Come in un labirinto di specchi – Silvana Mazzocchi

SINTESI DEL LIBRO:
GUIDO LENTAMENTE, ARRANCANDO sul sentiero sterrato che conduce in
collina; il fango fa affondare le ruote e la pioggia battente mi oscura la
vista.
L’ultima volta che sono andata a trovare mia madre la strada non
mi era sembrata così lunga. Era primavera inoltrata, quella del 1995.
C’era il sole e avevo scelto la bicicletta; all’epoca riuscivo ancora a
pedalare per qualche chilometro su qualunque percorso, perfino in
salita. Roberto mi aveva accompagnato in auto fino alla valle.
Eravamo d’accordo che avrei proseguito da sola; un po’ di fatica vera
e sarei riuscita a scaricare l’apprensione che covavo dentro ogni volta
che dovevo incontrare mia madre. Andare insieme sarebbe stato
inutile e dannoso. E prevedibile il copione. Caterina mi avrebbe
rimproverata per non essermi fatta viva tanto a lungo e per non
averle detto prima che avevo un compagno. Novità che senza alcun
dubbio avrebbe accolto malissimo, se non altro per sottolineare
quanto inattendibile io fossi in materia di affetti. Meglio allora evitare a
Roberto il suo cattivo carattere e affrontarla da sola direttamente,
come avevo sempre fatto. E pazienza per le conseguenze.
Recriminazioni, insulti, ricatti. Mi avrebbe certo aggredita, mi avrebbe
gridato in faccia di averla delusa per l’ennesima volta e lasciata sola,
lei così malata. Malata di che cosa poi, non è mai stato chiaro. Di lei
ricordo gli eterni lamenti, era sempre così debole, praticamente
sull’orlo della fossa, o almeno così diceva, con sul volto la solita
smorfia di sofferenza che ostentava quando le cose non andavano
come avrebbe voluto.
«È come una bambina», la giustificava mio padre. «Non te la
prendere e cerca di sopportarla, è tua madre», implorava a vantaggio
di quel quieto vivere che per lui era il bene supremo. Finge di essere
debole, infantile, indifesa, pensavo invece io con fastidio, lo fa per
tenerci tutti in pugno con i suoi capricci. Avevo sempre detestato quel
suo modo di attirare l’attenzione atteggiandosi a vittima senza
esserlo, quel mettere in campo ogni tipo di furbizia “femminile”
secondo uno schema che, già allora, mi aveva portato a promettere a
me stessa che mai sarei diventata come lei.
Dopo la morte di papà, Caterina si era intestardita, sarebbe andata
ad abitare nella casa in collina, non sarebbe rimasta in città senza il
suo adorato Ignazio, suo marito da una vita. Lo aveva deciso da sola,
ai suoi figli non spettava dirle cosa dovesse o non dovesse fare. Il
loro dovere era assecondarla e occuparsi di lei «che tanto si era
sacrificata per la famiglia». In caso contrario, ce l’avrebbe fatta da
sola, ma non sarebbe tornata indietro sulla sua decisione. A noi la
responsabilità di averla trascurata, abbandonata, ferita.
La campagna intorno è quella di sempre, né bella né brutta com’è
quella della Ciociaria, colline, rare montagne, macchie di campi
coltivati e, ai lati della strada, qualche vecchio castagno ben radicato
nella terra rossiccia. Anche la casa non sembra cambiata. Sì, forse la
facciata non è più di quel bel colore ocra che all’ora del tramonto
sembrava fondersi con il paesaggio; i fiori sui balconi non nascono
nella terra rinsecchita e sul prato, oltre il cancello, l’erba è cresciuta
nell’incuria. Per il resto è come la ricordavo, solo che ormai è in
versione abbandonata, anonima quanto basta per non suscitare in
me alcun rimpianto. Intorno i soliti casolari. Pochi e radi, non è stato
necessario costruire qualcos’altro. Da qui si parte soltanto.
Piove forte e le raffiche di vento capovolgono il piccolo ombrello
che ho scovato nel portabagagli dell’auto a noleggio. Entro in fretta
per non bagnarmi, ho i brividi. Peccato, avrei preferito potermi prima
guardare intorno, esitare qualche istante, se non altro per
metabolizzare l’impatto. In questa casa ho passato gran parte della
mia infanzia, e della mia adolescenza non certo felice.
