Viaggio nella Grecia d’Italia – Matteo Nucci

SINTESI DEL LIBRO:
Raccontano i miti che tutto ebbe inizio con una fuga d’amore. La
bella Aretusa che corre, gioca e caccia fra i boschi del Peloponneso,
sprezzante del fascino che esercita sugli uomini. Il fiume che la
ragazza vede in un pomeriggio torrido mentre la cappa di afa
sembra soffocare anche il muggito incessante delle cicale. Il fiume
chiaro e silenzioso in cui si tuffa nuda e il mormorio che cresce dalla
corrente, il fiume che si fa uomo e che vuole unirsi a lei. Inizia una
corsa a perdifiato attraverso tutto il Peloponneso fino alle rive del
mar Ionico. Alfeo, il fiume che ancora oggi percorre la penisola dalle
tre dita, insegue Aretusa senza darle tregua. E la ragazza disperata
invoca Artemide, quando il mare sembra averne interrotto la corsa.
Allora il sudore, la rugiada, le lacrime di Aretusa prendono il
sopravvento. La ragazza diventa acqua dolce, si trasforma in fonte
sorgiva che s’inabissa nelle profondità sottomarine, mentre Alfeo
ritornato fiume continua a inseguirla. La corsa finisce a Siracusa,
nella piccola isola di Ortigia, dove Aretusa torna alla luce
zampillando e Alfeo unisce le sue acque a quelle della ragazza. Il
mito racconta l’arrivo dei Greci a Siracusa.
Oggi, attorno alla fonte Aretusa sommersa da baracchini turistici e
gelaterie di mille colori sgargianti, noi sappiamo che il mito guardava
lontano, ma non abbastanza. Perché la Sicilia per i Greci fu sempre
e solo Sicilia. Mentre quella che essi chiamavano Italìa era altrove. E
fu lì, non in Sicilia, che si espanse la Megà le Hellà s, la Magna
Grecia. Bisogna guardare alla storia, allora. La storia racconta i fatti
ordinatamente. Era passata da poco la metà dell’VIII secolo a.C. e
da Calcide, in Eubea, la lunga isola adagiata nell’Egeo poco lontano
dalle coste attiche, navi e navi di coloni avevano percorso i «sentieri
di mare» che secondo Omero collegavano le acque greche a quelle
italiche. Si fermarono a Cuma, innanzitutto, poi fondarono colonie
sulla costa orientale siciliana e la città più vicina all’Italìa la
chiamarono Zancle. Dunque guardarono di là dello stretto.
Conoscevano a memoria i versi che cantavano di Scilla e Cariddi, la
roccia dei due speroni mostruosi e divini, roccia che «rombava
terribile, in fondo la terra s’apriva, / nereggiante di sabbia».
Sapevano che per controllare lo stretto era necessario dominare su
entrambi i versanti. Da Zancle (ribattezzata poi Messene e oggi
Messina), si lanciarono oltre il mare e fondarono Reggio.
Il ponte ideale che i greci di Calcide gettarono fra Sicilia e Italia si
richiuse in pochi anni e forse non si è mai più aperto. Il ponte reale,
di cui da anni si discute, quando è ben visto da siciliani e reggini, lo è
soprattutto per una ragione. Sottrarsi al monopolio dei traghettatori
privati che quotidianamente fanno su e giù fra Messina e Villa San
Giovanni e che hanno significativamente preso il nome del figlio
della Notte, colui che traghettava le anime nell’aldilà : Caronte. Quali
gli inferi a cui conduce oggi la ditta di Caronte? Villa San Giovanni,
divorata dalle automobili in fila al porto, oppure Reggio, dove la
famigerata autostrada ancora si spegne in una delirante
progressione di limiti di velocità fino a trasformarsi in una delle vie
cittadine, a pochi minuti dal centro? Qui le cronache sono impietose.
