Depilando Pilar – Andrea Pinketts

SINTESI DEL LIBRO:
Ce l’avevo grosso. E molle. L’alluce intendo.
In realtà non è che fosse poi così molle. Anzi, per certi versi era
durissimo. Enorme nella sua imponenza marmorea. Ma fiacco, flaccido,
per altri versi. Quei versi osceni che mi avrebbero costretto di lì a poco a
sottopormi, presso il centro medico Visconti di Modrone, a un’umiliante
ecografia delle parti molli. Una cosa imbarazzante, per uno che si pasce
di una reputazione da duro.
Faccio un balzo in avanti e vi comunico subito il risultato, prima che
cominciate a preoccuparvi.
“Il tessuto sottocutaneo dell’alluce risulta marcatamente ispessito e
disomogeneamente ipoecogeno come per uno stato ematoso. Coesiste
sul
versante plantare interno una raccolta fluida, con aspetto
crepuscolato, delimitata da una spessa Immagine di Parate, a margini
sfumati verso il grasso contiguo. Esso si estende in senso longitudinale
per tratto di 4 cm con diametri traversi massimi di 3,3 per 0,7 cm. Tale
alterazione non è di univoca interpretazione: potrebbe trattarsi di borsite
oppure di una raccolta ematica di natura traumatica.” Cazzo, neanche
quella succhia-alluci di Patricia Cornwell avrebbe saputo esprimersi
meglio.
«Mi è caduta una cicciona sull’alluce» dissi al dottor Kusini, a guisa di
spiegazione.
Non si stupì più di tanto. Ormai eravamo diventati amici. Da almeno
un anno lo andavo a trovare al Policlinico, nell’Istituto di Scienze
Dermatologiche Università di Milano.
Ormai conoscevo l’ambulatorio di via Pace 9 come le mie tasche.
Come i miei alluci.
Kusini era un bell’uomo sui quarantacinque, alto, stempiato, ironico.
Si occupava di pelle ma non disdegnava il pelo. Nel senso che coltivava
un paio di baffi di cui si prendeva cura come se fossero suoi pazienti.
Da dodici mesi andavo a fargli visita e lui, per contraccambiare, mi
visitava.
Insieme avevamo già debellato un condiloma e un eczema da stress
particolarmente coriacei. Un alluce abnorme non poteva certo
impressionarci più di tanto.
Esaminò il ditone con l’espressione estatica dell’entomologo che
scopre una nuova specie di scarrafone. Poi subentrò la preoccupazione.
Infine il divertimento.
«Cazzo, Lazzaro. Questo è il dito più grosso del West!»
«Sono soddisfazioni, vero? Roba da fare invidia a Pollicino» replicai.
Gian Marco tornò ad essere il dottor Kusini. Si fece serio. «Com’è
successo?»
«Te l’ho detto. Mi è caduta una cicciona sul piede. Ero su un aliscafo
Napoli-Ischia e un’orchessa americana di centoventi chili è inciampata
su un gradino della scaletta e mi è caduta sul piede. Ricordo solo un
corpo colossale in un enorme camicione fiorato di Positano in caduta
libera. Poi la prigionia dell’attimo del dolore e la liberazione di un
bestemmione. Non l’ho presa a pugni perché non picchio le signore,
salvo eccezioni. E
non l’ho presa a calci in culo perché mi faceva troppo male il piede.»
Il
dottor Kusini disse: «Bisogna radiografarlo». Gian Marco (e Mr
Hyde) dissero:
“Bisogna radiografarlo. Per la mia collezione personale”.
***
Non so se tutte le storie d’amore si possano trasformare in amicizia.
Nel mio caso sì.
Un amore si può trasformare in un’amicizia. Per un’altra persona
però.
Nel mio kaso, il dottor Kusini.
Mi ero innamorato di Kaimana. Una favola corvina che, dopo essersi
laureata in economia alla Bocconi, aveva ritenuto più remunerativo, a
inizio carriera, sotto un profilo squisitamente economico, esercitare la
mobilissima professione di ballerina.
Lap dancer.
Un vero colpo di fulmine.
Per quanto fossi costretto a guardarla dal basso in alto mentre lei
ginnicamente risaliva il palo contro cui si era dimenata, l’incontro era
stato molto romantico.
Ci trovavamo al Pick Me Up di Fatesulserio, un paesetto
nell’hinterland milanese, quasi in provincia della provincia.
Lei era l’attrazione dell’addio al celibato di un coglioncello che di lì a
pochi mesi si sarebbe separato. Io ero andato a trovare, dietro sua
insistenza, il mio amico Mohammed, detto “il profeta del ring”, un tempo
buttafuori al vecchio Le Trottoir di corso Garibaldi, e ora security in un
locale allegro come una pizzeria da centro commerciale gestita da un
sacrestano appassionato di numismatica.
Chiamasi metafora.
«Come ti chiami?» chiesi alla ragazza che, una volta terminata
l’esibizione, avevo raggiunto in zona bar.
«Non è tanto originale come approccio» commentò.
«Hai ragione ma ti stai sbagliando.»
«Nel senso che…?»
«Che è questa cazzo di musica a manetta ad averti fatto fraintendere
la mia domanda.
In realtà avevo chiesto: “Come mi chiamo?”.»
Cambiò atteggiamento. Il gioco la stava incuriosendo. «Come ti
chiami?»
«Mah. Me lo stavo chiedendo anch’io. A volte mi chiamano stronzo. A
volte bastardo. In altri casi vecchia roccia. Oppure amigo, quando va
bene. E amore quando va benissimo. Però per l’anagrafe sono
Lazzaro.»
«Bel nome. Io sono Kaimana.»
«Anche Kaimana è un bel nome. Ha il suo mordente. Puoi offrirmi
qualcosa da bere?»
Stava per mandarmi a fare in culo, seppure senza rinunciare alla
curiosità, quando:
«Non guardarmi così Kaimana. Qui l’acustica è pessima. Non hai
sentito né capito ciò che stavo dicendo: posso offrirti da bere?».
Il sorriso si aprì palesando una dentatura smagliante impreziosita da
un brillantino rosso.
«Come mai hai un brillantino rosso incastonato nel dente più
affascinante che abbia mai visto? Hai il canino insanguinato?»
«No, coglione. Semplicemente si tratta di un rubino.»
Ormai stavamo diventando i due concorrenti di un gioco a flirt. Che è
sempre meglio di un gioco a quiz. Al secondo Cuba Libre mi rivelò: «Sai,
Lazzaro. Anche se sono laureata col massimo dei voti ho capito una
cosa. Quando facevo la lap dance da studentessa, mi ero convinta che
fosse un lavoro come un altro per mantenermi agli studi. In realtà mi
piace ballare e sono un’esibizionista. Il che, come ben sai, non significa
essere una zoccola. Dopo un paio di colloqui post laurea, quando ho
scoperto che i miei presunti datori di lavoro più che al mio centodieci e
lode erano interessati al mio sessantanove, ho ripreso la mia vecchia
passione».
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