Un ragazzo normale – Lorenzo Marone

SINTESI DEL LIBRO:
L’agente immobiliare è già sotto il
palazzo, lo riconosco da lontano e
sollevo la mano per fargli capire che
sto arrivando. Non mi sfiora neppure
il pensiero che possa non essere lui:
indossa un completo blu sotto un
cappotto dello stesso colore, ha delle
goffe scarpe da ginnastica ai piedi,
una
brutta
cravatta
verde
fosforescente che gli si staglia al
centro della trachea, il colletto della
camicia inamidato che punta verso il
basso, i capelli, né corti né lunghi,
pieni di gel, una cartellina pure
questa verde in una mano, il
cellulare nell’altra, e lo stesso
sorriso spaesato di tanti giovani.
Avrà una ventina d’anni, anche se
cerca di conquistarne qualcuno in
più ostentando sicurezza.
“Russo? Piacere,” dice venendomi
incontro, e mi allunga la mano.
Ricambio la stretta e accenno un
sorriso, lui estrae un mazzo di chiavi
dalla tasca e cerca di capire quale sia
quella giusta. Sono le tre del
pomeriggio di un giorno di febbraio,
manca poco a Carnevale e ci
troviamo in una strada chiusa dietro
piazza Leonardo, al limitare del
Vomero, un quartiere collinare di
Napoli, e la casa che sto per visitare
è una casa che non posso
permettermi. Ma questo, ovvio, non
lo dico. Fa un freddo cane e le
previsioni parlano di probabili
nevicate, anche se la neve a Napoli
non si vede da una vita.
Mentre l’agente mi dà le spalle e
continua la ricerca della chiave del
portone, un gatto rosso che mi fissa
dal tettuccio di un’auto mi ruba un
sorriso malinconico. Di fronte a me
svetta, silenzioso e immobile, il
grande murale che parla di
Giancarlo Siani, su quella parete che
un tempo accoglieva anche il mio
nome, il muro che ha visto tutto.
Poco più in là una volta c’era il
vecchio negozio di lingerie di Nicola
Esposito, al suo posto ora c’è un
meccanico, e nell’angolo dove si
sistemava sempre donna Concetta
per
vendere
le
sigarette
di
contrabbando adesso è affisso un
annuncio funebre con tanto di
soprannome del defunto. Il pensiero
corre veloce a quegli anni della mia
infanzia, quando, fra le tante cose
assurde, collezionavo anche gli
avvisi mortuari.
La saracinesca di quella che una
volta era la salumeria di Angelo,
invece, è abbassata, mentre su quella
del mitico Alberto, il parrucchiere,
oggi campeggia un segnale di passo
carrabile. Qualcuno ha pensato bene
di comprare il locale e infilarci
l’auto, d’altronde la via è stretta e i
posti per i residenti sono pochi.
Negli anni ottanta, al contrario, non
esistevano le strisce e la gente
posteggiava a spina di pesce, anche
se così la strada si restringeva
ancora di più. Ma in fondo, a
pensarci, le auto allora erano più
piccole e non era poi così
complicato venirne fuori. Ricordo
che Angelo, il papà di Sasà, il mio
migliore amico, spesso parcheggiava
in seconda fila ed era costretto a
uscire in fretta e furia dalla sua
salumeria per spostare l’auto; si
lanciava imprecando nella Fiat
Centoventotto e si faceva tutta la
strada correndo in retromarcia, come
se si trovasse in un circuito. Era
bravo a guidare, in effetti, ma vorrei
vederlo oggi, con un ingombrante
Suv, come farebbe a sfrecciare
all’indietro senza beccare qualche
pedone, anche perché noi ragazzini
eravamo sempre lì, appostati dietro a
un’auto, a rincorrerci o a inseguire
un Super Santos.
Una volta mio padre inchiodò la
macchina in mezzo alla carreggiata
dopo che un pallone ci aveva
tagliato la strada. Mamma cacciò un
urlo per lo spavento, lui, invece, si
girò tranquillo verso di me (che
avevo sì e no dieci anni),
rannicchiato sul sedile posteriore, e
sentenziò: “Mimì, ricordati: aropp’
’o
pallone,
guaglione!”.
vene semp’ ’o
Neanche dieci secondi dopo, un
ragazzino attraversò la strada senza
guardare, alla ricerca del suo Super
Santos. Se papà non avesse frenato
in tempo, lo avremmo investito di
sicuro.
“Prego,” dice il giovane agente,
che è riuscito infine ad aprire.
Il meccanico, un uomo con i baffi
e la tuta sporca di grasso, fuma
appoggiato a un’auto e non fa nulla
per dissimulare l’interesse. Gli
sorrido e mi accorgo che il bagliore
oleoso del pomeriggio si riflette
sulla sua fronte bagnata di sudore.
