Giuseppe e i suoi fratelli – Thomas Mann

SINTESI DEL LIBRO:
«Dove mi conducete?» domandò Giuseppe a Kedma, uno dei figli
del vecchio, quando, giunti in un bassopiano ondulato illuminato
dalla luna, ai piedi dei monti chiamati “l’Albereto”, piantarono le
tende per passarvi la no e.
Kedma lo guardò dall’alto in basso.
«Sei proprio un bel tipo!» gli disse, e scosse la testa per fargli
capire che non intendeva “ammodo”, ma molte altre cose come
“ingenuo”, “sfacciato”, “strano”. «Dove ti conduciamo? Forse che ti
conduciamo? Noi non ti conduciamo affa o! Tu sei con noi per caso,
perché mio padre ti ha comprato da duri padroni, e vieni con noi
dove noi andiamo. E questo non si può certo chiamare “condurre”.»
«No? E allora no» rispose Giuseppe. «Intendevo soltanto: dove mi
conduce Dio, mentre viaggio insieme a voi?»
«Tu sei e resti un ragazzaccio dalle uscite alquanto comiche»
replicò il Maonita. «Hai un modo tu o tuo di me erti al centro delle
cose, nessuno sa se debba provare meraviglia o dispe o. Pensi forse,
signor Olà, che noi viaggiamo affinché tu giunga in un posto dove il
tuo Dio reclama la tua presenza?»
«Non ci penso nemmeno» riba é Giuseppe. «So benissimo che
voi, miei padroni, viaggiate per vostro conto, per vostri fini, e dove
vi piaccia; con la mia domanda non intendevo certo menomare la
vostra dignità e autonomia. Ma vedi, il mondo ha parecchi centri,
uno per ciascun essere, e intorno a ciascun essere gira un mondo
nella sua sfera. Tu sei distante da me solo mezzo cubito, ma intorno
a te gira un mondo il cui centro non sono io ma tu. Io però sono il
centro del mio. Quindi ambedue diciamo il vero, sia che tu parli
dalla tua postazione, sia che io parli dalla mia. I nostri mondi non
sono così lontani fra loro da non toccarsi, ma Dio li ha talmente
avvicinati, ha talmente incrociato e intrecciato gli uni agli altri, che
voi Ismaeliti potete ben viaggiare per vostro conto, secondo i vostri
intendimenti, potete andare dove volete, eppure, in quanto la vostra
sfera interseca la mia, siete anche strumento e mezzo affinché io
giunga alla mia meta. Per questo ho chiesto dove mi conducete.»
«Già, già» disse Kedma, e continuò a squadrarlo dalla testa ai
piedi, volgendo la faccia dal picche o che voleva conficcare nel
terreno. «Di tal genere sono dunque le cose che vai immaginando, e
la tua lingua corre come un icneumone.1 Dirò al vecchio, a mio
padre, che cosa ti perme i di elucubrare, figlio di un cane, in quale
sorta di sapienza ficchi il naso e come pretendi di avere un mondo
tu o per te, mentre noi saremmo qui solo per farti da guida. Bada
che glielo dico!»
«Diglielo pure» replicò Giuseppe. «Non può portare danno. Farà
rimanere a bocca aperta il padrone, tuo padre, e così, se mai vorrà
rivendermi, non mi cederà troppo a buon mercato né al primo
venuto.»
«Siamo qui per chiacchierare» domandò Kedma «o per piantare
una tenda?» E gli ordinò di dargli una mano. Ma fra anto diceva:
«Tu mi domandi troppo, quando vuoi sapere dove andiamo. Non
avrei nulla in contrario a informartene, se lo sapessi. Ma dipende dal
vecchio, mio padre, che fa di testa sua e decide e dispone, e noi lo
vediamo soltanto quando è cosa fa a. Certo è soltanto questo: noi
seguiamo la strada che ci consigliarono i tuoi duri padroni, i pastori,
e non procediamo verso l’interno del paese, sullo spartiacque, ma
siamo dire i verso il mare e la pianura costiera; là il nostro viaggio
proseguirà sempre in giù, giorno dopo giorno, e arriveremo nel
paese dei Filistei, nelle ci à dei mercanti di mare e alle rocche dei
pirati. Forse ti venderanno laggiù in qualche posto come schiavo al
remo.»
«Non è propriamente nei miei desideri» disse Giuseppe.
«C’è poco da desiderare. Tu o va secondo la volontà del vecchio,
secondo il suo pensiero, ma quale sia la meta ultima del viaggio,
forse non lo sa nemmeno lui. Gli piace però se crediamo che egli
sappia in anticipo ogni cosa, esa amente, e noi tu i ci diamo l’aria di
crederlo … Efer, Mibsam, Kedar e io … Ti racconto questo giacché
per caso ci troviamo qui insieme a rizzare la tenda, altrimenti non
avrei ragione di dirtelo. Non vorrei che il vecchio ti bara asse troppo
presto con porpora e olio di cedro. Preferirei che tu restassi ancora
un buon tra o con noi per udire da te ancora qualche cosa sui mondi
che girano intorno agli uomini e che s’intersecano tra loro.»
