Amok – Le stragi dell’odio – Carlo Lucarelli

SINTESI DEL LIBRO:
La storia di Claudio Giardiello
C’è un uomo seduto su una delle ultime panche dell’aula numero 2, al terzo
piano del Palazzo di giustizia, a Milano, in corso di Porta Vittoria.
Elegante, soprabito scuro e gessato blu a righe sottili, discreto, se ne resta
assorto e silenzioso, come sovrappensiero.
L’avvocato Michele Rocchetti, che siede più avanti, sotto il banco del giudice,
gli lancia un’ultima occhiata prima di spostare lo sguardo sul testimone che ha
appena fatto chiamare e che sta pronunciando la formula di rito: «Consapevole
della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi
impegno a dire tutta la verità …».
Tranquillo, l’uomo in fondo, quasi appoggiato alla balaustra che separa la
parte riservata al pubblico.
Tranquillo. Distaccato. In un certo senso, assente.
Sono le 10.57 del 9 aprile 2015.
È un giovedì.
Al piano di sopra ci sono due carabinieri, un maggiore e un maresciallo, che
sono appena stati nell’ufficio di un magistrato a riferire su un’indagine. Hanno
percorso il corridoio e stanno raggiungendo la balconata da cui partono due
scaloni che portano di sotto, quando sentono una serie di colpi sordi; due, poi
altri due, a distanza di pochi secondi, ma già sono bastati i primi a far capire loro
di cosa si tratta, perché sono carabinieri e i colpi di arma da fuoco li sanno
riconoscere immediatamente.
Spari.
Dal piano di sotto.
Il maggiore e il maresciallo si lanciano giù lungo lo scalone di destra, e
intanto ne sentono altri, di colpi sordi, altri due.
Spari.
Nel Palazzo di giustizia.
Arrivano al terzo piano e puntano di corsa sull’aula numero 2, davanti alla
quale c’è una gran confusione, così il maresciallo, che ha già chiamato il 112 con
il suo cellulare, si piazza davanti alla porta per tenere lontana la gente, mentre il
maggiore entra nella stanza assieme a un altro magistrato, e tutti e due si
bloccano sulla soglia.
A terra, immerse in un vero e proprio lago di sangue sul pavimento già di
marmo rossastro, ci sono tre persone. Una subito a sinistra, all’altezza del banco
dei testimoni e altre due fra la gabbia degli imputati e le panche riservate ai
difensori, accasciate una sopra l’altra.
E mentre il maresciallo chiama di nuovo il 112 e il maggiore cerca di capire
quel massacro, ecco che arrivano altri due colpi sordi da giù, al secondo piano.
Spari, ancora.
Nel Palazzo di giustizia di Milano.
Ma che sta succedendo?
L’uomo che sedeva tranquillo e quasi assente sull’ultima panca dell’aula
numero 2 si chiama Claudio Giardiello, ha cinquantasette anni ed è un
imprenditore immobiliare di Garbagnate Milanese.
Quel giovedì mattina era entrato da un ingresso secondario del Tribunale,
quello che dà su via Manara.
«Ore 09:15:30» c’è scritto sulle immagini registrate dalle telecamere di
sorveglianza, ma sono sfasate di almeno sei minuti e cinquantasette secondi
dall’ora reale.
Sono belle immagini nitide di un uomo alto, elegante nel suo soprabito scuro,
che si aggiusta qualcosa sotto la giacca, si passa la valigetta da una mano
all’altra e tira avanti deciso accanto al gabbiotto della sicurezza, senza fermarsi,
perché da quel lato il metal detector non c’è.
Ci sono persone che chiacchierano, nell’atrio, un signore pelato con un
giubbotto marrone che agita la mano davanti a quella che sembra una ragazza,
più piccola, con uno zaino sulle spalle, ed entrambi forse sono troppo presi dalla
conversazione, o forse quell’uomo con la mano sotto la giacca ha davvero un
aspetto così rassicurante e tranquillo che non ci fanno caso mentre prosegue
verso la scalinata che porta ai piani superiori.
