Filippo e Lucilla, la luce dei Normanni – Francesca Cani

SINTESI DEL LIBRO:
Era l’alba e la luce del sole ardeva sulle perle di rugiada prigioniere
nelle tele di ragno. Il monaco intrecciò le dita con quelle della
giovane, se le portò alle labbra e le baciò. Lei sollevò i fianchi dai
suoi e i loro corpi si separarono, colpendolo di un intenso rimpianto.
Chiuse gli occhi e con una smorfia di sofferenza tornò alla realtà .
Era sudato, il cuore sembrava volergli sfuggire dalla cassa
toracica. Eppure era vivo, vivo come non lo era mai stato. Sorrise, e
abbandonò la testa sul giaciglio fatto di pianticelle di grano.
Quello sarebbe stato il momento più indimenticabile della sua vita
se non fosse stato altrettanto sbagliato.
«Dimmi il tuo nome» sussurrò rivolto alla ragazza.
Di lei sapeva che era nobile e che suo padre la stava portando a
settentrione per darla in moglie a un uomo molto più vecchio, un
certo Odo di Lacus, per il quale lei doveva provare orrore, visto che
ogni volta che suo padre lo nominava le salivano le lacrime agli
occhi. La sua famiglia aveva chiesto ospitalità al monastero dopo
che una tempesta aveva abbattuto diversi alberi sui sentieri e reso le
vie torrenti di fango impraticabili. Per alcuni giorni aveva incrociato il
suo sguardo malinconico nel refettorio. Poi un breve saluto, una
benedizione. Ma lei continuava a guardarlo quando poteva e lui, Dio
lo assolvesse, rispondeva ogni volta, fino al giorno in cui le donò un
sorriso. Seguì una risata fatta insieme, all’unisono, come campane
gemelle. D’un tratto erano giovani liberi di intrecciare le dita e fuggire
dimenticando i doveri per una manciata di istanti.
«Per quale ragione? Non voglio conoscere il tuo, non è
necessario.»
«Desidero tenerlo per sempre con me.»
«Dorotea.»
«Doron, theos. Dono di Dio» sussurrò rapito dal suono di quelle
due parole greche.
La giovane si sciolse dal suo abbraccio. I capelli arruffati, lo
sguardo fiero di una creatura ultraterrena. Dio misericordioso, era
bellissima. Eppure era come se anche lei avesse preso piena
coscienza del misfatto compiuto solo in quel momento, allo spuntare
dell’aurora. I loro corpi madidi e ansimanti erano ancora così vicini
che il ragazzo poté sfiorarla. Una carezza lieve come una piuma
sulla gola candida, mentre le dita gli tremavano.
«Non scappare, aspetta» sussurrò, ma lei scosse il capo e prese a
rivestirsi con furia.
«Fino al sorgere del sole, questo era il patto.»
«Me lo ricordo, ma...»
«Addio, monaco» mormorò la fanciulla chinandosi per scoccargli
un ultimo bacio sulle labbra ardenti. «Grazie.»
In quel momento nella radura si udì il rintocco delle campane
dell’abazia. Il giovane frate si fece il segno della croce e la
perfezione di una notte di folle passione si fece un ricordo
sgradevole e corrotto. Gli parve che il suo corpo stesse marcendo,
ne percepì il tanfo. Il Signore lo aveva visto, sapeva del suo peccato,
perciò doveva tornare in comunione con Lui. Indossò il saio nero, il
tessuto grezzo sulla pelle gli mosse un brivido, si raddrizzò e corse
verso le mura del monastero.
Entrò dall’orto, trafelato, arraffò un paio di rape per rendere
credibile la sua presenza ai piani inferiori. Amava coltivare la terra e
si
dedicava spesso alla semina e alla coltura. Nelle cucine
dell’abazia il fuoco scoppiettava sotto un pentolone, c’era odore di
stufato di montone. Un topo squittì fra le provviste facendolo
trasalire.
«Cos’ho fatto?» gemette.
La testa gli scoppiava, i capelli castani erano scompigliati intorno
alla chierica e sentiva le labbra gonfie per i baci. Misericordia, non
aveva mai neppure visto una donna nuda prima di quella notte. Ora
la sua bocca aveva conosciuto il peccato, il suo corpo era ancora
marchiato dalla lussuria, eccitato, incapace di tornare alla calma che
aveva contraddistinto la sua vita fino a quel giorno. Era perduto. La
sua anima sarebbe stata divorata dal demonio perché per un solo
istante aveva ceduto alla carne, gettando all’aria un’intera esistenza
di rettitudine e sacrificio.
Scappando dai locali seminterrati, andò a sbattere contro il fratello
cuoco che lo apostrofò indignato: «Dove scappi?»
La testa gli vorticò, si appoggiò alla parete per non cadere.