«Sempre pronto» rispose Giuseppe. «Voi siete i miei padroni e mi
avete comprato per venti denari, tu o compreso, anche l’intelligenza
e la lingua. Che stanno al vostro servizio, e a quel che ho de o sui
mondi individuali potrei aggiungere ancora qualche cosa sul
prodigio dei numeri, che non è perfe amente esa o e che l’uomo
deve correggere; inoltre sul pendolo, sull’anno di Sirio e sul ciclico
rinnovarsi della vita …»
«Ma non adesso» disse Kedma. «Adesso dobbiamo assolutamente
rizzare la tenda perché il vecchio, mio padre, è stanco, e anch’io lo
sono. Temo che oggi non potrei più star dietro alla tua lingua. Ti
senti ancora male per la fame, e ti dolgono ancora le membra per le
corde con cui fosti legato?»
«Quasi non più» rispose Giuseppe. «Solo tre giorni passai nel
pozzo, e il vostro olio, con cui potei ungermi, ha fa o bene alle mie
membra. Sono sano e nulla può diminuire il valore e il rendimento
del vostro schiavo.»
Egli aveva avuto in effe i occasione di pulirsi e di ungersi, aveva
ricevuto dai suoi padroni di che cingersi i fianchi e per le ore più
fresche anche un mantello col cappuccio, bianco e gualcito, simile a
quello che portava il ragazzo dalle labbra tumide che reggeva le
briglie. La frase “sentirsi come rinato” si addiceva forse più
esa amente a lui che a qualunque altra creatura sia mai comparsa
sulla faccia della terra. Non era egli veramente rinato? Un taglio
profondo, un abisso separava il suo presente dal passato: la tomba.
Ma poiché l’incontro con la morte era avvenuto nella prima
giovinezza, le sue forze vitali, al di là della tomba, si rinnovarono
presto e facilmente; ciò non gli impedì tu avia di distinguere con
ne ezza tra la sua esistenza presente e la passata, che si era conclusa
nella fossa, e di vedere in sé non più il vecchio Giuseppe, ma un
Giuseppe nuovo. Se essere morti e defunti significa essere legati in
modo inesorabile a una condizione che non ci perme e in alcun
modo di rivolgerci indietro verso il passato, che non concede
nemmeno il più lieve rapporto con la vita di un tempo; se essere
morti e defunti significa essere scomparsi e ammutolire alla vita che
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ino a ieri fu nostra, senza che sia consentito o possibile, per quel che
si possa umanamente concepire, infrangere con qualche segno il
potere magico del silenzio … se è così, Giuseppe era morto, e l’olio,
con cui aveva potuto ungersi dopo essersi purificato dalla polvere
del pozzo, altro non era che l’olio di cui si provvede il morto nella
tomba, affinché possa ungersi nell’altra vita.
Noi a ribuiamo importanza a questo aspe o, perché ci sembra
urgente allontanare, per ora e per più tardi, un rimprovero che nel
considerare la sua storia spesso è stato mosso a Giuseppe: molti si
sono domandati – e nella domanda era un rimprovero – perché mai
egli, sfuggito alla sua buca, non abbia subito cercato in tu i i modi di
me ersi in relazione con l’infelice Giacobbe, per fargli sapere che era
vivo. Un’occasione si sarà pur presentata presto, anzi col tempo al
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iglio si sarà offerta sempre più agevolmente la possibilità di far
pervenire al padre così crudelmente ingannato notizia della verità,
ed è inconcepibile, tanto inconcepibile da suscitare scandalo, che egli
abbia trascurato di utilizzare queste occasioni.
Il rimprovero scambia ciò che è fa ibile esteriormente con ciò che
è interiormente possibile, e non tiene conto dei tre giorni di tenebra
che avevano preceduto il ritorno alla vita di Giuseppe. Fra i dolori
più atroci, quei tre giorni lo avevano costre o a rifle ere sulla
mortale colpevolezza della vita vissuta fino ad allora, e a rinunciare
a un ritorno in quella vita; gli avevano insegnato a convalidare la
certezza che i fratelli nutrivano circa la sua morte, e la sua decisione
e il proposito di non deludere questa credenza erano tanto più fermi
in quanto non voluti, ma involontari e logicamente necessari, come il
silenzio di un morto. Un morto tace davanti alle persone amate non
per mancanza d’amore, ma perché così deve; e non per crudeltà
taceva Giuseppe verso il padre. Anzi, ciò gli era grave, e tanto più
grave quanto più il tempo passava, si può ben crederlo: non più
grave posa la terra sul morto che essa ricopre. La pietà per il vecchio
che, lo sapeva, l’aveva amato più di se stesso e che egli amava di
uguale amore, con il più naturale senso di gratitudine, e in
compagnia del quale si era fa o ge are nella fossa, quella pietà lo
tentava fortemente, e avrebbe potuto con facilità indurlo a qualche
passo insensato. Tu avia la pietà per un dolore che il nostro destino
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suscita negli altri è di un genere speciale, certamente più ferma e
fredda della pietà per un dolore a noi estraneo. Giuseppe aveva
vissuto un’esperienza terribile, ne aveva tra o un crudele
insegnamento, e questo a enuava la sua pietà per Giacobbe, anzi la
coscienza della loro comune responsabilità gli faceva apparire il
dolore del padre in un certo senso giusto e naturale. Il vincolo con la
morte gli impediva di smentire il segno insanguinato che al vecchio
era toccato ricevere. Ma il fa o che il padre dovesse per forza e
irrefutabilmente scambiare il sangue dell’animale per quello del
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iglio agiva a sua volta su Giuseppe e annullava praticamente ai suoi
occhi la differenza tra “questo è il mio sangue” e “questo
simboleggia il mio sangue”. Giacobbe lo credeva morto; e poiché la
sua convinzione era irrefutabile … era dunque Giuseppe morto, o
viveva ancora?
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