Claudio Giardiello è in Tribunale per un’udienza che lo riguarda, perché è
imputato in un processo per il fallimento della sua ultima ditta, l’Immobiliare
Magenta. E infatti al terzo piano incontra il suo legale, l’avvocato Rocchetti;
sono andati però nell’aula sbagliata, così qualcuno li va ad avvisare e si trovano
tutti nell’aula numero 2 della II sezione penale, dove è già riunito il collegio
giudicante e ci sono gli avvocati delle parti.
Prima di entrare, Giardiello si ferma a parlare con l’avvocato Lorenzo Claris
Appiani, che era stato il suo difensore in un altro processo per fallimento e che in
questo compare come testimone.
È un giovane avvocato di trentasei anni, Claris Appiani, che tutti descrivono
come brillante e geniale, ma che si è trovato male con Giardiello, con il quale
non era più in buoni rapporti, tantomeno in occasione di questo processo.
Tranquillo, tranquillissimo, anche quando l’avvocato Rocchetti gli chiede se
vuole sedersi accanto a lui, davanti, Giardiello preferisce però restare dietro, su
quell’ultima panca, a seguire l’udienza dal fondo.
Ed è sempre tranquillo pure quando chiede all’avvocato di fare altre domande
ai testimoni, ma Rocchetti gli dice di no, il giudice le ha già dichiarate
inammissibili, e allora Giardiello insiste, però calmo, senza enfasi, anche se
pressante, tanto che Rocchetti decide di rimettere il suo mandato, «e allora venga
lei a fare il mio lavoro…»; insomma, arriverà alla fine di quell’udienza e poi si
ritirerà dalla difesa.
Giardiello allora non dice più niente, resta seduto al suo posto, silenzioso,
tranquillo appunto. Addirittura assente.
Intanto è entrato l’avvocato Claris Appiani, si è seduto al banco dei testimoni
e ha iniziato la formula di rito: «Consape…», un istante di pausa per focalizzarla
meglio, «…consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con
la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e…».
All’improvviso l’avvocato Donzelli, che difende un altro imputato nel
fallimento dell’immobiliare, sente una voce alle sue spalle, e gli sembra proprio
quella di Giardiello, seduto tre panche più indietro, che grida «ora basta!», così
la dottoressa Maderna, che fa l’uditrice e siede al banco dei giudici, solleva la
testa dalle carte e infatti vede Giardiello che si è alzato e protende il braccio
destro e in pugno ha quella che sembra una pistola. La vede anche la dottoressa
Ferrari, che presiede il collegio e che urla a tutti di buttarsi a terra e di scappare,
perché Giardiello, prima così tranquillo e così calmo, quasi assente, adesso ha
cominciato a sparare.
Ore 10:57:24.
I primi due colpi sono per Davide Limongelli e Giorgio Erba, coimputati con
Giardiello nel fallimento dell’Immobiliare Magenta, che cadono uno sull’altro,
colpiti alla pancia.
Tre secondi, che devono sembrare un’eternità nel silenzio plumbeo che ronza
nelle orecchie dopo un’esplosione, Giardiello fa un passo avanti e spara altri due
colpi su Claris Appiani, in pieno petto.
Ore 10:57:27.
Scappano tutti, i giudici dalla porta che sta dietro al banco del collegio,
avvocati e testimoni dall’ingresso laterale dell’aula.
Stefano Verna, che fa il commercialista e sta seduto su una panca fuori
dall’aula 2 in attesa di entrare per testimoniare anche lui, sente i botti, vede la
gente che corre lungo il corridoio e allora prende la borsa che teneva sul
pavimento e si gira per scappare, mentre con la coda dell’occhio nota Giardiello
che è uscito dalla stanza. Due colpi secchi e qualcosa che gli brucia la gamba
destra, anche il piede sinistro brucia, ma Verna continua a correre giù per le scale
fino al pianoterra, dove si accascia sul pavimento.
