Figlie di una nuova era – Carmen Korn

SINTESI DEL LIBRO:
Henny tese l’orecchio. Le sembrava di aver sentito salire dal
cortile, fino al secondo piano, un suono venuto dal passato, come un
rintocco di campana o il verso di un merlo. Le vennero in mente i
sabati della sua infanzia. Sabati estivi. L’acqua che scintillava nella
cisterna. Il ribes bianco che le lasciavano cogliere dai rovi addossati
al muro di cinta, il profumo della torta che sua madre aveva giÃ
messo in forno per la domenica. Suo padre, appena tornato
dall’ufficio, che fischiettava mentre si liberava della cravatta e si
sbottonava il colletto della camicia.
Henny andò alla finestra, l’aprì e stette ad ascoltare il suono che
aveva risvegliato in lei quella serie di immagini. Il cigolio della
vecchia altalena.
L’estate era ancora lontana. Il bambino sull’altalena di sotto
portava ghette spesse e ruvide e una corta mantellina, il cielo sopra
di lui era grigio e i cespugli ancora spogli. Però si vedevano già gli
amenti sui rami del salice e le campanelle al margine del prato, e
anche la luce sembrava dare un poco di speranza in più rispetto ai
giorni passati. I mesi più duri dell’inverno erano alle spalle, così
come gli anni bui della guerra.
«Sei ancora in camicia da notte e te ne stai lì al freddo». Henny si
voltò verso sua madre, che era appena entrata in cucina e ora la
raggiungeva alla finestra. «Non sono nemmeno le otto e quella giÃ
manda il figlio in cortile». Else Godhusen scosse la testa. «E tu
muoviti, forza. Ho ancora un po’ d’acqua calda nel bollitore. Te la
verso nel catino».
Il
bambino, sceso dall’altalena, era scomparso dalla vista.
Doveva essere entrato in casa passando per la cantina. Il cigolio
seguitò per diversi secondi. Henny voltò le spalle alla finestra e si
avvicinò al lavello, aprì il rubinetto dell’acqua fredda, ne versò un po’
nel catino smaltato che già scottava e poi tirò la tenda di robusto
cotone bianco, il cui orlo ricamato finiva a un dito dal pavimento di
linoleum. Gli anelli scivolarono lungo il bastone di ferro e la tela di
cotone si aprì come un séparé in mezzo alla cucina.
Il bastone lo aveva installato suo padre poco dopo il dodicesimo
compleanno di Henny. «Guardala, come s’è fatta grande», aveva
detto quella volta Heinrich Godhusen. «Da un giorno all’altro la
vedremo che fa il bucato in piedi davanti all’acquaio». Ora Henny, di
anni, ne aveva appena compiuti diciannove e suo padre era morto
da un pezzo. Caduto nella Grande Guerra.
Si sfilò la camicia da notte e prese il sapone al profumo di violetta
dalla scodella in cui era riposto. Non un ruvido pezzo di sapone
rimacinato con la polvere di mattoni o con quel che si trovava.
Immerse per qualche istante la preziosa saponetta e se la lasciò
scivolare di mano in mano con devozione, finché non ne uscì un po’
di schiuma. Poi cominciò a lavarsi da capo a piedi.
«Il profumo si spande per tutta la cucina», osservò sua madre
raggiante di orgoglio. La saponetta era il suo regalo di compleanno,
insieme a una valigetta da ostetrica usata ma ben tenuta. Else
Godhusen aveva sacrificato una discreta quantità di margarina per
far risplendere a dovere il cuoio scuro. «La nostra futura ostetrica!»,
aveva esclamato. «Meglio ancora che infermiera. Quanto sarebbe
stato orgoglioso tuo padre!».
Madre e figlia avevano fatto tutto il possibile per dissuaderlo da
un precipitoso arruolamento volontario alla rispettabile età di
trentotto anni.
«Non fare l’eroe», gli aveva detto Else. Ma Heinrich Godhusen
era stato preda facile dell’ebbrezza patriottica dell’agosto del 1914.
Era partito sventolando il cappello. Non un cappello rigido, ma una
paglietta, che agitava allegramente al vento. Viva la Germania! Viva
il Kaiser! La banda suonava, dalle canne dei fucili spuntavano fiori.
