Una ragazza da Tiffany – Susan Vreeland

SINTESI DEL LIBRO:
Aprii la porta di vetro molato sotto l’elaborata insegna in bronzo,
Tiffany Glass & Decorating Company. Una nuova insegna e un
nuovo nome. Bene: anch’io sentivo di essere un’altra persona.
Nel salone al piano terra dell’edificio di cinque piani enormi vetrate
erano appese al soffitto e grandi mosaici appoggiavano alle pareti.
Sebbene avessi fretta, non seppi resistere alla tentazione di dare
una sbirciatina ai vasi dalle linee morbide, ai completi da scrivania in
bronzo, alle pendole, ai candelabri Art Nouveau. Ma le lampade
stonavano con i loro paralumi di vetro soffiato sopra basi tozze e
bulbose: troppo ordinarie per essere eleganti! Il signor Tiffany poteva
fare di meglio.
Il giovane caporeparto cercò di fermarmi ai piedi della scalinata di
marmo. Lo fulminai con un’occhiata che voleva dire: Ero qui prima
che tu nascessi e spinsi via il suo braccio come se fosse uno dei
tornelli di Coney Island.
Una volta raggiunto il secondo piano mi precipitai nello spazioso
studio del signor Tiffany. Una gardenia all’occhiello, sedeva alla
scrivania dietro una fila di orchidee, in pieno febbraio! Tipica
stravaganza da ricco sfondato. I baffetti ben curati di un tempo erano
diventati fluenti baffoni.
Alle pareti erano appesi alcuni dei suoi quadri: La moschea del
Cairo, con i minareti altissimi e affusolati, Giorno di mercato a
Tangeri, con una torre che svettava in lontananza. Ne notai uno
nuovo: un giglio dal lungo stelo che si ergeva sopra un altro molto
più basso. Divertente. Il piccolo Napoleone non aveva ancora
smesso di rodersi
Nuovi erano anche i piedistalli che torreggiavano ai lati del camino:
drappeggiati di scialli beduini, sorreggevano vasi contenenti penne di
pavone. In questo caso però la sete di sfarzo aveva avuto la meglio
sull’astuzia, se avesse voluto apparire più alto avrebbe dovuto
scegliere piedistalli meno elevati. Un giorno glielo avrei detto.
«Permesso? Scusate, non c’era nessuno al piano di sotto».
«Ah, signorina Wolcott!»
«Signora Driscoll. Mi sono sposata, ricordate?»
«Oh, sì. E questo purtroppo vi impedisce di collaborare con noi, la
mia politica non…»
Drizzai la schiena. «Da due settimane sono di nuovo signorina».
Era troppo gentiluomo per fare domande, ma mi accorsi che gli
brillavano gli occhi.
«Sono venuta a chiedervi se avete un lavoro per me, visto che un
tempo apprezzavate le mie capacità ». Un palese avvertimento: non
volevo essere assunta perché ne avevo bisogno, né per pura
cortesia; se mi avesse ripreso con lui doveva essere solo in virtù del
mio talento.
«In effetti…» fu la concisa risposta.
Per spezzare il silenzio teso che seguì gli chiesi dei suoi nuovi
progetti. Le sopracciglia scattarono all’istante, disegnando due archi
perfettamente simmetrici.
«Una cappella bizantina per l’Esposizione colombiana che si terrÃ
a Chicago l’anno prossimo. Quattro volte più estesa di quella di
Parigi. Sarà il più grande raduno di artisti dal quindicesimo secolo».
Contò sulle dita e poi aggiunse, tamburellando sulla scrivania:
«Mancano solo quindici mesi. Nel 1893 il nome di Louis Comfort
Tiffany sarà sulla bocca di tutti!» Si alzò e spalancò le braccia, quasi
a voler accogliere il mondo intero in un abbraccio.
Avvicinò il palmo alla mia schiena, accompagnandomi verso il
massiccio tavolo di mogano dove teneva i bozzetti.
«Due vetrate rotonde, con L’infanzia di Cristo e la Madonna col
bambino di Botticelli, e una decina di finestre laterali!»
Un’impresa immane. La sorte mi sorrideva, avrei avuto modo di
sfruttare il mio talento.
Saltellando in preda a un entusiasmo incontenibile, prese a
srotolare sul tappeto persiano un acquerello dopo l’altro. I bozzetti
mostravano con estrema precisione ciascuna delle vetrate che
aveva in mente di realizzare.
«Caspita! Che meraviglia!»
A quel punto stese l’acquerello più grande. «Un mosaico alto più di
due metri che andrà dietro l’altare: una coppia di pavoni circondata
da pampini».
Rimasi letteralmente a bocca aperta. Sopra i pavoni, uno di fronte
all’altro, in luogo della tradizionale icona cristiana della corona di
spine, c’era un diadema scintillante per il Re dei Re: le spine erano
diventate altrettanti gioielli in puro stile Tiffany.
Ero sbalordita: come poteva ricavare tonalità così accese e
profonde da semplici acquerelli? I colori avevano lo splendore dello
smalto e vibravano insieme con il vigore dell’accordo di un organo a
canne. Perfino i loro nomi rimandavano a una ricchezza fiabesca.
Verde smeraldo e blu zaffiro per le piume del collo dei pavoni,
vermiglio, ocra spagnola e oro per le penne delle code. I gioielli della
corona erano giallo mandarino e olivina, lo sfondo turchese e blu
cobalto. Ah, poter mettere le mani su quelle tinte sontuose! Sentire
la freschezza del vetro azzurro, simile a un pezzo di mare
solidificato. Tagliare quelle gemme gigantesche liberando sfavillanti
schegge di luce. Dimenticare tutto e tutti e perdersi in quel mondo di
vetro, ricavandone qualcosa di meraviglioso.
Quando fui sicura che la mia voce non tradisse l’impazienza dissi:
«Vedo che la vostra stravaganza è intatta: solo voi potreste mettere
dei pavoni in una cappella».
«Ma come, non lo sapete?» disse fingendosi incredulo.
«Nell’arte bizantina i pavoni simboleggiano la vita eterna.
Si credeva che la loro carne fosse incorruttibile».
«Vi fa gioco questa fortunata coincidenza, non è vero?»
Un risolino mi fece capire che ero sempre nelle sue grazie.
Tirò fuori altri bozzetti. «Un altare di marmo e mosaici cinto da
colonne di mosaico e un fonte battesimale in vetro a piombo opaco».
«Questa cupola, il coperchio della vasca, è in vetro a piombo?»
Guardò il fonte con amore e me ne mostrò le dimensioni,
allargando le braccia.
Mi venne un’idea intrigante. «Immaginate una cupola come
questa, più piccola però, di vetro trasparente. Se si trovasse il modo
di unire i pezzi fra loro, non potrebbe diventare un paralume? Una
piccola vetrata ricurva di…» mi guardai intorno in cerca di ispirazione
«…penne di pavone!»
Ebbe un sussulto e mi guardò con aria stupita, mentre l’idea si
faceva strada nella sua mente come se l’avesse concepita lui.
«Lampade in vetro a piombo» disse con aria trasognata, gli occhi
azzurri che luccicavano.
«Pensate al successo che riscuoterebbero» mormorai.
«Ma certo!» esclamò lisciandosi la barba. «È fenomenale! Un
prodotto completamente nuovo! Saremo i primi a metterlo sul
mercato. E non folo penne di pavone, anche fiori, sì, fiori!»
Per l’eccitazione gli scappò qualche esse blesa, un difetto di
pronuncia che riaffiorava quando era infervorato.
«Ma prima la cappella. Questo, per il momento, rimarrà un nostro
segreto».
Uomini capaci di custodire segreti… a quanto pareva avevo un
debole per quella specie rara.
«Oltre al reparto del vetro e a quello dei mosaici, ho sei donne che
si occupano unicamente delle vetrate per la cappella. Sono sempre
stato dell’idea che le donne abbiano una maggiore sensibilità per le
sfumature. Voi ne siete la prova vivente, per cui sovrintenderete al
loro lavoro».
«Non chiedo di meglio».
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