Cuore d’eroe – Roberto Piumini

SINTESI DEL LIBRO:
Perché Giunone dava a Enea tanto tormento? Non le
bastava che i Greci, con il suo aiuto, avessero sconfitto i
Troiani ed abbattuto Troia? Tanto ancora bruciava il
giudizio che Paride aveva dato, scegliendo come più bella
Venere, da non farle bastare quella strage tremenda? Ma
perché, soprattutto, perseguitava Enea che con una ventina
di navi era fuggito, portando il padre Anchise e il figliolo
Ascanio?1
Perché la dea conosceva la profezia per la quale Enea e i suoi compagni
avrebbero raggiunto le verdi coste del Lazio, e avrebbero fondato una stirpe,
e città: da loro sarebbe nata Roma, così potente da dominare ogni terra, tutto
il Mediterraneo e Cartagine stessa, città sacra a Giunone.
Ecco per quali ragioni, con ira e con dolore, la dea perseguitava, e
preparava vendette e disgrazie ad Enea.
Quando vide le navi staccarsi dalla Sicilia ed aprire le vele a un vento
favorevole che le spingeva a nord, verso le coste tirrene, calò la dea sulle
Eolie, dove regnava Eolo tenendo in una caverna venti terrestri e marini e
placandone l’ira.
“Potente re”, gli disse, “un popolo, mio nemico, sta navigando il Tirreno
verso le foci del Tevere, per continuare lassù l’odiata stirpe di Troia. Libera i
venti più pazzi, distruggi la sua flotta, falli tutti annegare. Avrai in sposa, per
questo, la mia ninfa più bella: Deiopea…”
Eolo, obbediente e goloso, toccò con il suo scettro la caverna, e ne
uscirono Euro, Noto ed Africo, e si scagliarono tutti in furibondo groviglio
sul mare, e una tempesta incominciò, tremenda. Nel buio improvviso, tra
tuoni, lampi e onde, i Troiani tremavano.
“Oh, beato chi è morto combattendo a Troia!” gridò Enea aprendo le
mani al cielo. “Perché non caddi anch’io, ucciso dal ferro di Diomede, là
nella mia città, vicino ai miei fratelli? Ora, con questi compagni, sarò
inghiottito dal mare, annegherò nel nero senza una tomba ed un nome!”
E le navi sbandavano, si perdevano in ogni direzione: presto alcune si
arenarono su degli scogli, altre furono spinte dal vento fino a dei bassifondi.
Quella dei Lici, al comando del valoroso Oronte, fu risucchiata in vortice;
quelle del vecchio Alete, quelle di Acate e di Abante, ebbero falle ai fianchi e
si riempirono d’acqua.
Ma il dio del mare, Nettuno, uscì dalle onde, stupito, vide la flotta
dispersa sotto la furia dei venti.
Li chiamò tutti, allora, attorno al suo capo azzurro e disse loro, gridando:
“A me soltanto spetta il dominio del mare! Ritornate da Eolo e portate il
mio ordine: vi tenga chiusi e legati come gli tocca fare!”
E distese il tridente, e tornò calmo il mare. Scomparvero le nuvole, tornò
splendido il sole.
Cimòtoe e Tritone, aiuti di Nettuno, alzarono le navi che si erano
incagliate e liberarono quelle frenate dall’arena, mentre il dio del mare
passava sull’azzurro con il suo cocchio leggero, e quietava le onde.
Sul mare liscio, stanchi, i Troiani guidarono le sette navi rimaste unite
verso l’Africa. Arrivati ad un golfo circondato da boschi, gli uomini discesero
dalle navi malconce con un gran desiderio di terra e di riposo. Ed accesero i
fuochi, trasportarono il grano, lo fecero tostare e si nutrirono.
Enea, da uno scoglio, cercava sopra il mare i compagni sperduti: vide
invece tre cervi che, non troppo lontani, pascolavano a capo dei loro branchi.
Con l’arco li seguì e ne uccise sette fra i più grossi: uno per ogni nave che si
era salvata con lui dalla tempesta. Poi, spartito il cibo e brindato col vino,
Enea disse ai compagni:
“Abbiamo conosciuto la furia di Cariddi! Abbiamo visto, amici, il volto
del Ciclope! Un dio ci guiderà, e ci farà passare anche questa sventura. Ci
aspetta il Lazio, dove il destino prepara case tranquille, e un regno, e una
fertile pace!”
Ma mentre gli altri gioivano del cibo, Enea si addolorava nel segreto del
cuore per tutti i suoi compagni che credeva perduti. E ricordava Amico,
Lico,. Gia e Cloanto, e il valoroso Oronte.
Sopra l’Olimpo, intanto, Venere andò vicino al padre degli dei e gli disse
piangendo:
“Quale colpa ha commesso, padre potente, Enea, perché gli sia così
chiusa la strada verso l’Italia? Tu hai dunque mutato la tua decisione? Non
deve più nascere dalla stirpe di Teucro quella Roma che un giorno dominerà
la terra? Padre, io sopportavo le disgrazie di Troia pensando al nuovo destino
degli esuli troiani: ora li vedo schiacciati dalle sciagure e dall’odio di una sola
dea”.
Giove sorrise, e baciò sua figlia, dicendo:
“Venere, non temere: la sorte dei Troiani non è Con l ’arco li seguì e ne
uccise sette fra i più grossi: uno per ogni nave che si era salvata con lui dalla
tempesta… cambiata. Vedrai le città che faranno, vedrai Enea accolto nel
cielo degli dei: quello che io ho deciso, niente lo può mutare!”
