Un viaggio chiamato amore – Sibilla Aleramo

SINTESI DEL LIBRO:
Sono le 5 e 30. Un’agile figura femminile attraversa di buon
passo i campi, nel chiarore del mattino d’estate, diretta alla stazione
di Panicaglia. Il nome del paese non dice nulla. Può aiutare sapere
che è collocato nel basso Mugello, zona dolce e collinare tra Firenze
e l’Appennino tosco-romagnolo.
É giovedì 3 agosto 1916. La donna deve prendere il treno per
San Piero a Sieve, distante solo una diecina di chilometri, e, di là,
alle sette, la macchina che ogni giorno va verso l’alto Mugello.
Tagliando per i campi basterà un quarto d’ora.
I pochi che la incrociano non possono fare a meno di notarla.
Non solo perché caracolla di buon mattino in solitudine, ma perché è
bella, assai bella. Ampia la fronte, l’ovale del viso regolare come i
lineamenti, la bocca sensuale e tragica da antica maschera, la pelle
di madreperla e il lungo collo tornito che si muove altero sulle spalle.
L’unica traccia che potrebbe rivelare i suoi quarant’anni, una frezza
bianca tra il biondo dei capelli sopra la tempia sinistra, è nascosta
sotto la falda del cappello.
Neppure il suo pseudonimo, Sibilla Aleramo, potrebbe dire
qualcosa a coloro che incrocia. Eppure è famosa da un decennio per
il
suo romanzo, “Una donna”, vero successo in Italia e all’estero.
Appare schiva, ma non lo è. In altri momenti sarebbe stata lieta di
parlare di sé e del suo libro, che altro non è se non la storia di Rina
Faccio, perché questo è il suo vero nome. Di solito lo fa con orgoglio
e lucidità, come quando lo aveva scritto, nel 1902, subito dopo aver
abbandonato il marito. Voleva che fosse un proclama di libertà
femminile e c’era riuscita, spronata dal suo compagno d’allora,
Giovanni Cena, il grande promotore delle scuole per i contadini
dell’Agro romano, romanziere e poeta, col quale era vissuta per dieci
anni, convinta che sarebbe stato per sempre.
Il
romanzo aveva acceso forti polemiche. Le stesse
emancipazioniste si erano interrogate sul concetto di maternità che
vi veniva espresso. Giusto che una donna abbandoni il marito
violento e retrogrado, ma come accettare l’abbandono di un figlio
piccolo nelle mani dell’individuo dal quale si fugge? Era stato difficile
anche per loro distinguere l’eroina del romanzo che affida al figlio
dormiente il giudizio sulla sua decisione, dalla madre che se ne era
andata, illudendosi di ottenere facilmente l’affidamento, senza invece
riuscirvi.
Quel giorno non aveva la solita disponibilità a raccontarsi,
ansiosa com’era di incontrare Dino Campana, poeta ignoto destinato
a diventare uno dei grandi del Novecento italiano, ma al momento
povero autore che cercava disperatamente di vendere il suo libro, i
“Canti Orfici”, pubblicato grazie a una sottoscrizione nel 1914.
Era quasi fresco sotto il tunnel di verde del viale.
Lui l’aspettava a Barco - forse prima forse dopo Firenzuola. Lo
avrebbe chiesto al conducente.
Prese il treno e la macchina in orario. Nonostante la guerra, i
trasporti funzionavano e le poste anche. Aveva lasciato nella villa,
messale a disposizione da amici a Borgo San Lorenzo, le poche
lettere che il poeta le aveva scritto. Suggestive, sospese, eppure
piene di simpatia. Ne era rimasta affascinata, al punto di sognare di
conoscerlo. Aveva anche scritto per lui una poesia, senza avere il
coraggio di portarla con sé.
Lo descrivevano di pelle rosea e biondorossiccio di capelli, il
naso breve, largo e la bocca forte. Gli occhi dovevano esser
cangianti: alcuni li dicevano azzurri, altri grigi, altri ancora addirittura
castani. I più maligni si attardavano a spettegolare sul suo aspetto,
rievocandolo aggeggiato come un barbone, con scarpe enormi
legate con lo spago. Di certo non lo faceva per provocazione,
altrimenti non avrebbe mancato l’occasione, consigliatagli dall’amico
Carrà, di calare in città con una pelle di pecora addosso.
Forse era soltanto un solitario, squattrinato come lei e come
spesso i veri artisti. Del suo libro discutevano tutti però.