Un magnifico museo di antichità chiuso da quattro anni per
ristrutturazioni. La bellezza sconcertante dei famosi bronzi di Riace
esposta senza concedere nulla agli osservatori: due salme distese
dietro un vetro nel Palazzo della Regione. Nient’altro ricorderebbe i
fasti di una volta tranne le antiche mura della città sul Lungomare
che ha preso il nome del sindaco più amato, Italo Falcomatà , il
protagonista della «primavera di Reggio». Ma è qui che si deve
venire per ritrovare il cuore della città . Lungo quello che, stando ai
racconti, D’Annunzio ribattezzò «il più bel chilometro d’Italia», tra le
palme e i lampioni liberty, la folla sciama in continuazione. Di sera,
l’Arena dello Stretto si riempie. È come la replica di un piccolo teatro
greco che guarda verso Messina. Nessuno lo chiama col nome che
gli fu imposto pochi anni fa, per glorificare il sindacalista e senatore
missino Ciccio Franco, «leader dei Boia chi molla» come recita
l’iscrizione sotto la statua. Giovani e vecchi si accalcano. Ibico, il
poeta che nacque a Reggio all’inizio del VI secolo a.C., racconta
ancora quel che accade in queste serate estive. Le sfumature fra
cielo e mare che Quasimodo tradusse «colori del porfido»; i ragazzi
divorati da Eros che «Afrodite e Persuasione, la divinità tenero
sguardo, allevarono tra fiori di rosa»; i vecchi che temono le «reti
inestricabili di Afrodite» e tremano «come un cavallo abituato alle
vittorie che sulla soglia della vecchiaia / a malincuore entra in gara
contro carri veloci».
I viali e i bei palazzi con cui Reggio, come Messina, fu ricostruita
dopo il terremoto del 1908 lasciano a sud il posto a una periferia da
cui sbuca come il figlio più amato e odiato la strada regina della
Magna Grecia, la statale Jonica 106, una lingua d’asfalto che
percorre la storia della colonizzazione greca e raggiunge le città che
dominarono e scomparirono e che scomparendo rimasero per
sempre. È tutto ancora come duemila e settecento anni fa, per
esempio, sulla costa dei Gelsomini, a Capo Bruzzano, dove
sbarcarono i coloni provenienti dalla Locride Ozolia, sul golfo di
Corinto, pochi anni dopo la fondazione di Reggio. Per qualche anno
vissero lì, sul promontorio detto Zefirio, protezione dal vento di
ponente. Il tornante della 106 si allarga in un muretto di mattoni grigi
mai intonacati a delimitare lo spiazzo polveroso infestato di
automobili. Una mano ha scritto PRIVATO fra i tralicci, forse per
respingere i pochi estranei. Del resto, nulla qui, sulla magnifica
spiaggia di sabbia fine cui si accede scendendo lungo la sterrata, ha
il
sapore dell’accoglienza. Protetti da pagliericci occasionali i
villeggianti calabresi scuotono il capo, ripetono che da nessuna parte
sarà possibile trovare acqua o bibite, la spiaggia è solo per chi arriva
preparato. Cartacce svolazzano ma non è il vento Zefiro a sollevarle.
I Locresi abbandonarono questi luoghi dopo poco. Se ne andarono
una manciata di chilometri più a nord a fondare Locri Epizefiri, la
Locri della madrepatria, cioè, ma riplasmata oltre il promontorio
Zefiro. Cercavano luoghi adatti a una grande città e li trovarono. Del
resto, erano guidati da una particolare forma di entusiasmo, un
entusiasmo tutto femminile.
