È tempo di ricominciare – Carmen Korn

SINTESI DEL LIBRO:
Il guaito del cane sembrava così vicino che Theo Unger andò alla finestra
a vedere. Nemmeno un accenno di primavera: erano i primi di marzo, ma
quel gelido inverno non voleva saperne di cedere il passo alla nuova stagione.
Solo i passeri saltellavano sui rami del grande acero spoglio, per nulla
disturbati dai latrati secchi del cane.
Ma forse disturbavano lui. Era l’alano del vicino, che si era trasferito nella
casa accanto all’inizio dell’anno. Brava gente. Parenti del proprietario
precedente, che era morto. Una bella fortuna di questi tempi, ritrovarsi un
tetto integro sopra la testa. Per lui e per il figlio di Henny, Klaus, che viveva
da lui. E anche per i vicini.
Ma no, non era il cane coi suoi latrati a disturbarlo. Anche se lui di cani
non ne aveva mai avuti, né a Duvenstedt, in campagna, dove aveva trascorso
l’infanzia, né in quella casa sulla Körnerstraße, vicino alla riva dell’Alster.
Certo, un bel cane dal portamento fiero avrebbe fatto la sua figura accanto
alla regale ed elegante signora con cui era stato sposato per ventiquattro anni.
Cominciava a germogliare in lui l’idea che forse non era troppo tardi per
un nuovo inizio, per tornare ad avere in casa del rumore, della vita e, perché
no, anche un cane. Ecco cos’era a disturbarlo: il silenzio. Il silenzio evocava
le ombre dei morti, dei dispersi.
Quel pomeriggio un altro rumore insolito venne a turbare la sua quiete. Un
clacson dal suono acuto, quasi una fanfara. Theo posò il bicchiere sul
tavolino da salotto. In corridoio per poco non si scontrò con Klaus, accorso
anche lui dalla sua stanza al piano di sopra per aprire la porta. «Hai visto che
macchina?», gli disse. «Da’ un’occhiata fuori, si è appena fermata».
Theo non credette ai suoi occhi, quando vide chi scendeva dall’auto.
Alessandro Garuti, invecchiato come tutti loro ma non privo del suo fascino.
Posò una mano sul tetto della sua Alfa Romeo, quasi a ringraziarla di
averlo portato da Sanremo a Nizza e di lì, passando per Lione e l’Alsazia,
fino ad Amburgo.
«Sorpresa!», esclamò nella sua lingua mentre andava incontro a Theo e lo
abbracciava con calore. L’italiano rivedeva l’amico per la prima volta dopo la
fine della guerra e trovò che era cambiato davvero poco. Certo, era strano non
vedere Elisabeth al suo fianco. Dai loro contatti telefonici Garuti era al
corrente del fatto che Elisabeth aveva lasciato il marito già nel ‘45 e si era
trasferita a Bristol insieme a un capitano dell’esercito britannico.
Adesso con Theo c’era un ragazzo, che alleviava la sua solitudine. Klaus.
Un buffo nome monosillabico. Alessandro Garuti amava la lingua tedesca,
ma certe volte la trovava un po’ troppo secca. Un nome come Rodolfo,
pronunciato in quella lingua, sembrava il verso di una canzone. Rudi. Suo
figlio, il suo erede.
Garuti entrò nella bella casa a due piani, con gli abbaini che sporgevano
dal tetto e i cespugli di rose abbarbicati sulle spalliere. Era bello ritrovare
tutto questo. Aveva raggiunto la settantina già da un anno e sperava di vivere
ancora a lungo, di godersi la pace. Aveva saputo di avere un figlio già grande
solo nel ‘40. Rudi era sopravvissuto alla guerra, ma si trovava ancora in un
campo per prigionieri di guerra in Russia, sugli Urali. Ormai era ora che
tornasse.
«Ed è una sorpresa davvero, Alessandro. Ti aspettavamo per maggio, non
in questo gelido inizio di primavera!», gli disse Theo mentre entravano tutti e
tre nel salone.
«Non ne potevo più di aspettare. Forse da qui mi sarà un po’ più facile
stabilire un contatto con Rudi».
