Alda Merini, mia madre – Emanuela Carniti

SINTESI DEL LIBRO:
Alda Giuseppina Angela Merini, mia madre, è nata a Milano il 21
marzo del 1931.
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
La poesia, pubblicata nel 1991 nella raccolta Vuoto d’amore
curata da Maria Corti per Einaudi, è stata sicuramente composta
precedentemente e la premonizione, la convinzione di una
predisposizione alla diversità già dalla nascita è emersa più volte in
mia madre.
Raccontando della propria nascita, scrive: “Quel 21 marzo,
piovoso e pieno di vento, mia nonna mi trovò particolarmente brutta
e ribadì, nel vedermi, la sua predilezione per la mia sorella
maggiore, più discreta e certamente meno terrificante di me”.
La versione che raccontava in famiglia era diversa, e in qualche
modo più spiccia; ma in effetti rispecchia il linguaggio autentico di
casa: la mia bisnonna, che era una maestra, al vederla avrebbe
commentato “La tuseta l’è mata”.
I
genitori vivevano al numero 57 di viale Papiniano, Porta
Genova, a Milano. Lui, Nemo Merini, discendente di una nobile
famiglia di Como, era un conte, e mia madre ogni tanto
scherzosamente ci ammoniva: “Ricordate che siete nipoti di un
conte!”
Il padre di Nemo, il mio bisnonno, percorrendo il sentiero che da
Como sale a Brunate aveva conosciuto una contadina, si erano
innamorati e, nonostante il parere ovviamente contrario della
famiglia di lui, si erano sposati: una storia romantica, quasi una
favola.
Lì a Brunate ora esiste un premio letterario dedicato ad Alda, e
presto a lei sarà intitolato quel sentiero dove i suoi nonni si sono
incontrati.
Nonno Nemo era agente assicurativo presso la “Vecchia mutua
Grandine ed Eguaglianza. Il Duomo”, una società nata nel 1934
dalla fusione di due precedenti aziende assicurative, che ha operato
fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale.
Di lui Alda ha scritto: “Mio padre, un intellettuale molto raffinato,
aveva tratti nobilissimi. Taciturno e modesto, sapeva l’arte di
condurre bene i suoi figli e fu il mio primo maestro. Mi insegnò fin da
bambina a leggere e a scrivere ed ebbi in lui un grande curatore e
un padre amorevolissimo”.
Io nonno Nemo non l’ho conosciuto, è morto un mese prima che
nascessi. La mamma mi raccontava che ogni sera lui portava a casa
le carte del lavoro, registri contabili, lettere, documenti da compilare,
spesso restava alzato fino a tarda ora a lavorare. Sollecitato dalla
baldanza di mamma, le regalava i vecchi borderò perché li
ricopiasse. Lei gli si sedeva accanto, e lui con pazienza infinita le
insegnava a compitare. Era davvero piccola, non parlava ancora
bene. Mentre era seduta a quel tavolo con i quaderni del padre,
come fanno i bimbi si riferiva a sé in terza persona, chiamandosi
Aldina-schille-bene, Aldina scrive bene.
A cinque anni nonno Nemo le regalò un vocabolario di italiano, e
ogni sera le insegnava dieci parole nuove. Così, per gioco, Alda ha
imparato a scrivere prima di andare a scuola.
Quando è morto, nell’ottobre del 1955, per la mamma è stato un
gran dolore, anzi un vero e proprio trauma, perché gli era
legatissima, più che a sua madre. C’era un rapporto molto intenso, e
poi negli anni idealizzato.
Molto tempo dopo, durante uno dei suoi ricoveri, Alda scrive:
“Padre, senza macchia, senza paura, padre non ascoltato,
scrittore meraviglioso di canti.
Padre in sospetto d’amore, folle giureconsulto, mia solitaria
stanchezza, nemesi della mia vita, banchiere senza parole,
gabelliere dai mille liuti. Padre della mia disperazione, che hai fatto
di me una corifea pura.
Se tu fossi libero, adesso da quella morte da fumo che ti ha tanto
avvilito. Se ora potessi vedermi chiusa nel lenzuolo ibrido del
manicomio, tu padre moriresti.
Invece dormi sotto le edere grandi e pensi come ser Bernardone
che io sono diventata contessa, figlia padrona di irrilevanti parole
perché tu mi hai insegnato l’albero del sapere, condotto da mano
bambina sui primi fogli”.