L’atrio del palazzo è più buio e
mesto di un tempo. È che non si
dovrebbe tornare a guardare le cose
che si sono amate, una volta
cambiato lo sguardo. Ma è stato più
forte di me: quando ho saputo della
casa in vendita, non ho potuto
resistere.
“L’appartamento, come le dicevo
al telefono, è al settimo e ultimo
piano,” sta spiegando il giovane
imbalsamato mentre schiaccia il
pulsante per chiamare l’ascensore.
Forse è una questione di luce, ai
miei tempi c’erano due applique alle
pareti che illuminavano l’ambiente;
sarà il riverbero lattiginoso che
proviene dal neon appeso al soffitto
a rendere l’aria asettica e a
mostrarmi una stanza più scura e
modesta.
La casupola del portiere non c’è
più, però restano impressi sulle
riggiole i binari dove il legno si è
retto per decenni. È strano pensare
che queste tre strisce perpendicolari
che seguono il pavimento abbiano
circoscritto lo spazio dove mio padre
ha consumato per tanti anni le sue
giornate. L’ascensore non è ancora
arrivato, perciò ho il tempo di
contare il numero di mattonelle che
rientrano in quel vuoto una volta
recintato dal legno e ora solo dalla
polvere che lascia il tempo quando
smette di scorrere: trenta. Le riconto
velocemente perché la cabina si è
fermata con un clang. Sì, proprio
trenta. E in quei trenta piccoli
quadrati papà ha trascorso gran parte
della sua vita. Io stesso ci ho passato
molti pomeriggi.
Trenta mattonelle che stanno lì a
ricordare
l’essenza
della
mia
infanzia: chiuso nel mio piccolo
mondo, in una piccola casa, una
piccola portineria, soffocato e
tuttavia, allo stesso tempo, protetto,
combattevo ogni giorno alla ricerca
di un po’ di spazio vitale.
Papà imparò presto a farsi bastare
quelle trenta mattonelle.
Io già allora sapevo che me ne
sarebbero servite molte, ma molte di
più.
Inverno
La grande nevicata
dell’ottantacinque
“Uagliò, vammi a prendere la
videocamera, fa ambress’,” disse
mio padre.
“E dove sta?” chiesi serafico,
mentre addentavo un Doemi che mi
si sbriciolava sul maglione e si
mischiava ai nippoli.
Papà non mi guardava, le mani a
lisciarsi i baffi e il volto incollato al
vetro della finestra al di là della
quale si scorgeva la neve che cadeva
copiosa.
“È sul mobile in camera da letto,
sali su una sedia e...” mi scrutò un
attimo e proseguì: “Vado io, non sia
mai cadi da là ’ncopp e si scassa la
videocamera...”.
Quindi si staccò dalla finestra
della cucina e strusciò le pantofole
di feltro fino alla stanza da letto,
l’unica della casa. Mi avvicinai al
vetro sul quale erano ancora
impresse le impronte delle sue dita e
vi poggiai la punta del naso. Non
avevo mai visto la neve, se non in
televisione, nei film, mai dal vivo,
perché a Napoli, nei miei primi
dodici anni, non era mai nevicato.
La miriade di fiocchi che si
rincorrevano silenziosi sotto la luce
del lampione mi ricordava le
farfalline
bianche
che spesso
incontravo al mare e che volavano in
coppia per superarsi a vicenda. La
città,
d’improvviso,
appariva
ovattata e mi sembrava di non
sentire nemmeno più i clacson o le
urla di donna Concetta seduta dietro
al suo bancariello di sigarette che
litigava con qualche automobilista
proprio davanti alla nostra finestra.
Quella sera di gennaio del 1985
vidi la mia città sotto la neve come,
ho poi saputo, non accadeva dal
cinquantasei e come non sarebbe più
accaduto per tanto ancora, e rimasi
ad addentare i biscotti e a osservare
distrattamente i miei, papà con un
occhio nell’obiettivo della sua
supertecnologica telecamera che
aveva “regalato alla famiglia” grazie
alla tredicesima di Natale, e mamma
con la bocca aperta e tutte e cinque
le dita sul vetro ancora umido del
mio alito. Me ne restai lì, nelle
retrovie, insieme ai nonni, finché
non bussarono alla finestra della
camera da letto che affacciava sulla
via: era Sasà, un ragazzetto che da
un po’ di settimane mi ronzava
attorno senza mai, però, venire a
parlarmi.
Indossava
il
solito
giubbino malconcio e un berretto
calato sulla fronte che gli copriva
metà
palpebre.
Sorrideva
mostrandomi le mani violacee che
racchiudevano un mucchietto di
neve
appena
raccolto
dal
marciapiede. Se chiudo gli occhi
posso ancora vedere nitidamente la
sua figura, lo sguardo furbo, posso
sentire la sua voce e il freddo portato
dal vento.
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