A Theo parve una speranza un po’ ingenua da parte di un diplomatico in
pensione che aveva svolto servizio come addetto culturale presso
l’Ambasciata italiana in Germania. Ma tenne per sé il suo scetticismo e andò
a prendere una bottiglia di rosso della valle del Reno, un vino amabile e
leggero con cui festeggiare il nuovo arrivato.
Ma l’allegria non tardò a guastarsi quando affrontarono gli argomenti che
più gli stavano a cuore. Non solo Rudi ma anche sua moglie Käthe e la madre
di lei, Anna, erano scomparse dopo la guerra. E sempre più spesso Theo si
trovava a pensare che Henny avesse preso un semplice abbaglio, quando la
notte di San Silvestro dell’anno precedente aveva visto o creduto di vedere la
sua amica Käthe al di là del finestrino del tram 18. Käthe era introvabile.
«Avete un cane», disse Alessandro, che si era avvicinato alla finestra a
guardare il giardino sul retro.
Anche Theo e Klaus si avvicinarono. L’alano se ne stava a fissarli da una
delle aiuole. Doveva essere saltato sopra la siepe, che era piuttosto alta.
«Goliath!». Una voce lo chiamò dal giardino adiacente.
Il cane rivolse loro un’ultima occhiata e si avviò obbediente verso la siepe,
dove si era aperto una comoda breccia destinata probabilmente a durare nel
tempo.
«Il cane ha sorriso!», disse Garuti in italiano.
Henny era di turno in sala parto, quella domenica di marzo. Di bambini ne
venivano al mondo tanti: un miracolo postbellico. O semplicemente gli
uomini, reduci dai fronti di mezzo mondo e da indicibili privazioni, volevano
recuperare il tempo perduto.
Henny depose il piccolo tra le braccia della madre, perché potesse fare
almeno conoscenza con lei prima di essere portato al nido. Spesso le puerpere
erano troppo esauste per apprezzare quel momento; altre volte invece non
volevano saperne di separarsi dalla creatura che avevano appena messo al
mondo. Quando si partoriva in casa il legame madre-figlio si stabiliva più in
fretta, ma il rischio di complicanze era maggiore.
Sua madre, Else, l’aveva partorita in casa, e suo padre aveva atteso in
cucina, rompendo per l’agitazione una zuccheriera. La levatrice, che era
venuta a prendere una bacinella d’acqua scaldata sul fornello, aveva detto che
allora sarebbe nata una femmina. Invece la prima figlia di Henny, Marike, era
nata nel 1922, proprio lì alla Finkenau, che già in quegli anni era molto
rinomata. E anche Klaus, nove anni dopo, era nato in ospedale. Ed ecco che
stava venendo al mondo una nuova generazione, destinata, si sperava, a
vivere in una pace duratura.
Henny gettò un’occhiata al grosso orologio appeso al muro della sala
parto. Il suo turno era quasi finito, poteva andare a prendere l’insalata di
patate che aveva riposto nel frigo della cucina delle infermiere e raggiungere
Theo e Klaus. Decise di non allungare fino alla Schubertstraße, dove viveva
sua madre Else e dove viveva anche lei dal luglio del 1943, dopo che la sua
casa era stata distrutta dai bombardamenti. Else le avrebbe messo il broncio,
come faceva ogni volta che le capitava di passare una serata senza la figlia.
Perlomeno Klaus, che aveva ormai diciassette anni, aveva una stanza tutta
per sé. Theo avrebbe voluto che si trasferisse anche Henny, ma lei stavolta
preferiva non agire precipitosamente. Era andato tutto troppo in fretta nella
sua vita. In particolare con gli uomini.
Vide Gisela prendere in braccio il neonato per portarlo al nido. La placenta
era stata regolarmente espulsa nei dieci minuti successivi al parto, perciò era
improbabile che ci fossero complicazioni, ma per sicurezza Gisela avrebbe
vegliato sulla puerpera ancora per un po’.
La giovane ostetrica le ricordava un po’ Käthe, anche se Gisela Suhr era
rossa di capelli e aveva le lentiggini. Però era una testa dura, proprio come
Käthe. “La rivoluzionaria”, l’aveva soprannominata un giovane dottor Unger
tanti anni prima, quando insieme avevano cominciato da poco il tirocinio
come ostetriche.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo