deserto libico solo perché non gli
furono sacrificate ecatombi di schiavi ansimanti so o la sferza, ma
perché fu costruito nel corso di lunghi anni dalla pazienza di un
singolo uomo; vedere quest’opera, finora suddivisa in qua ro parti,
ben rilegata e raccolta in un tu o quale essa è, suscita in me, oltre
che un giustificato stupore per un’operazione di tecnica editoriale ai
limiti
del
possibile,
autobiografiche.
parecchi ricordi e alcune riflessioni
È stato un lavoro di lunghi anni, per l’esa ezza, comprese tu e le
interruzioni, a volte assai estese nel tempo, sedici anni pieni: un
periodo che, storicamente, si è rivelato altre anto “pieno” del mio
prodo o che, caparbiamente concentrato su se stesso, è tu avia
cresciuto in esso: un periodo pieno di storia che, come si potrebbe
pensare, avrebbe dovuto pregiudicare di molto l’imperturbabilità
epica. È forse chiedere troppo che la posterità, ammesso che in
qualche modo se ne conservi una sul piano spirituale, di quando in
quando si meravigli un poco che in quegli anni, dal 1926 al 1942,
quando quotidianamente si aggredivano con le pretese più folli il
sentimento e l’intelle o, potesse essere realizzata e compiuta in
circostanze tanto turbolente un’opera narrativa come questa?
Se antamila righe che scorrono placidamente rievocando eventi
remotissimi della vita umana, amore e odio, benedizione e
maledizione, dissidi tra fratelli e sofferenze paterne, superbia e
penitenza, caduta ed elevazione, un canto venato d’umorismo che
celebra l’umanità, se è consentito chiamare le cose col loro nome. Per
quanto riguarda me, non è questione di stupore ma di riconoscenza:
sono grato a quest’opera che mi ha sostenuto e sorre o lungo un
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cammino che doveva condurre spesso in valli tanto oscure. Essa è
stata per me rifugio, consolazione, patria, simbolo di resistenza,
garanzia del mio persistere nel tempestoso mutamento delle cose.
Nel 1924 fu terminata a Monaco La montagna magica, che uscì nello
stesso anno. Fra la sua conclusione e il giorno in cui trovai il coraggio
di scrivere la prima frase della «Discesa agli inferi», l’ouverture di
Giuseppe e i suoi fratelli: «Profondo è il pozzo del passato», dal mio
laboratorio le erario non uscì altro che il racconto Disordine e dolore
precoce, improvvisato per il numero della «Neue Rundschau» in cui
si celebrava il mio cinquantesimo compleanno – uno di quei periodi
di riposo a ivi che mi capitano con una certa regolarità dopo lo
sgravio di una fatica sostenuta per anni: in questo modo dopo Lo e a
Weimar vennero alla luce Le teste scambiate, uno scherzo metafisico e,
dopo aver ultimato le storie di Giuseppe, quella difesa della civiltà
dire a contro il nazismo dal titolo La legge. Lentamente, dopo il
giorno in cui prese l’avvio l’opera e dopo la stesura del saggio
fantastico che forma l’introduzione e ricorda la tappa di allestimento
di un’audace spedizione di ricerca, lentamente e fra dubbi e
preoccupazioni per lo spazio e il tempo che avrebbe richiesto,
vennero crescendo le parti del romanzo mitologico che videro poi la
luce col titolo Le storie di Giacobbe, per il semplice fa o che si erano
accumulati abbastanza materiali manoscri i per un volume già
consistente e non perché fosse stata programmata un’opera in più
volumi, una serie di romanzi o una “tetralogia”. Come sempre, tu o
era stato pensato in ben altro modo. Non diversamente dai
Buddenbrook, che era stato concepito come una storia di
commercianti di circa duecentocinquanta pagine e che poi mi aveva
preso la mano, non diversamente dalla Montagna magica che doveva
essere un racconto delle dimensioni della Morte a Venezia, di cui
avrebbe dovuto divenire il contrappunto gro esco, e poi per una
caparbietà tu a sua si era dilatato assumendo dimensioni
ipertrofiche, così in questo caso avevo in mente un tri ico di novelle
a sfondo religioso di cui la prima avrebbe dovuto avere cara ere
mitico-biblico e in questo piano era prevista anche la storia di
Giuseppe riproposta con vivacità. Habent sua fata libelli, non solo
dopo la loro uscita ma sopra u o già in origine. L’autore, quando li
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avvia, ne sa poco. Essi hanno la loro volontà e sanno più di lui. Le
novelle della Riforma e della Controriforma scomparvero e per più
di un decennio e mezzo dove i restare in balia della narrazione
mitico-biblica che, ferma restando in qualche modo l’idea iniziale,
era pensata come racconto unitario nella sua progressione, come un
volume che purtroppo cresceva a dismisura; e si può dire oggi che
solo dopo anni di esistenza “lacerata” la storia appare nella sua
forma autentica.
Le mie opere narrative sono accompagnate di consueto da
propaggini saggistiche che spesso possono apparire stimolate e
sollecitate dall’esterno, ma che in fondo non hanno altro scopo se
non quello di rafforzarmi nel mio lavoro. Rientrano, per esempio,
nell’ambito della Montagna magica i saggi Della repubblica tedesca e
Goethe e Tolstoj – per citare solo questi – in quello del Doctor Faustus
gli scri i sulla Germania e i Tedeschi, su Dostoevskij e Nie sche.
Sarebbe lungo elencare tu o ciò che in queste scappatelle critiche e
annotazioni a margine riguarda Giuseppe e riceve da lui determinate
sfumature; esso riempie volumi e costituisce la parte più consistente
di ciò che è raccolto in lingua inglese so o i titoli Order of the Day e
Essays of Three Decades. Come se non avessi fa o ancora abbastanza
con le sessanta pagine di introduzione alle Storie di Giacobbe, scri e
per equipaggiarmi in vista del viaggio nella mitica terra e me ermi
nella disposizione d’animo giusta, seguì nel primo anno (1926)
l’analisi entusiasta dell’Anfitrione di Kleist; basta poi leggere anche
soltanto le frasi introdu ive del Discorso su Lessing, incentrate sul
mito, per vedere come esso sia pertinente all’“ogge o”, o meglio
come con una lieve pressione si produca il collegamento con
l’“ogge o”. A quel tempo interruppi perfino la narrazione per
scrivere un racconto a sé stante, Mario e il mago, una storia che punta
decisamente sul politico e si occupa intimamente della psicologia del
fascismo e di quella della “libertà”, del vuoto di volontà che tanto la
danneggia di fronte alla robusta volontà dell’avversario.
Si deve considerare che, quando cominciai a scrivere Giuseppe, in
Germania le tensioni politiche del dopoguerra si erano già
fortemente acuite e negli anni Venti il mio lavoro le erario, grazie al
mio impegno politico, si svolgeva so o la pressione e il peso
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dell’odio nazionale che me eva a dura prova il mio equilibrio
psichico, pressione non mitigata dalla posizione di riguardo che la
Repubblica ufficialmente mi riconosceva e che comportava per me il
dovere di tenere ogni tipo di discorso accademico in occasione di
solenni ricorrenze. A tu o questo si affiancavano articoli, conferenze,
dichiarazioni non ufficiali volte a esorcizzare la situazione politica.
Le storie di Giacobbe erano già pronte ed era già stato scri o qualcosa
del Giovane Giuseppe quando, all’inizio del 1930, feci il viaggio in
Egi o e in Palestina che non voleva essere tanto un viaggio di studio
quanto una verifica sul posto della mia immersione in quel mondo,
a uata da lontano. Come che sia, vidi con i miei occhi, non con
quelli della mente, i paesaggi del Nilo dal delta fin su (o giù) nella
Nubia, i luoghi della Terra Santa, e le mie impressioni tornarono utili
per il terzo volume, scri o in parte ancora in Germania, intitolato
Giuseppe in Egi o. Rientra nel suo ambito il saggio Dolore e grandezza
di Richard Wagner. Erano trascorsi cinquant’anni da quando il grande
compositore e uomo di teatro aveva chiuso gli occhi a Venezia e
diverse ci à estere mi avevano invitato a tenere conferenze sulla sua
arte. Avevo scri o molto più di quanto potessi esporre oralmente, e
nella forma abbreviata che alla fine gli avevo dato lessi il mio
discorso celebrativo per la prima volta il 10 febbraio 1933
all’Università di Monaco davanti a un pubblico molto caloroso, per
poi partire il giorno dopo, con poco bagaglio, alla volta di
Amsterdam, Bruxelles e Parigi, abbandonando la Germania, dove
non sarei più rientrato.
Quando lasciai Monaco, Hitler era già cancelliere. Durante il
nostro soggiorno di riposo sulle montagne svizzere si verificarono
l’incendio del Reichstag, la catastrofica vi oria ele orale del partito
nazista, l’instaurarsi della di atura, la “rivoluzione nazionale”, e una
criminale campagna della radio e della stampa, scatenata contro di
me per il modo in cui avevo tra eggiato la figura di Wagner, mi
precluse del tu o il rientro in patria. Ho raccontato in altro luogo la
storia di questa epoca confusa della mia vita. Per l’opera di Giuseppe
significò un’interruzione di mesi. Una figlia coraggiosa, che aveva
osato ritornare nella casa di Monaco già requisita, mi portò nella
Francia meridionale il manoscri o che avevo lasciato là e
lentamente, in una situazione di provvisorietà e relativa quiete, si
rimise in moto il lavoro a un’impresa che da sola assicurò continuità
alla mia vita.
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