Trascinato in guerra, ucciso, sepolto in una fossa comune. Il
secondo reggimento della milizia territoriale era stato schierato
subito sul fronte orientale. «La guerra è l’inferno», aveva scritto
Heinrich a Else. Ma Henny non ne sapeva niente.
«Käthe mi è parsa un po’ invidiosa della tua valigetta», disse Else
Godhusen. «Chissà con che borsaccia si è presentata alla Finkenau!
Strano che l’abbiano presa, tra l’altro. Spesso è così sciatta. Ho fatto
caso che le sue unghie non erano proprio pulite...».
«Smettila, mamma», l’ammonì Henny da dietro la tenda.
La sua più cara amica d’infanzia aveva esitato a lungo prima di
fare domanda per un posto da apprendista. Ostetrica alla Finkenau!
La clinica che negli ultimi cinque anni era diventata una delle più
rinomate della regione sembrava una mira troppo ambiziosa per
Käthe, una modesta assistente sociale.
«Käthe la conosci da quando aveva sei anni, eppure a volte ho la
sensazione che non la sopporti». Prese la camicia che aveva
appeso al bastone della tenda.
«Puoi anche uscire nuda. Non ti vergognerai mica di fronte a tua
madre! E in cucina c’è caldo».
Henny tirò la tenda da una parte e ne uscì in maniche di camicia.
«Hai sentito o no, cos’ho detto?».
«Non ho forse preso dalla cantina l’ultima bottiglia di vino di tuo
padre, per berla insieme a te e a Käthe?».
«Ma lei non ti piace, vero?».
La madre di Henny si prese del tempo per rispondere. «Ma sì, sì
che mi piace Käthe», concesse alla fine. «È solo che la migliore sei
tu».
«Tua madre mira in alto», aveva detto Käthe la sera prima,
mentre lei e Henny si salutavano sulla porta. «E non farmi dire
niente delle sue idee politiche...».
All’inizio era stato un compleanno lieto. Avevano vuotato una
bottiglia di Oppenheimer Krötenbrunnen del 1912 e bevuto anche
dello spumante, vecchio e torbido. Avevano levato i calici alla salute
di Henny e di suo padre, che riposasse in pace, poi avevano
brindato anche alle due future ostetriche. Avevano mangiato panini
con cipolle a fette e cetriolini sott’aceto, l’ultimo barattolo scovato da
Else in una credenza piena di contenitori vuoti.
«Una volta io e Heinrich abbiamo ordinato del brodo con vere
foglie d’oro», aveva ricordato con aria sognante. «In una di quelle
trattorie di Colonia dove si mangiano ostriche. A tuo padre le
ostriche non piacevano. Sapevano troppo di pesce, diceva».
«Al Reichshof hanno dei pasticcini francesi con la glassa rosa e
le mandorle zuccherate. Sono tutti luccicanti. Purché non abbiano il
marchio di fabbrica».
«Hai sempre avuto un debole per i dolci», aveva detto in tono
blandamente severo la madre di Henny, che avrebbe preferito
indugiare ancora un po’ nei bei ricordi di prima della guerra. «È
incredibile che si trovino ancora i petit four. Solo ieri eravamo in
guerra contro i francesi... e tu come ci sei capitata, esattamente, al
Reichshof?».
«C’è sempre la torta marmorizzata, però», s’era affrettata a dire
Henny per portare il discorso in una zona meno pericolosa.
«Ma è piccola. Gli ingredienti non bastavano per farne una
grande. Basta appena a stuzzicare l’appetito a Käthe».
«Non ne parliamo», aveva replicato Käthe. «Perché farsi del
male?».
Forse il vino le aveva dato alla testa. Henny era disposta a
imputare a ciò il fatto che a un certo punto sua madre si fosse messa
a cantare il Rheinlied: «Non prenderanno il Reno, fiume libero di
Germania anche se strillano come corvi avidi».
«La guerra è stata un crimine!», era scattata Käthe al secondo
verso. «Un crimine contro tutti i popoli. E il Kaiser è un farabutto!».
«Ma è stato anche un atto di grande coraggio! I tuoi discorsi
comunisti valli a fare fuori da casa mia, Käthe!».