Ore 10:57:33.
C’è un avvocato che si chiama Paolo Brizzi e sta appena fuori la porta a vetri
che divide l’atrio con gli scaloni del terzo piano dal corridoio in cui si trovano le
aule. Ha poggiato i fascicoli che teneva sotto braccio su una balaustra per
rispondere al telefono, è sua moglie, e mentre parla ecco quella raffica di
esplosioni, così all’improvviso, poi un tizio che esce dalla porta a vetri con una
pistola in pugno, e gliela punta contro, a due mani, e spara un paio di colpi.
L’avvocato Brizzi si accuccia e scappa così, quasi carponi, ma sente anche lui la
gamba destra che gli brucia, e tanto, dalla coscia al ginocchio, però non si ferma,
continua a correre, imbocca un corridoio e si infila in una cancelleria, e poi
ancora, dentro un bagno, dove guarda quello che gli è successo, e per fortuna
non c’è niente, solo un buco nella stoffa dei pantaloni, fatto da un proiettile che
gli ha appena sfiorato la pelle.
Al secondo piano del Tribunale, la signora Franca Esposito se ne sta china su
una stampante, cercando di farla ripartire. Poco prima il dottor Fernando Ciampi,
che dopo anni alla sezione fallimentare adesso fa il giudice al Tribunale delle
imprese e che a breve, avendo più di settant’anni, andrà in pensione, è venuto in
cancelleria da lei per chiederle aiuto, e adesso sono tutti e due nell’ufficio del
magistrato, lui in piedi accanto alla scrivania, con le spalle rivolte alla porta, e lei
che ha spento la macchina e sta provando a infilare la carta nel cassettino in
basso, per vedere se così va.
È da quella posizione accucciata che sente un boato, e non fa quasi in tempo a
rialzarsi che il dottor Ciampi le scivola accanto, sul pavimento, e quando la
signora Franca guarda verso la porta non c’è più nessuno.
Anche Francesco Montalcini, che fa il praticante presso un avvocato e che in
quel momento è nel corridoio in cui si trova l’ufficio del dottor Ciampi, si gira
quando sente i colpi e vede un uomo alto, con un soprabito scuro e un braccio
giù lungo il fianco, con una pistola in pugno, che si allontana senza fretta dalla
parte opposta, calmo e tranquillo.
Loro non lo sanno, ma Claudio Giardiello, dopo aver sparato all’avvocato
Brizzi, ha imboccato le scale, è sceso giù fino al secondo piano, ha svoltato a
destra e ha percorso il corridoio fino in fondo, per svoltare di nuovo a destra,
dove appena dietro l’angolo c’è la stanza 250, l’ufficio del dottor Ciampi. Lì si è
fermato sulla soglia, ha alzato il braccio e ha sparato due volte.
A destra ancora, dopo una decina di passi, ci sono le scale che portano giù
all’uscita di via San Barnaba. Giardiello le scende con calma fino all’atrio ed
esce dal Tribunale, ripreso nelle immagini delle telecamere di sorveglianza che
lo seguono all’esterno, sulla scalinata e poi in strada.
Ore 10:58:25.
Nel frattempo stanno arrivando i soccorsi.
Una delle prime telefonate l’aveva fatta addirittura Davide Limongelli, ferito
alla pancia da uno dei primi colpi sparati da Giardiello nell’aula 2. A terra, steso
sulla schiena con addosso il corpo del signor Erba, immobile, Limongelli era
riuscito a tirare fuori il cellulare dalla giacca e aveva chiamato il 112.
«Aiutatemi, vi prego, un’ambulanza… sono in Tribunale, mi hanno sparato!»;
e il carabiniere del centralino, incredulo: «Dove? All’interno del Tribunale?».