Con l ’arco li seguì e ne uccise sette fra i
più grossi: uno per ogni nave che si era
salvata con lui dalla tempesta...
E per rassicurarla, Giove le disse quello che, arrivati in Italia, Enea e i suoi
compagni avrebbero compiuto; disse dei loro nemici, delle battaglie future,
delle vittorie di Roma, della sua gloria infinita e della pace che, infine,
avrebbe loro addolcito la vita faticosa.
A quel racconto, la dea si quietò. Intanto, dopo una notte di pena, Enea
decide di andare ad esplorare il terreno, per vedere chi siano i suoi abitanti, ed
informarne i compagni. Prima fa mascherare, sotto una grande roccia, le sette
navi troiane; poi, in compagnia di Acate, armato solo di lancia, s’incammina
nel bosco.
Subito, sotto l’aspetto di una cacciatrice dai capelli ventosi, gli viene
incontro Venere:
“Avete visto, stranieri”, chiede con voce gentile, “una delle mie amiche
che inseguiva un cinghiale?” “Noi non l’abbiamo vista”, le risponde Enea.
“Ma… come devo chiamarti? Il tuo volto, e la voce, sono di una dea: sei una
ninfa? O sei Diana? E, chiunque tu sia, dimmi che terra è questa, perché noi
siamo sperduti, spinti da una tempesta… E noi ti ringrazieremo con molti
sacrifici…”
“Io non merito onori”, risponde la cacciatrice. “Tu sei in terra africana:
ma punica è l’origine del regno in cui ti trovi. Vi è regina Didone, di cui ti
voglio narrare brevemente la storia. Laggiù a Tiro, in Fenicia, era sposa a
Sicheo, ricco di molte terre: accadde che Pigmalione, re di Tiro e fratello di
Didone, invidioso di quelle grandi ricchezze, fece ammazzare Sicheo a
tradimento, e poi fece, con un inganno, a Didone, credere che il marito fosse
scomparso. Ma il morto apparve in sogno alla sposa e le svelò l’accaduto, la
persuase a fuggire con i grandi tesori che lui aveva nascosto. Così Didone,
con quelli che odiavano il tiranno, sottrasse navi e tesori a Pigmalione e
sbarcò sulle coste di Libia, e ci fondò Cartagine”.
Così finisce il racconto. Con aria di mistero aggiunge la cacciatrice:
“Recati dalla regina: vedi quei dodici cigni che scendono felici verso la
terra? È il segno che le dodici navi che tu credevi perdute si sono invece
salvate, e stanno entrando nel porto della città, a Cartagine…” Scompare, e i
suoi capelli mandano luce e profumo, e la sua veste da dea si mostra per un
attimo. Soltanto allora Enea la riconosce:
“Oh, madre, perché mi hai ingannato con un’immagine vuota? Perché
non ti avvicini, così che ti possa parlare e, come figlio, abbracciare?”
Ma, muta, Venere avvolge i due dentro una nebbia, perché possano
andare, senza essere visti, fino dentro Cartagine. Sulla cima di un colle
davanti alla città che si sta costruendo, vedono i palazzi, le rocche che si
innalzano, muri, porte e strade, fondamenta di case, di porti e tribunali e di
grandi teatri.
“Beato chi può vedere nascere la sua città!” esclama Enea, e svelto
scende giù dall’altura seguito dal compagno. Protetti dalla nebbia entrano fra
le mura, giungono all’alto tempio dalle porte di bronzo che Didone ha
innalzato in onore a Giunone. Qui, tra altri ornamenti, Enea e Acate vedono
dipinte sulle pareti molte scene di guerra dell’assedio di Troia, e piangendo
guardano, fermandosi ad ammirare.
“Guarda, Acate! Priamo, il nostro grande e buon re!”
“E quelli, non sono i Greci in fuga sotto le mura?” “Ecco là Achille, che
incalza sopra il suo cocchio splendente!”
“E quello, Enea, non è Reso scannato da Diomede?”
“È lui, Acate… E quello è Troilo ucciso, lo vedi? Là, trascinato dal
cocchio!”
“Ecco le madri troiane, e le nostre sorelle: salgono tutte al tempio e si
battono il petto. Pallade non le ascolta, e fissa torva il terreno…”
“Guarda le Amazzoni, Acate!”
“Quello sei tu, che combatti come un leone contro il maledetto Ulisse!”
E mentre i due, invisibili, rapiti nella memoria, restano ancora a guardare,
in una schiera di giovani, bella come una dea, arriva al tempio Didone.
Percorre il colonnato, siede sul trono e intorno stanno gli armati: comanda,
assegna incarichi. Ed ecco arrivare una folla. Davanti a tutti stanno Anteo,
Sergesto e Cloanto, insieme ad altri Troiani che la tempesta ha disperso. Enea
e il suo compagno, che li credevano morti, si vogliono svelare: ma
preferiscono, poi, aspettare e vedere come li accoglie Didone.
Giunti davanti al trono, parla Ilioneo:
“Regina, che qui regni in giustizia, siamo Troiani sfuggiti alla furia del
mare. Non siamo qui per far guerra, o per rubare ricchezze: siamo dei vinti, in
viaggio verso l’Italia lontana, e dispersi nel mare da una tempesta furiosa.
Qui siamo giunti in pochi ed ecco, siamo assaliti, ci si vuole ammazzare…
Nel nome degli dei e della gloria di Enea, il nostro capo, che spero non sia
perito nel mare, accoglici, regina, concedi che riposiamo e ripariamo le navi
con legno di questa terra, per continuare nel viaggio!” Abbassando la testa,
gli risponde Didone.
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