Qui il mito s’intreccia alla storia ma sbaglia chi vuole ridurre le
storie
mitiche a semplici favole. Perché gli uomini che
abbandonarono la Locride della madrepatria erano stati respinti con
grande ingiustizia. E poiché la peggior forma d’ingiustizia sta nel
replicare l’ingiustizia subita, essi cercarono di percorrere l’altra via e
ambirono dunque a una legislazione perfetta. I fatti andarono così:
durante la prima guerra che contrapponeva Sparta a Messene (a
fine VIII secolo), Locri si svuotò. Gli uomini liberi andarono a
combattere al fianco degli spartani e dopo anni di assenza le donne
decisero che il tempo era scaduto e si accoppiarono agli uomini
rimasti in città : gli schiavi. I figli di queste unioni vennero più tardi
cacciati dai locresi tornati in patria. Percorsero i «sentieri di mare»
fino a sbarcare a Capo Bruzzano. Le donne che li seguirono non
furono da meno, quanto a intraprendenza e autonomia, rispetto alle
madri. E fu forse questo carattere a forgiare, in città , abitudini
matriarcali, assieme all’istituzione della prostituzione sacra. Mentre
si entra nella spettacolare area archeologica aperta sulla statale 106,
di tutto questo si è persa traccia. I resti dei quartieri residenziali e
delle botteghe artigiane restituiscono ancora la pianta della città e
delle sue case; il tempio di Marasà ci accoglie con la sua colonna
spezzata nel silenzio di una vegetazione rigogliosa; e semmai solo
quanto fu ritrovato nel santuario di Demetra potrebbe raccontarci
ancora qualcosa, con i piccoli quadretti di terracotta in bassorilievo (i
famosi pinakes) offerti come ex voto alla dea delle messi Demetra, in
onore di Persefone, sua figlia rapita da Ade, dio dell’Oltretomba, allo
stesso modo delle ragazze strappate alle madri e alla tranquillitÃ
familiare dal matrimonio. Ma nel bel museo resta poco di questi
quadretti, ora nascosti nel chiuso delle stanze di Reggio. Quel che è
straordinariamente in mostra è invece uno dei due Dioscuri, Castore
e Polluce, che secondo il mito intervennero in aiuto di Locri per
difendersi da Crotone.
Da qui in poi, infatti, la storia della Magna Grecia è una storia di
guerre fratricide. Oggi le guerre intestine sono quelle di cui tutti
abbiamo sentito notizia da queste parti: faide familiari e semmai lotta
contro se stessi, ossia lo strumento principe della ’ndrangheta:
mantenere la terra in uno stato di povertà e prostrazione per
dominarla meglio. È così che appare il resto del sito archeologico
locrese. Solo qualche centinaio di metri oltre il museo, il teatro greco
è
abbandonato nell’incuria assoluta, la casetta del bigliettaio
bruciata, le reti di protezione divelte e le pietre antiche trasformate in
ritrovo serale. «Almeno servono ancora no?» mi dice un vecchio
attraversando quello che era stato progettato come un parcheggio
per i turisti in arrivo e che è diventato un piazzale di immondizia e
falò improvvisati. Mi ronza nelle orecchie la frase borbottata a mezza
bocca sulla spiaggia di Capo Bruzzano. «Cerca un baracchino che
vende bevande? Ah! Mica c’è. Lo brucerebbero subito. Qui tutto
deve rimanere come sempre è stato». La conservazione a tutti i
costi. È quello che vuole la criminalità di qui. E sembra paradossale
che invece la conservazione delle leggi fosse stato il traguardo della
giustizia a cui aveva portato l’ambizione dei coloni locresi
ingiustamente espulsi dalla madrepatria. La legislazione di Zaleuco
di Locri fu sempre ricordata per la sua severità . E per lo spietato
atteggiamento nei confronti di chiunque avesse tentato di mutare da
quella retta via. Era questo il senso di una delle più famose fra le
leggi di Zaleuco. Prevedeva per chi volesse istituire una novitÃ
legislativa di avanzare la proposta con un cappio attorno al collo. Se
la proposta veniva accettata, se ne tornava a casa tranquillo.
Altrimenti il cappio veniva tirato. Ma, commentava l’ateniese
Demostene più di due secoli dopo: «Era una città ben governata.
(…) Si preservavano le antiche istituzioni e non si legiferava per
favorire i desideri e i sotterfugi dei trasgressori». Il contrario,
insomma, di quel che sarebbe avvenuto nel Novecento.
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