Alda fa quasi un mito del ricordo di mio nonno, fino ad attribuirgli
connotati improbabili, e soprattutto nei momenti di disperazione lo
idealizza fortemente. In ogni caso quel che è certo è che con lui
avesse un legame saldo e profondo.
Invece di Emilia, sua madre, diceva che era piuttosto severa, e
che non si sentiva compresa da lei. Emilia Painelli, si chiamava la
nonna, nata, come il marito, nel 1901.
“Non ho mai visto una donna più bella e più altera di mia madre.
Da noi la chiamavamo la Montenegrina. Era alta, flessuosa e nobile.
Il mio complesso di inferiorità cominciò proprio da lei. Da questa
donna dal volto imperdonabile, dotata di quella cattiveria che cresce
fianco a fianco. Ma di una bellezza quasi inimmaginabile.
L’educazione di mia madre era tutta nel terrore che emanava dalla
bellezza. Era corposa e nobile ad un tempo, piena di maternità fino
all’inverosimile. Quando rideva il suo volto era pieno di ombre e di
luci. Era perfettamente eguale a Monna Lisa. Però più nobile, più
peccatrice”.
Mia mamma la descriveva come una donna austera e autoritaria,
ma anche gioviale, allegra e spiritosa, un po’ come lei quando era di
buon umore.
Me la ricordo la casa della nonna, anche perché era al portone
dopo il nostro: noi abitavamo al civico 47, lei al 49. Era un’abitazione
microscopica, non so come facessero a viverci, non riesco neanche
a ricostruire come potesse esserci più di un letto.
Insieme alla nonna c’era l’Oreste, suo fratello minore, che aveva
una lieve forma di ritardo, era un po’ lento, dicevamo, e lavorava
come spazzino comunale, gironzolando tutto il giorno per le strade.
La mamma mi raccontava che, fin da piccola, si invaghiva
facilmente, anche se, diceva, era raro fosse corrisposta. Le piaceva
fare regali ai fidanzatini, per quel che poteva, un pettinino, un
pennino… e cercava di stare il più possibile fuori di casa, ogni scusa
era buona per sgattaiolare via e incontrare il filarino del momento.
Dopo che usciva da scuola rimaneva sempre in giro, e allora
l’Oreste, quando finiva il suo turno di lavoro e rincasava, diceva a
mia nonna, con la sua cadenza cantilenante: “Ho vist picinina”.
“Dove, Oreste?” E Alda era da qualche parte con un bagai, un
ragazzo, così quando finalmente tornava a casa le prendeva.
Anche per queste piccole scaramucce, e per il suo fare la spia
quando vivevano insieme, Alda ha sempre avuto un rapporto molto
conflittuale con lo zio, che pure agiva in maniera innocente e
infantile.
Ha scritto mia mamma: “Non si potevano amare queste madri, si
potevano solo temere nonostante tutto l’amore che ci portavano.
Non le si poteva confidare un amore, una disobbedienza, t’avrebbe
comunque castigato. Anche i miei fratelli sono state vittime di questo
autoritarismo; mia sorella maggiore era molto timida, reagiva
appartandosi, mentre mio fratello si vendicava tirandole con la
cerbottana i bussolotti nelle orecchie”.
A nove anni la mamma si innamorò di un ragazzino introverso
che si chiamava Roberto, figlio di un violinista della Scala. In vista di
un nuovo incarico del padre, Roberto si sarebbe dovuto trasferire in
un’altra città, così con mamma architettarono di fuggire insieme.
I due comunicavano attraverso Bruno, un bimbo un po’ selvatico,
diceva mia madre, con un leggero ritardo, che consegnava i rispettivi
bigliettini.
Una volta mia nonna mise alle strette Bruno e lo costrinse a
rivelare il progetto di fuga dei due fidanzatini. Naturalmente si
arrabbiò moltissimo e mise in punizione la figlia, impedendole di
uscire da casa.
Allora mia madre iniziò a scrivere i suoi primi versi per Roberto,
imitando l’endecasillabo delle storie del “Corrierino dei Piccoli” che
mia nonna le comprava sempre. Anche se i suoi riferimenti erano
soprattutto i libri del padre, che non erano certo destinati ai bambini:
i
testi di storia dell’arte e la Divina Commedia. Alda imparava a
memoria alcuni versi, e poi chiedeva al padre di spiegarglieli.
A dieci anni, mi raccontava fiera, vinse il Premio Giovani
Poetesse Italiane, che le fu consegnato dalla regina Maria José e
consisteva in un libretto della Cassa di Risparmio di mille lire. Ne era
molto orgogliosa, e la regina le sembrò bellissima.
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