All’interno fa freddo. È solo autunno, ma il clima è già rigido,
almeno di sera e le stanze disabitate lo raddoppiano.
Sono quasi le sette ed è buio. Non ho voglia di mangiare, ho
portato con me un pacco di biscotti, uno di grissini, il tè e il caffè.
Forse più tardi. Automaticamente, apro il pensile bianco a sinistra; la
moka è sempre lì, al solito posto. Ho tenuto il giaccone sulle spalle,
esco sul terrazzino, non piove più e il vento sta spazzando via le
nubi. Ho bisogno di una pausa, e di tempo. Il tempo che non ho. I
patti con mio fratello sono stati chiari: dopo più di due anni dalla
morte di nostra madre, vuole vendere la casa al più presto e ha
bisogno della mia delega. Ci siamo messi d’accordo, se si può
parlare di una qualche convergenza di intenti o di interessi quando si
tratta di Luca. A me il compito di svuotare armadi e cassetti, a lui
quello di occuparsi della vendita dell’immobile. Ho accettato senza
discutere, non so neanche io perché, forse più per pigrizia che per
convinzione. Fra qualche giorno devo essere di nuovo a Berlino,
dove mi aspetta Roberto e dove ho impegni improrogabili. Da quando
sono la proprietaria di maggioranza dell’azienda editoriale che dirigo,
ho purtroppo perso ogni libertà. Ne sono consapevole e ho già
comprato il biglietto di ritorno, a tariffa non flessibile. Per
scaramanzia.
Di rimanere tra queste mura più del necessario non ho alcuna
voglia. Il mio non sarà un lavoro lungo; devo esaminare gli abiti e gli
oggetti di mamma, Luca ha già detto che sceglierà qualche ricordo e
anch’io potrò tenerne qualcuno per me poi dovrò separare tutto
quello che certamente non serve più o che sarà dato in beneficienza.
I
sacchi da eliminare verranno a prenderli i vicini. Si sono offerti di
collaborare, erano tanto amici della “povera Caterina”, da quando si
era definitivamente stabilita su questa collina, con accanto solo
qualche casa e una frazione semideserta a poche centinaia di metri.
Quelle persone erano state a lungo la sua sola compagnia. Un modo
per mandarmi a dire che, su di me, nessuno aveva contato mai.
Quanto ai mobili, decida mio fratello che uso farne; è sempre stato
così. In tanti anni, per me questa è la prima volta che ho il piacere, o
l’onere, di condividere qualcosa che abbia a che fare con la mia
famiglia. L’appartamento in città e i pochi terreni qui intorno, un tempo
coltivati, sono diventati da tempo proprietà esclusiva di Luca. È
avvenuto gradualmente, per donazione e con naturalezza, come se
io non esistessi. Non ho mai protestato; non è stato da sempre lui e
solo lui, il figlio-figlio dei nostri genitori?
Gli armadi sono di legno e vecchio stile. Uno ha uno specchio
esterno incorniciato che rimanda la mia immagine inaspettatamente
triste. Eppure non rimpiango nulla in particolare del tempo vissuto in
queste stanze; sposto gli occhi altrove, con impazienza. Per
rilassarmi mi metto comoda, per fortuna non mi separo mai dalla mia
tuta di pile. Bevo un tè, sgranocchio qualche biscotto. Sarà meglio
cominciare a darsi da fare.
Dispongo sul letto vestiti, gonne, pantaloni, golf, camicette. Una
gran quantità, ricordo bene quanto mamma tenesse al suo aspetto.
Di papà non trovo niente. «Probabilmente le sue cose erano già tutte
nell’appartamento romano prima che morisse», rimugino tra me. «E,
negli ultimi tempi, sarà venuto qui così raramente da non lasciare
nulla di personale, neanche una camicia, un oggetto». Oppure, forse,
è stata Caterina a intervenire a tempo debito. Donna puntigliosa,
estremamente attenta all’ordine e alle apparenze, con in testa se
stessa, s’intende.