D’un tratto era come se l’intera abazia sapesse, come se le pietre
stesse che costituivano i muri e le colonne avessero occhi per
spiarlo e bocche pronte a giudicarlo. Salì di corsa le scale a
chiocciola ed entrò come una furia nella pieve. Per un istante le
rocce lisce del pavimento donarono sollievo ai suoi piedi nudi,
mentre la fitta penombra e il mormorio dei monaci lo quietarono.
Alzò gli occhi al rosone in cerca del sole. Aveva bisogno di Dio e
della sua luce e misericordia. Ma l’Onnipotente non era intenzionato
a donargli il perdono, un fascio luminoso colpì i capitelli scolpiti
rivelando le loro forme diaboliche.
Aquile che ghermivano scheletri. Peccatori infilzati dal tridente del
diavolo. Bocche contorte e spalancate in un muto grido di dolore
eterno.
Tirò il cappuccio sul capo, mordendosi le labbra per non urlare di
sgomento. E poi vide un monaco seduto sullo scranno del coro.
«Ho bisogno di confessarmi.» Il panico lo afferrò, rendendolo
incauto.
«Buongiorno, Eminenza» lo salutò Gioacchino da Perusia, usando
il
titolo che all’epoca si attribuiva solo a sovrani e papi. Un
appellativo che era solito utilizzare come un nomignolo buffo, per
concedersi un sorriso durante le loro lunghe giornate presso lo
scriptorium. «Sei mattiniero.»
«Non ho dormito affatto e non devi chiamarmi così, giacché sono
tuo pari, fratello Gioacchino.»
La voce gli uscì gracchiante. Sentiva la gola riarsa e piagata come
se avesse ingerito una manciata di sabbia bollente.
«L’umiltà è la dote che più ti fa onore. Eppure l’abate è tuo zio e tu
sei uno dei figli prediletti di tutto il nostro ordine, io non posso
dimenticarlo» disse allegro Gioacchino e aprì il confessionale per
dare inizio al rito.
Nell’ombra della pieve si sentì lo schiocco di una frusta e poi un
lamento.
«Pentimento, espiazione, peccato» sussurrò come un folle.
Non era mai stato così vicino a comprendere la validità della regola
di san Benedetto come in quel momento. Un codice rigido che
ispirava uomini di vera fede.
«Cos’ho fatto?» ansimò in preda ai propri demoni.
«Sei turbato, Eminenza, sotto al cappuccio il tuo viso è di latte.»
«Promettimi che proteggerai il mio segreto, la mia vergogna»
esclamò con gli occhi fuori dalle orbite.
La fronte imperlata di sudore ghiacciato, cadde sulle ginocchia
colpendo il pavimento con le ossa sporgenti. Giunse le mani e
chiuse gli occhi fino a far sparire il mondo, mentre il cuore gli
martellava così forte nel petto da fargli male.
«Dimmi cosa ti angoscia, amico mio» sussurrò Gioacchino. «Sono
pronto per portare il peso della colpa insieme a te e anche a dare
sollievo alla tua anima. E non temere, ciò che mi dirai rimarrà nella
casa di Dio.»
Il penitente deglutì in modo rumoroso.
«Perdonami, Padre misericordioso, perché ho commesso un
peccato grave» attaccò, gli fischiavano le orecchie.
«Suvvia, fratello, qual è la tua mancanza?»
La pieve vorticò davanti ai suoi occhi. Il panico si fece sudore che
gli corse a rivoli sulla schiena.
«Lussuria.»
Il silenzio ovattato sporcato da una parola immonda. Lo sfrigolio di
una candela di sego e lo scricchiolare del legno centenario del coro
sembrarono boati. Il sangue gli scorreva come un fiume impetuoso
nelle vene e le tempie gli pulsavano.
«Cosa? Fra queste mura? Oh, Eminenza, ti stai prendendo gioco
di me.»
Fu come ricevere una sberla in pieno viso.
«Carnalità . Abominio. So che non potrò mai reclamare quella
donna come moglie, concubina o amante. I padri del nostro sacro
ordine rinunciano al mondo, non sono come i grassi e opulenti
principi della Chiesa che vivono nella colpa. So che avrei dovuto
distogliere lo sguardo da lei e fissarlo sulla luce di Dio, ma ho
ceduto.»
«Parli di occhi, di sguardi, Eminenza. Il vizio è più lieve se
coinvolge solo il pensiero» balbettò Gioacchino interrompendolo.
«Le tue sono fantasie innocue di cui tuttavia è meglio che ti liberi.»
Voltò di scatto il capo cogliendo un tramestio di vesti. C’era
qualcuno in ascolto?
Scosse la testa. «È troppo tardi. Lei è stata mia, io sono stato
suo.»
Gioacchino sbiancò e strabuzzò gli occhi, nella pieve si udì distinto
il rumore di passi.
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