Ormai la serata era rovinata.
Mentre Käthe tornava all’appartamento di Humboldtstraße,
appena dietro l’angolo, dove viveva coi suoi genitori, figlia unica
dopo la morte dei fratelli, Henny si era concessa di sognare una
stanza tutta sua. Una stanza alla quale sua madre non avesse
accesso.
Lei e Käthe erano cresciute così, facendo su e giù fra le rispettive
case. I genitori di Henny si erano trasferiti in quella parte del
quartiere, verso Brambeck, poco dopo l’inizio delle elementari.
Henny l’aveva notata subito, nel tragitto da casa a scuola, la
ragazzina con le trecce nere e il grembiule allacciato di sghembo.
Così come Henny, Käthe aveva in mano una bustina di zucchero.
Dalle loro cartelle pendevano due stracci, per pulire la lavagna. Gli
stracci e le trecce, bionde e brune, si agitavano al vento. Il cielo
prometteva pioggia.
«Ma guardati! Non ti sei allacciata bene il grembiule», la sgridava
spesso Else Godhusen. Già allora aveva quello sguardo severo,
quel tono ostile, quando si rivolgeva agli altri.
Anche la sera prima Else aveva cantato tre strofe di quel canto
patriottico che Henny detestava, e il cui ultimo verso le era tornato in
mente subito al risveglio.
«Fino a quando la piena seppellirà le ossa dell’ultimo uomo...».
L’aveva
tormentata
finché
non
definitivamente dal cigolio dell’altalena.
era
stata
rimpiazzata
Henny si mise il tailleur di pettinato grigio chiaro, che Else le
aveva ricavato da un completo del padre, con la camicetta bianca a
pieghe, infilò i piedi negli stivaletti e se li allacciò.
«Fatti bella e divertiti», le disse Else. «Ma devi essere qui per
mezzogiorno, intesi?».
Henny le baciò distrattamente la guancia e si chiuse la porta alle
spalle. Arrivata in strada, si fermò un attimo a fare un cenno di saluto
alla madre che, come di consueto, si era affacciata alla finestra. Poi
si chinò per riallacciarsi uno stivaletto.
Nella vetrina di Salamander aveva visto delle décolleté. Morbida
pelle scamosciata. Non vedeva l’ora di cominciare il tirocinio alla
Finkenau. Iniziare con leggerezza una nuova vita. Lontano da Else.
«Si comincia!», aveva esclamato la sera prima Käthe col pugno
levato, mentre Henny, in piedi sull’uscio, la guardava andare via. Da
bambine avevano appurato che potevano volerci da sei a otto salti
per andare dalla casa di Henny all’angolo della Schubertstraße a
quella di Käthe sulla Humboldt, proprio lì di fronte. Quella che faceva
i salti più lunghi era Käthe.
Una stanza tutta sua. Una porta che si chiudesse. Col suo
stipendio da infermiera avrebbe potuto permetterselo. Ma Else non
aveva voluto saperne, e perfino il trasloco dalla camera dei genitori,
dove dall’inizio della guerra Henny dormiva sul lato paterno del letto,
invece che nel lettino a ribalta che usava prima, aveva richiesto una
discreta prova di forza.
Henny aveva espugnato il piccolo salotto, che attendeva
pulitissimo occasioni più degne, e si era preparata il letto sulla
chaise-longue, finché sua madre, datasi per vinta, non le aveva tirato
giù dalla soffitta la vecchia brandina. Da allora la chiave della stanza
non s’era più trovata.
Quella mattina, mentre ascoltava con attenzione il cigolio
dell’altalena, le era tornato alla mente un altro ricordo. Il bombo
morto che aveva trovato un giorno in cortile. La piccola Henny era
sconvolta dal fatto che anche in estate i bombi potessero morire.
Suo padre lo aveva racchiuso nella sua grossa mano, poi erano
andati in mezzo al campo per dargli sepoltura.
Il
dolce padre, che era stato poi risucchiato in quella guerra
assurda. «Forte rocca è il nostro Dio», canticchiava radendosi
davanti allo specchio quell’ultima mattina che si era svegliato nel suo
letto. Heinrich Godhusen mancava molto a sua figlia.
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