Anime senza nome – Hans Rosenfeldt

SINTESI DEL LIBRO:
Questa volta si chiamava Patricia.
Patricia Wellton.
Città nuove. Nome nuovo.
All’inizio, molto tempo prima, la cosa piú difficile era proprio
rispondere quando i portieri d’albergo o i tassisti la chiamavano, ma
ormai non era piú cosÃ: si calava nella nuova identità non appena si
ritrovava in mano i documenti. Fino a quel momento solo una
persona si era rivolta a lei con quel nome, durante il viaggio. Era
stato a Östersund, quando l’impiegato dell’autonoleggio era uscito a
dirle che l’auto che aveva prenotato era pulita e pronta per partire.
Era atterrata in orario, alle cinque e qualcosa del mercoledÃ
pomeriggio, e aveva preso il treno diretto da Arlanda al centro di
Stoccolma. Nonostante fosse la sua prima visita nella capitale
svedese, si era limitata a una poco esaltante cena di buon’ora in un
ristorante nei pressi della stazione.
Alle ventuno meno qualche minuto era salita sul treno notturno
che l’avrebbe portata a Östersund. Aveva prenotato una cabina letto
singola, ma non perché pensasse che qualcuno sarebbe mai riuscito
a rintracciarla, a prescindere dal numero di persone che avessero
eventualmente fornito a polizia e autorità la sua scheda segnaletica:
semplicemente, non le piaceva dormire con altri. Non le era mai
piaciuto.
Non con le compagne di pallavolo quando da ragazza partecipava
ai tornei.
Non durante la formazione, né alla base né sul campo.
Tanto meno nello svolgimento di un incarico.
Dopo che il treno era partito dalla stazione era andata al vagone
ristorante, aveva comprato una bottiglietta di vino bianco e un
sacchettino di arachidi ed era tornata nel suo scompartimento a
leggere I Know What You’re Really Thinking, un libro uscito da poco
con un sottotitolo vagamente fuori dagli schemi: Reading Body
Language Like a Trial Lawyer. La donna che per l’occasione si
chiamava Patricia Wellton non sapeva se gli avvocati penalisti
fossero particolarmente abili nell’interpretare il linguaggio non
verbale, o almeno non si era mai imbattuta in qualcuno che si fosse
distinto in quell’ambito ma, se non istruttivo, il libro era comunque
breve e godibile. Poco dopo l’una si era infilata tra le lenzuola
bianche e aveva spento la luce.
Cinque ore piú tardi era scesa a Östersund, aveva chiesto la
strada per un albergo dove aveva consumato una lunga colazione e
poi era andata all’ufficio dell’Avis, in cui aveva prenotato l’auto.
Aveva dovuto aspettare che la macchina venisse pulita e controllata,
e nell’attesa le era stato offerto un caffè del distributore automatico.
Una Toyota Avensis nuova, grigia.
Dopo poco piú di cento chilometri arrivò a Åre. Aveva rispettato i
limiti di velocità per tutto il tragitto. Era inutile prendersi una multa,
anche se nella pratica non avrebbe cambiato niente. A quanto aveva
capito, i poliziotti svedesi non avevano l’abitudine, e forse neanche
la prerogativa, di perquisire auto e bagaglio in caso di infrazioni lievi,
ma l’eventuale scoperta che era armata avrebbe potuto mettere a
repentaglio la missione. Non aveva documenti che l’autorizzassero a
portare armi in Svezia. Se avessero trovato la sua Beretta M9
avrebbero fatto delle ricerche e sarebbe saltato fuori che Patricia
Wellton non esisteva, se non là e in quel momento. Per questo tenne
il piede leggero sull’acceleratore anche oltrepassando le piste da sci,
ora coperte d’erba verde, ed entrando nel piccolo centro abitato sul
pendio che scendeva verso il lago.
Fece una breve passeggiata, scelse a caso una tavola calda e
ordinò un panino e una Coca light. Mentre mangiava controllò la
cartina. Ancora poco piú di cinquanta chilometri sulla E14 prima di
uscirne e lasciare l’auto, poi meno di venti da coprire di corsa.
Guardò l’orologio. Calcolando tre ore per raggiungere la sua
destinazione e un’altra per cancellare le tracce, due per tornare
all’auto e fare rapporto… Sarebbe arrivata a Trondheim in tempo per
prendere il suo aereo per Oslo ed essere a casa il venerdÃ.
Dopo una seconda passeggiata a Åre risalà in macchina e
proseguà verso ovest. Nonostante il suo lavoro l’avesse portata in
molti posti diversi non aveva mai attraversato un paesaggio del
genere. Le montagne ondulate, la marcata linea degli alberi, lo
scintillio del sole sull’acqua nella valle piú sotto… Sentiva che
avrebbe potuto trovarcisi bene. Desolazione. Silenzio. Aria tersa. LÃ
avrebbe voluto affittare una casetta isolata e fare lunghe camminate.
Pescare. Vivere immersa nella luce d’estate e leggere davanti al
camino nelle sere autunnali.
Un’altra volta, magari.
Probabilmente mai.
Quando vide un cartello che indicava a sinistra per Rundhögen
uscà dalla E14. Poco dopo scese dall’auto a noleggio, prese lo zaino,
tirò fuori la mappa dei sentieri e cominciò a correre.
Centoventidue minuti piú tardi si fermò. Aveva un po’ di fiatone
ma non era stanca. Non aveva corso al massimo delle sue
possibilità , neanche lontanamente. Si sedette sul pendio e bevve
dell’acqua mentre la respirazione tornava in poco tempo alla
normalità . Poi prese il binocolo e guardò verso la casetta di legno a
circa trecento metri di distanza, identica a quella nella foto che le era
stata fornita dal suo informatore. Si trovava nel posto giusto.
Se aveva capito bene, ormai era impensabile ottenere una licenza
edilizia per costruire là alle falde della montagna, ma aveva saputo
che la casetta risaliva agli anni Trenta. A quanto pareva, un qualche
alto funzionario in buoni rapporti con gli ambienti di corte aveva
bisogno di un posto dove riscaldarsi durante le sue battute di caccia
lassú, e a dirla tutta non la si poteva neanche definire una casa, sà e
no una baita. Quanto poteva essere grande? Diciotto metri quadrati?
Venti? Pareti di tronchi, finestre piccole e un comignolo che spuntava
dal tetto in cartone catramato. Due gradini che salivano a una porta
sul lato corto e, a una decina di metri, un rustico piú piccolo, di cui
metà con una porta – il gabinetto esterno, immaginò – e l’altra
senza: probabilmente una legnaia, considerato che davanti c’era un
ceppo.
Intravide qualcosa muoversi oltre la zanzariera verde. Lui era in
casa.
Mise giú il binocolo, infilò di nuovo la mano nello zaino, tirò fuori la
Beretta e avvitò il silenziatore con gesti veloci ed esperti. Poi si alzò,
infilò l’arma nella tasca appositamente confezionata della giacca, si
rimise lo zaino in spalla e cominciò a camminare. Ogni tanto gettava
un’occhiata indietro, ma non c’era in giro nessuno. La baita si
trovava a una certa distanza dal sentiero marcato, e alla fine di
ottobre gli escursionisti non erano molti, in zona. Dal momento in cui
aveva lasciato la macchina ne aveva incrociati solo due.
Quando le mancavano poco meno di cinquanta metri estrasse la
pistola dalla tasca e la tenne lungo la gamba. Valutò le diverse
possibilità : bussare e sparare quando lui avesse aperto o dare per
scontato che non avesse chiuso a chiave, entrare e coglierlo di
sorpresa. Aveva appena optato per la prima alternativa quando la
porta si aprÃ. La donna s’irrigidà per un attimo ma subito dopo si
acquattò fulminea. Un uomo sulla quarantina uscà sui gradini. Il
terreno tutt’intorno era uno spazio sgombro, senza niente dietro cui
nascondersi. Non le restava che starsene immobile. Un movimento
avrebbe potuto attirare l’attenzione dell’uomo. La presa sulla pistola
si strinse. Se lui l’avesse vista, lei avrebbe avuto il tempo di alzarsi e
sparargli prima che scappasse. Quaranta metri e qualcosa: l’avrebbe
sicuramente colpito e con ogni probabilità anche ucciso, ma non era
cosà che voleva andassero le cose. Da ferito sarebbe potuto
rientrare al coperto, e non era detto che dentro non avesse un’arma.
Se si fosse accorto di lei, sarebbe stato tutto molto piú difficile.
Invece non la notò. Chiuse la porta, scese i due gradini, piegò a
destra e si diresse verso il capanno. Lei lo vide afferrare l’accetta
conficcata nel ceppo e cominciare a spaccare legna.
Si alzò cauta e si spostò leggermente a destra in modo da essere
coperta dalla casa se l’uomo si fosse concesso una pausa, avesse
raddrizzato le spalle e si fosse messo ad ammirare il paesaggio.
L’accetta. Poteva rappresentare un problema? Quasi di certo no.
Se fosse andato tutto secondo i piani, l’uomo non avrebbe avuto il
tempo di vedere in lei una minaccia, e ancora meno di attaccarla con
un’arma da corpo a corpo come un’accetta.
Una volta arrivata alla casa si fermò, espirò, si prese alcuni
secondi per concentrarsi e poi girò l’angolo.
L’uomo sembrò a dir poco sorpreso di vederla. Fece per rivolgerle
una domanda, probabilmente per chiederle chi era, o forse cosa ci
faceva lÃ, in mezzo alle montagne dello Jämtland, e se poteva
esserle utile in qualche modo.
Non aveva importanza.
Lei non capiva lo svedese e in ogni caso non gli avrebbe dato una
risposta.
La pistola silenziata tossà una sola volta.
I
gesti dell’uomo si bloccarono all’istante, come se qualcuno
avesse premuto il pulsante Pausa in un film. Poi l’accetta gli scivolò
di mano, le ginocchia si piegarono a sinistra e il corpo cadde a
destra. Un tonfo sordo quando i suoi ottanta chili toccarono terra.
Era già morto, il cuore perforato dalla pallottola, nel momento in cui
si accasciò in una posizione simile a quella laterale di sicurezza dei
manuali di primo soccorso.
La donna raggiunse il corpo in tre passi, ci si piazzò sopra con le
gambe divaricate e puntò calma alla testa dell’uomo. Un colpo alla
tempia a tre centimetri dall’occhio sinistro. Sapeva che era morto,
ma sparò lo stesso un’altra pallottola, sempre alla testa, a un
centimetro circa dalla precedente.
Si mise in tasca la Beretta e si chiese se occuparsi in qualche
modo del sangue a terra o lasciar fare alla natura. Anche se
qualcuno si fosse insospettito non vedendo tornare il morto – e
qualcuno l’avrebbe fatto, lo sapeva – e fosse venuto a cercarlo lÃ
nella piccola baita, non avrebbe mai trovato il corpo. Il sangue
avrebbe indicato che gli era capitato qualcosa, nient’altro. Forse
avrebbe pensato al peggio, senza però poter avere conferma dei
propri sospetti. L’uomo sarebbe sparito per sempre.
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