Tolgo gli abiti dalle stampelle e metto tutto via, senza scegliere. Di
sacchi ce ne sono a sufficienza e certo non mi metterò ad alimentare
il mercato del vintage. Ho fretta e per me non voglio nulla. O forse...
ecco, quella che spunta dal fondo della cassapanca, quella sì. È una
borsa di mamma che mi è sempre piaciuta, una cartella di pelle
bordeaux a busta, senza manici, morbida e a più scompartimenti. La
ricordo bene. Mamma la teneva nel primo cassetto del mobile
grande, di fronte al letto matrimoniale, con sul ripiano la foto del
matrimonio sistemata in una cornice d’argento che lustrava con cura
maniacale. Lei in abito bianco, di una semplicità necessaria, da
dopoguerra, ma con un velo ricamato di tutto rispetto che regalava
quel tocco “di classe” a cui ha sempre tenuto tanto. Papà in abito
grigio, camicia bianca e scarpe nere tirate a lucido. Un bell’uomo
dall’aria serena. Si sorridono, ma con misura. Accanto a quella foto,
c’era sempre stata una scatola di legno intarsiato con dentro i gioielli
di mamma: gli anelli, i coralli, le perle e qualche spilla, compresa
quella con “il diamante”, dono del marito per la nascita di Luca. A
proposito, non rammento o forse non l’ho mai saputo, che cosa le ha
regalato papà quando sono nata io?
Quella borsa bordeaux non gliel’ho mai vista usare; lei diceva che
era stata la sua preferita da giovane, quando lavorava, quando era
bella, elegante. E il suo tono era sempre ostentatamente quello del
rimpianto. Proprio lei che non lesinava certo in abiti, ciprie e rossetti e
che, almeno nei miei ricordi, non aveva mai alzato neanche una
piuma se non per svolgere quelli che riteneva essere i suoi doveri di
moglie e di madre. Ovvero pochi fatti e molti lamenti. E ogni volta
insisteva nel sottolineare quello che considerava uno spartiacque: la
vita della ragazza spensierata di prima, resa cangiante dal ricordo
della giovinezza perduta e quella del dopo, trasformata e immiserita
dalle responsabilità e dai figli.
Da bambina quella busta di pelle del colore del vino invecchiato era
stata per me come uno scrigno inaccessibile. A volte, senza
azzardarmi ad aprirla, mi era capitato di accarezzarla. Sembrava
velluto.
Adesso sento, forte, la stessa sensazione tattile, ma è questione di
un attimo, quando l’afferro le mie dita la scoprono dura, come un
vecchio cartone dipinto.
Dentro ci sono poche fotografie, di noi quattro a una prima
comunione, gli invitati tutti schierati fuori dalla chiesa con l’aria
compunta, i ragazzini vestiti per la cerimonia: cerchietto tra i capelli e
calzettoni candidi le femmine e pantaloni alla zuava grigi i maschietti.
I festeggiati stanno accanto a una fontana, sono due, una bambina
alta e triste con un caschetto di capelli neri fermato da una molletta e
con l’abito bianco a balze fino alle caviglie e un bambino un po’
obeso strizzato in un vestito blu troppo stretto in camicia bianca, al
collo un papillon color argento che pende a destra. Non li riconosco.
Un’altra immagine, ancora i miei genitori a Montecatini, dove
andavano in settembre a passare le acque. Quanto ho detestato quel
posto; io e Luca li abbiamo accompagnati per anni, costretti e
annoiati. Eccone un’altra scattata durante una gita. Questa volta
siamo tutti insieme. Dove, a Pistoia? No, è Collodi, al parco dedicato
a
Pinocchio, ingenuo business d’epoca. Non so decifrare
l’espressione seria che ostento, mentre mio fratello, invece, sorride.
In un’altra foto ci siamo io e Luca ad Anzio, dove ogni estate
trascorrevamo il mese di luglio, prima di spostarci qui nella casa in
collina, accanto ai parenti che abitavano poco più in là e dove
rimanevamo per l’intero mese di agosto. Io sto seduta sulla sabbia,
accanto a uno scoglio. Sono magrissima e sembro imbronciata. Ho
un costume intero. La foto è in bianco e nero e quell’indumento, forse
color carne, mi va largo. Mia madre sta sotto l’ombrellone; indossa
occhiali e cappello di paglia a falde larghe. Ha un prendisole chiaro
che le copre perfino le braccia. «Il sole rovina la pelle», ripeteva
continuamente, «noi donne dobbiamo proteggerci, altrimenti
invecchiamo prima del tempo e, una volta sparita la giovinezza, che
cosa ci resta?».
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