Scrivendogli, aveva parlato di Whitman e si era fatta bella con
lui, per aver recensito “Foglie d’erba” dieci anni prima. Anche lei
aveva usato due versi di Whitman: «Dammi il tuo tono o morte, /
perch’io possa accordarmici», come epigrafe al suo “Dialogo con la
Psiche del museo di Napoli”, prosa scritta in un momento di crisi
esistenziale, durante i viaggi tra il 1908 e il 1909 nelle zone
terremotate in Calabria e Sicilia, che avrebbe visto la luce trent’anni
dopo la sua morte.
Sibilla non sapeva che Campana non aveva mai letto il suo
capolavoro e la conosceva invece per le chiacchiere sulle sue
ripetute storie d’amore. Non le aveva prese per oro colato soltanto
perché diffidava di Firenze e dei «cari sciacalli dell’ambiente
fiorentino», però, nel ricevere il 10 giugno la prima lettera di Sibilla,
aveva confidato il suo stupore e la sua diffidenza a Emilio Cecchi,
critico sottile dei suoi “Canti”, intrinseco della scrittrice, che lo aveva
rassicurato, dicendogli che si trattava di «una buonissima donna».
In venti chilometri il paesaggio è cambiato. L’alto Mugello è
arido e pietroso. Passato il Giogo, a quasi 900 metri, si ridiscende
fino a Barco, frazione di poche case, allineate lungo la strada.
Nessuno vi ha mantenuto il ricordo dell’incontro di Campana e
Sibilla. Si rammenta invece, intorno a quegli anni, la presenza di un
brigante, molto più intonata al paesaggio di due poeti.
Sibilla rimette nella borsa il libro di Campana, portato con sé per
avere una dedica, che ha sfogliato anche durante il viaggio, sempre
più affascinata dal disperato sforzo del poeta di cambiare la vita in
poesia e viceversa. Anche lei credeva alla coincidenza della vita con
l’arte, per questo amava, come lui, Whitman. «They were all torn /
and cover’d with the boy’s blood» («erano tutti stracciati / e coperti
col sangue del fanciullo»): i due versi del poeta americano, scelti e
adattati a suggello dei “Canti Orfici”, gridavano il terrore di affidare al
mondo se stesso e la sua opera. Di dove veniva la sua magica
potenza poetica? Doveva conoscerlo, s’era ripetuta, e non sapeva
che fosse a pochi chilometri da lei. Come immaginarlo, se tutti ne
parlavano come di un girovago? Anche Sibilla si sente un po’
vagabonda. La chiamano l‘“errante”, perché non ha mai sentito il
bisogno di una casa e non lo sentirà fino a dopo i cinquant’anni,
quando sceglierà una sistemazione piuttosto bohémienne, nella
famosa soffitta di via Margutta. Ama viaggiare: è stata a Parigi, in
Provenza, in Corsica. Nulla di avventuroso, ma insolito per una
donna sola.
«Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare
distesa verso le valli immensamente aperte»: a La Verna anche lei
era rimasta sedotta «da uno spirito d’amore infinito», anche lei aveva
subito la sacralità dei luoghi francescani, soprattutto anche per lei la
solitudine era il modo di pacificarsi con se stessa.
Sebbene sia vero che ambedue si rigenerino nel viaggio, la vita
di Campana è ben altra. Si definisce «uomo dei boschi» e non a
caso. Non viaggia: è un vagabondo che compare e scompare
all’improvviso. Nessuno può dissuaderlo dall’andare e nessuno può
prevederne il ritorno. Il poeta visionario correva incontro a Manuelita,
«figlia generosa della prateria», «per ritrovare il contatto con le forze
del cosmo», ma tornava poi «verso le calme oasi della sensibilità
della vecchia Europa».
Questo angoscioso necessario andirivieni era iniziato assai
presto.
Nato a pochi chilometri da Firenze, a Marradi - paese di
diecimila anime fra i monti al confine fra la Toscana e la Romagna, di
cui tutti gli abitanti erano fieri, salvo lui -, a quattordici anni Dino si
sentiva già un estraneo e guadagnava i boschi, svicolando in sordina
fra le case. Le sue gambe forti, come il resto della sua struttura
fisica, gli consentirono di aumentare il distacco e quei «viaggi» si
erano via via dilatati, per seguire «l’ansia del segreto delle stelle,
tutta un chinarsi sull’abisso», diceva.
Forse a diciott’anni aveva raggiunto in nave Odessa, città dalle
strade ampie e regolari, teatro di lì a poco delle rivolte operaie contro
lo zar e dell’ammutinamento della corazzata Potëmkin, ed era stato
adottato da una tribù di Bossiachi, cioè di zingari, con la quale aveva
vissuto a lungo.
Sulla strada del ritorno a casa, raccontano sia stato trovato
dormiente sulla porta di casa dei signori Collina a Faenza,
infagottato in un cappotto da ufficiale e ridotto come un barbone.