Poi il telefono lo prende un avvocato, perché Limongelli sta per svenire: «In
Tribunale ci sono persone ferite… una forse è anche morta… è pazzesco,
anch’io ero qui!».
Limongelli lo portano d’urgenza all’ospedale Niguarda, dove finisce in
prognosi riservata al reparto di terapia intensiva e ci resta un paio di giorni,
prima di essere considerato fuori pericolo.
Giorgio Erba, invece, non ce la fa, lo portano di corsa al Policlinico, ma con
quella brutta ferita che lo ha trapassato muore durante il trasporto.
E non ce la fa neanche l’avvocato Claris Appiani, colpito alla parte destra del
torace, che non riesce ad arrivare vivo al Fatebenefratelli.
Per il dottor Fernando Ciampi nessuna corsa in ospedale, perché i paramedici
del 118 che arrivano nel suo ufficio e lo trovano steso a terra dietro alla scrivania
non possono fare altro che constatarne la morte, ucciso da due proiettili calibro 9
che dopo avergli attraversato il petto sono andati a piantarsi nel muro.
A parte l’avvocato Brizzi, che riporta miracolosamente solo un buco nei
calzoni, quello che se la cava meglio è Stefano Verna, che per le ferite alle
gambe e al piede risulta guaribile in una trentina di giorni.
Nel frattempo, intanto, scattano le ricerche di Claudio Giardiello. Perché
nonostante i verbi al condizionale, e i «sospetto» e i «presunto» che si
susseguono nei primi verbali, non c’è dubbio che sia lui l’uomo da trovare.
L’hanno visto in tanti, l’hanno visto sparare e scappare con la pistola in mano,
gente che lo conosceva e anche molto bene.
Come Limongelli, che ai carabinieri che lo interrogano il giorno dopo, in
ospedale, alla domanda: «È sicuro di aver riconosciuto in Giardiello Claudio la
persona che le ha sparato?», risponde: «Sì, sono certo, lo conosco da tanti anni, è
mio zio!». E chi verbalizza, a mano, aggiunge anche il punto esclamativo.
Lo prendono subito, poco più di un’ora dopo la sparatoria. Verso
mezzogiorno una pattuglia dei carabinieri si inoltra alle Torri Bianche, che è un
quartiere di Vimercate, in Brianza. Lo scooter di Giardiello, con tanto di targa e
modello registrato, nonché di conducente corrispondente alle descrizioni, viene
segnalato in transito prima nel comune di Brugherio, poi in quello di
Concorezzo, in direzione Vimercate.
Siccome in strada non l’hanno incrociato, il brigadiere capo Nufris e
l’appuntato scelto Madau decidono di spingersi dentro il complesso delle Torri
Bianche, con i suoi grattacieli che sembrano fatti con i Lego, e infatti lo trovano
in via Monza, dove sta cercando di parcheggiare.
Scendono dall’auto e si avvicinano con cautela, perché poco prima dalla
centrale lo hanno descritto come armato e pericoloso, dal momento che ha
appena ammazzato tre persone e ne ha ferite altre due, di cui una in modo grave.
Hanno ragione, perché sullo scooter, dentro un sacchetto di carta marrone, c’è
una Beretta 98FS, con il colpo in canna e il cane alzato, pronta a sparare, insieme
a un caricatore di riserva con dodici colpi calibro 9. Il caricatore inserito di colpi
ne ha quattro, perché gli altri otto la Beretta li ha già esplosi poco prima in
Tribunale.
Claudio Giardiello, però, la pistola non la usa più. Calmo, tranquillo, davvero
quasi assente, quando vede i due carabinieri che si avvicinano allarga le braccia
e si consegna. Dice: «Meno male che mi avete fermato, perché stavo andando ad
ammazzarne un altro».
Nonostante la mole di atti e di perizie tecniche, l’indagine sulla sparatoria al
Tribunale di Milano non ha una storia complessa.
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