Combattere la postdemocrazia – Colin Crouch

SINTESI DEL LIBRO:
Le ultime campagne elettorali in Gran Bretagna ci hanno offerto una
immagine molto più eloquente di tante parole di ciò che intendo quando
parlo di “postdemocrazia”, e sono certo che lo stesso accada anche in altre
democrazie mature. Un telegiornale mostra un politico che tiene un
discorso, attorniato da sostenitori entusiasti, accuratamente bilanciati per
età, etnia e genere, che agitano cartelli e striscioni con slogan di partito.
Tutto lascia credere che il politico che parla sia molto vicino alla gente,
che a sua volta gli esprime un consenso spontaneo. In realtà, quei cartelli
non sono stati fatti da chi li sventola, ma provengono tutti da un’unica
fonte. Qualche volta la telecamera, dispettosa, torna indietro e inquadra il
politico e il suo gruppetto di sostenitori, che in realtà sono relegati in un
minuscolo angolo di un capannone vuoto, alla sola presenza della stampa.
Non c’è alcuna sterminata platea; anzi non è neanche un evento pubblico.
Questi raduni si tengono in varie città, e i politici percorrono grandi
distanze per apparire vicini alla gente. Ma i capannoni si trovano quasi
sempre in periferia, vicino a una tangenziale o a un’autostrada, in luoghi
dove non passa nessuno o quasi. I raduni elettorali non vengono
organizzati quasi mai dove sta la gente, sia per motivi di sicurezza, sia per
evitare il traffico, sia per timore di manifestazioni ostili. Quei raduni
hanno tutte le caratteristiche apparenti degli eventi democratici: politici
che viaggiano per tutto il paese, non si isolano sul palco, sono attorniati da
gruppi compositi di persone e lanciano slogan emotivi di grande effetto.
Eppure, questi eventi sono vuoti come i luoghi in cui vengono inscenati;
in essi non avviene alcun incontro reale.
Figura 1.1. L’andamento a parabola, dal “pre” al “post”, nel ciclo di vita dei fenomeni sociali
Oggi si parla spesso di “post”: postindustriale, postmoderno,
postliberale, postironico. Il “post” evoca l’idea di una società che sa che
cos’era e che cosa non sarà più, ma non sa dove sta andando. Ma può
anche avere un significato molto preciso. Nel “post” è insita l’idea di
fondo che il fenomeno in questione percorra una traiettoria a parabola.
Questo concetto è rappresentato nella figura 1.1. Il fenomeno sociale
nasce, diventa sempre più importante, raggiunge un punto culminante e
di lì inizia a declinare. Alla fine, il suo “indice” d’importanza torna ai
livelli iniziali; ma ciò che si è accumulato nel tempo non scompare come
se niente fosse: lascia un segno nei ricordi e, cosa più importante, nelle
istituzioni create da quel fenomeno quando era all’apice della sua
importanza, che almeno per un po’ sopravvivono. Insomma, dopo un
certo periodo – diciamo settant’anni – la situazione non è più la stessa
dell’anno zero. Prendiamo il caso della “società postindustriale”: un
fenomeno misurabile piuttosto chiaramente in termini di percentuale del
prodotto interno lordo (Pil) o dell’occupazione riconducibile all’industria
manifatturiera. Partita dai bassi livelli tipici della fase iniziale,
l’industrializzazione raggiunse un picco (che per la maggior parte delle
economie occidentali si colloca negli anni settanta), e iniziò poi a
diminuire. Oggi l’industria è tornata ai livelli della prima
industrializzazione. Ma ciò non significa che stiamo tornando
“preindustriali” o “non industriali”: tutto ciò che si è accumulato nel
corso dell’industrializzazione, l’impatto di quest’ultima sulla nostra vita,
non è scomparso, e oggi siamo “postindustriali”.
Qualcosa di simile vale anche per la democrazia. Se negli ultimi decenni
la democrazia – come illustro sotto – si è indebolita, ciò non significa che
viviamo in società predemocratiche o non democratiche. Le conquiste
della democrazia hanno lasciato una importantissima eredità di pratiche,
atteggiamenti, valori e istituzioni, che è tuttora attiva. Ciò ci dà motivo di
ottimismo, ma ci dice anche qualcosa d’importante sulla postdemocrazia:
e cioè che è proprio la sopravvivenza delle istituzioni e delle consuetudini
democratiche a impedirci di vedere quanto si sia indebolita la democrazia:
perché le sue istituzioni e consuetudini sopravvivono, è vero, ma l’energia
reale del sistema politico è ormai nelle mani di una ristretta élite di
politici e ricchi capitani d’industria, ed è sui desideri di questi ultimi che
la politica tende a orientarsi sempre più.
Stephen Welch (2013) ha replicato a questa mia tesi affermando che oggi
ci troviamo di fronte non a un declino della democrazia, bensì a una
“iperdemocrazia”: vogliamo troppa democrazia, politicizzando anche
questioni che non si prestano a esserlo. In realtà, Welch e io parliamo di
due facce della stessa medaglia. Penso che le nostre posizioni si possano
riconciliare osservando che, se il dibattito politico cerca di parlare di
tutto, è proprio perché in realtà non parla di nulla. Quando il dibattito sui
grandi indirizzi politici è quasi totalmente assente (e questa è una delle
principali caratteristiche della postdemocrazia), i politici, per differenziarsi
dai rivali, si soffermano su qualsiasi tema: dalla moralità personale alle
cure mediche più opportune fino ai modi per insegnare ai bambini a
leggere. Il risultato è che la politica – democratica o meno – invade anche
aree di cui non è assolutamente in grado di occuparsi.
Affinché regga la mia tesi secondo la quale i cambiamenti della vita
politica attuale possono essere descritti come passi lungo la strada che
conduce alla postdemocrazia, devo riuscire a dimostrare due cose: che nel
nostro passato recente c’è stato un periodo in cui la democrazia si poteva
considerare salda, e che da allora essa si è andata indebolendo. Per
dimostrare la prima di queste due cose, occorre chiarire il significato
dell’espressione “momenti democratici”.
Momenti democratici
La democrazia prospera quando le masse, la gente comune, hanno
possibilità significative di partecipare – con la discussione e attraverso
organizzazioni indipendenti – alla definizione delle priorità pubbliche e
usufruiscono attivamente di tali possibilità. È un modello ideale,
ambizioso, quasi mai realizzabile totalmente, ma che – come qualsiasi
ideale impossibile – fa da punto di riferimento. Considerare la nostra
posizione rispetto a un determinato ideale ha un grande valore pratico,
perché ci aiuta a migliorare. Nel caso della democrazia, è essenziale
adottare questo approccio, al posto di quello, più comune, in cui l’ideale
viene ridimensionato per uniformarlo alle realizzazioni concrete – che è la
strada dell’acquiescenza, dell’autocompiacimento e dell’indifferenza per
tutto ciò che indebolisce la democrazia.
Generalmente le società si trovano particolarmente vicine alla
democrazia, intesa nella mia accezione massima, in alcune situazioni:
subito dopo averla conquistata, oppure dopo una grande crisi di regime;
quando l’entusiasmo democratico è diffuso e l’interesse per le vicende
politiche particolarmente forte, poiché la gente si rende conto che esse
influiscono sulla sua vita; quando molti e diversi gruppi e organizzazioni
di gente comune partecipano allo sforzo per avviare un progetto politico
che risponda finalmente alle loro necessità; quando i poteri forti che
comandano nelle società non democratiche si trovano spiazzati e sono
costretti sulla difensiva; quando il sistema politico non ha ancora imparato
a gestire e manipolare le domande nuove che emergono. È questo che
intendo quando parlo di “momenti democratici”.
Nella maggior parte dell’Europa occidentale e del Nord America ci sono
stati alcuni importanti momenti democratici: negli Stati Uniti e in
Scandinavia negli anni trenta, e negli altri paesi subito dopo la Seconda
guerra mondiale. Fino allora, solo pochi paesi avevano conosciuto lunghi
periodi di suffragio universale, limitato agli uomini adulti, e ancora più
rari erano i casi in cui anche le donne avevano ottenuto i diritti di
cittadinanza politica. Fu in quei momenti che le masse compresero di
poter avere voce politica e diedero vita a partiti e altre organizzazioni,
attraverso cui esprimere i propri interessi. I primi segnali di questi
cambiamenti risalivano all’inizio del secolo e alla Prima guerra mondiale;
ma nella maggior parte delle società europee le élites, abituate a una
politica totalmente asservita ai propri interessi, erano assolutamente
impreparate all’invasione di uno spazio che fino allora consideravano un
privilegio riservato esclusivamente a loro. Molte di quelle élites gettarono
il proprio peso sulla bilancia per sostenere partiti fascisti e nazisti che
nonostante la retorica populista e le mobilitazioni di massa – erano
profondamente ostili alla democrazia e che, appena giunti al potere, non
ebbero scrupoli a soffocarla con la violenza. La sconfitta di Adolf Hitler,
Benito Mussolini e altri leader fascisti durante la Seconda guerra
mondiale e le devastazioni subìte dai loro paesi spinsero quelle élites ad
accettare non soltanto governi elettivi, ma anche priorità politiche
sostenute da gruppi esterni alle loro file.
Tutto ciò si coglie molto chiaramente nei temi programmatici che la
sinistra socialdemocratica e socialista aveva cercato d’imporre dalla fine
dell’Ottocento in poi: diritti dei lavoratori, stato sociale, istruzione e
sanità gratuite o fortemente sussidiate, tassazione redistributiva. Ma ormai
la sinistra non era più l’unica a sostenere queste politiche. La democrazia
ebbe un impatto politico, tra gli altri, anche sui cattolici. Dalla
Rivoluzione francese in poi, la Chiesa cattolica si era opposta a qualsiasi
tentativo di annacquare il predominio aristocratico e altre forme di
governo elitario, e nel ventesimo secolo aveva appoggiato, in Italia,
Portogallo e Spagna, la repressione fascista delle neonate democrazie. Ma
tra le forze politiche cattoliche esisteva anche un’ala cristiano
democratica, contraria all’autoritarismo dominante, che fino alla Seconda
guerra mondiale era rimasta ai margini delle élites cattoliche, ma che dopo
la fine del conflitto divenne la principale forma di politica di matrice
cristiana e diede vita a quella che, per diversi decenni, è stata la famiglia
partitica di maggior successo nell’Europa occidentale. Tutto ciò era parte
di quel momento democratico.
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