Non aveva imparato il russo, ma sapeva leggere il futuro sul palmo
della mano. Chissà quale destino era scritto su quella di Sibilla?
Era molto incuriosito dalla visita della scrittrice. Si era alzato
presto, e ciò rientrava nelle sue abitudini, aveva curato la sua
persona, come mai faceva, e da parecchio andava avanti e indietro,
lungo la strada. Non è avvezzo all’attenzione di donne come
l’Aleramo. Si definisce un «masturbatore sentimentale» e di fatto
parla spesso di ancelle angelicate. I suoi incontri femminili sono
altrimenti fugaci, significativi per la sua arte più che per la sua vita. Li
racconta gonfiandoli un po’, come capita in una lettera del maggio
1915 a Soffici, in cui afferma di volersi convertire alla democrazia,
«dopo aver provato il mio amore a una svizzera segantiniana
durante due ore (questo è successo in un caffè con fanciulle, la
conquista mi è costata dieci minuti di discorsi e una lira di affitto della
stanza)». Nell’attesa, rifletteva che nessuno di quanti conosceva
avrebbe potuto immaginarlo lì, ad aspettare quella che era la donna
più bella e amata di Firenze. In molti l’avrebbero invidiato. Era stato
gentile per lettera, perfino malizioso, invitandola a vivere insieme
sotto una tenda. Lei aveva accettato lo scherzo. Dicevano che
conoscesse bene Verlaine e Rimbaud. Si definiva ottima
camminatrice. L’avrebbe messa alla prova.
Sibilla intravede la sua testa di fiamma di fronte all’unica casa
decente, dove si affittano stanze.
L’amore esplode, una «deflagrazione» lo definì quarant’anni
dopo il poeta Mario Luzi, e non c’è parola più appropriata a
descrivere l’incontro.
Barco, con la sua natura solitaria e aspra, quanto sa esserlo
l’Appennino in agosto, fece da cornice, e in quei giorni di magia
irripetuta e irripetibile si realizzò il sogno d’amore, anticipato da Dino
nel suo libro visionario. «Passavano quelle ore di sogno, ore di
profondità mistiche e sensuali che scioglievano in tenerezze i grumi
più aerei del dolore, ore di felicità completa che aboliva il tempo e il
mondo intero.» Furono poche, perché, alla sera di domenica 6
agosto. Sibilla fu costretta a tornare a Borgo San Lorenzo,
ombreggiato dai tigli e dalle querce, per aspettare il rientro
annunciato dei suoi ospiti.
Di là confessa a Raffaello Franchi, suo amante, di essersi
innamorata di Dino e il 10 lo raggiunge a Firenze, per cercare di
consolarlo.
I
sentimenti sovrastano la ragione, almeno a giudicare dalle
lettere colle quali il giovane la tempesta dopo l’incontro. In una di
ben venticinque pagine, con calligrafia minuta e quasi infantile, il
diciassettenne scrittore dice a Sibilla tutto il suo strazio per
l’abbandono. Nello sconvolgimento affettivo, fatto di lampi di felicità
passata e di terrore di solitudine, affiorano intuizioni importanti:
«Quando tu m’ài detto che saresti forse andata a trovare Camp.
[ana], la grande ferita m’à fatto improvvisamente urlare […]. Le tue
parole di quel mercoledì, il giorno avanti della tua partenza, giorno
immenso di gioia e di lutto, soltanto quel giorno le tue parole àn
ridestato in me una forza inespressa ed enorme. Non mi parve
chiaro allora quel che sentii, il dolore che provai: oggi comprendo:
era l’intuizione di quel che doveva ineluttabilmente avvenire […]
forse tu non sapevi, non avevi ancor formulato alcun progetto ma
qualcosa ti chiamava, ti chiamava ineluttabilmente ed io lo sentivo,
Sibilla». In queste parole trova conferma la premeditazione d’amore
messa in atto dalla scrittrice, già al momento in cui aveva scritto la
prima lettera a Campana, che non ha ancora visto la luce dopo
novant’anni e della quale si conosce solo la data. Potrebbe
confermare, se ce ne fosse bisogno, il meccanismo amoroso, quasi
ossessivo, dell’Aleramo. Non era iniziato allo stesso modo l’umiliante
incontro con Boine, appena un anno prima? Era stata lei a farsi viva
con lui, complimentandosi, e a raggiungerlo in occasione di un
viaggio a Sanremo. E la passione per Papini nel 1912? L’aveva
architettata lentamente. Qualcosa la spingeva a interpretare la parte
di Musa dei poeti o l’amore era già diventato per lei una categoria
esistenziale irrinunciabile?
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo