Cena con poeti morti – Luis Sepúlveda

SINTESI DEL LIBRO:
Stavamo cenando da Off Record, l’ultimo ristorante bohémien di
Santiago. Si mangia bene lì, i vini sono fantastici, la cortesia
insuperabile e i prezzi onesti. Come sempre, rifiutammo il dolce e
ordinammo invece un’altra bottiglia di vino. In fin dei conti si fa con la
frutta, mormorò qualcuno, e fummo tutti d’accordo. Allora, come ogni
volta che ci ritroviamo – siamo un gruppetto di amici che vivono in
Cile o sparsi per il mondo –, un altro chiese se era morto nessuno
nel periodo in cui non ci eravamo visti.
Tutti cominciammo a guardare in fondo al bicchiere, cercandovi le
parole per riconoscere una delle verità più tristi, quella che ci
insegna la cosa peggiore dei cinquant’anni, e cioè che a quell’età
cominciano a morirci gli amici.
Gli amici non muoiono e basta: «ci» muoiono, una forza atroce ci
mutila della loro compagnia e poi dobbiamo continuare a vivere con
quei vuoti nelle ossa.
Ciascuno di noi controllò la sua lista di amicizie e vedendo che
tutti erano ancora in piedi sulla vita, alzò gli occhi dal bicchiere e si
mise a osservare la serie di fotografie che decorano i muri di Off
Record. Scrittori, molti poeti, attrici, attori, altre poetesse e
cantautori.
«Io non lo so se ci sono tutti e nemmeno se tutti quelli che ci sono
meritano di starci, ma ne mancano tanti» intervenne qualcuno
indicando le foto.
«Per esempio?» chiese un altro.
«Che ne so. Per esempio, il Selvaggio.»
Allora, come sempre, riempimmo il bicchiere e cominciammo a
parlare del Selvaggio.
Hugo Araya era un tipo altissimo, più di un metro e novanta,
sembrava un piedrolari basco, coi capelli neri prematuramente
brizzolati che gli arrivavano alle spalle e una barba altrettanto grigia
che gli copriva metà petto. Era così il Selvaggio.
Oltre a poeta romantico, attore di commedie e pittore di miniature,
quel gigante peloso era un appassionato di arti visive e arrivò a
essere il miglior cameraman del canale 9, l’emittente televisiva
ribelle dell’Universidad de Chile.
Viveva e dormiva attaccato alla cinepresa, che fu sempre il suo
modo migliore di guardare: rivoluzionò addirittura la tecnica per
portare i pesanti modelli degli anni Settanta, perché con una serie di
sbarrette da meccano creò un attrezzo che gli permetteva di
muoversi con assoluta libertà nelle manifestazioni, senza che la
cinepresa lo intralciasse. Così, involontariamente, fu il primo
operatore di steadycam della storia.
«Vi va di sentire una storia sul Selvaggio?» domandò un
commensale e, come sempre, non aspettò risposta prima di
cominciare a raccontare.
Una sera del 1969, dopo esserci rimpinzati di empanadas al circolo
Chile ríe y canta, il Selvaggio, Roberto Contreras, Pancho Melo e il
sottoscritto decidemmo di andare a bere qualcosa in Plaza de
Armas, anche se quella del bere era solo una scusa per
accompagnare il poeta Contreras, perché ci aveva descritto mille
volte le meravigliose doti fisiche della sua ultima conquista, una
ragazza che serviva al bancone del Caffè Marco Polo.
«E il culetto com’è?» gli domandavamo.
«Non siate banali, ma insomma, fratelli, ha uno di quei culetti che
se gli danno un microfono, canta» diceva il poeta e gonfiava il petto.
Uscimmo sull’Alameda, arrivammo sul paseo Ahumada e
scendemmo verso la piazza spaventando la gente con Hugo Araya.
«Attenti, non vi avvicinate, morde!» gridavamo, e più di uno si fece
da parte prendendo sul serio l’avvertimento. Il Selvaggio ci metteva
del suo lanciando ruggiti da leone asmatico e quando fingeva di
attaccare lo trattenevamo strepitando.
«Pancho, svelto, dagli il calmante!» strillavamo io e Contreras.
Il poeta Pancho Melo gli saltava addosso, gli apriva la bocca e ci
infilava dentro una delle sue immancabili pasticche di vitamina C,
sostanza secondo lui fondamentale per la salute dei bardi.
Poco prima di entrare al Marco Polo, il Selvaggio convocò un
consiglio di guerra per strappare al poeta Melo il giuramento, pena
un calcio nel culo con i suoi stivali numero quarantotto, di non far
nulla, ma proprio nulla, per soffiare la conquista a Roberto.
«Tranquilli. Il cuore è un cacciatore solitario» assicurava
conciliante Contreras.
«Lasciate per lo meno che le scriva un sonetto» ribatteva Melo.
Al Marco Polo ci avvicinammo al bancone, chiedemmo delle birre
che bevemmo in fretta, perché le meravigliose doti fisiche della
ragazza non si vedevano da nessuna parte, e ce la svignammo
commentando che forse il lungo grembiule bianco che portava era
troppo largo.
Lasciammo Roberto lì da solo, stretto alla sua bottiglia di Fanta
(l’unica cosa che beveva per non perdere mai la compostezza da
massone), tutto intento a contemplare la sua conquista e a
provocarsi starnuti sibaritici con la punta di uno spillone d’argento
che portava sempre appuntato sul risvolto della giacca.
«Avete sentito come l’ha salutato? ’Buonasera, signor Roberto.’
Ma che schifo» disse il Selvaggio.
«Quella femmina è tutta un fuoco, sa maneggiare i codici della
seduzione. Quel ’buonasera’ era una bella promessa di piaceri
notturni» spiegò Pancho Melo.
«’Signor Roberto.’ Se una donna mi chiama signor Hugo vado di
corsa all’ospedale geriatrico» meditò il Selvaggio.
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