Un tempo strano – Joe Hill

SINTESI DEL LIBRO:
DAL fondo del viale o, Shelly Beukes fissava il nostro ranch di
arenaria rosa come se lo vedesse per la prima volta. Aveva addosso
un trench che sarebbe stato più ada o a Humphrey Bogart e portava
con sé una borsa di tela con una stampa di ananas e fiori tropicali.
Avreste de o che stesse andando a fare la spesa, se solo ci fosse stato
un supermercato vicino a casa. Tardai qualche secondo a me ere a
fuoco che cosa ci fosse di strano in lei: si era scordata le scarpe e
aveva i piedi sporchi, quasi neri di sudiciume.
Ero in garage e mi stavo dando alla scienza. Era così che diceva
mio padre quando decidevo di smontare un aspirapolvere o un
telecomando perfe amente funzionanti. Combinavo più danni che
altro, anche se una volta ero riuscito a collegare un joystick a una
radio, così potevo saltare da una stazione all’altra premendo il
pulsante di fuoco: un trucche o stupido, tu o sommato, che però
aveva fa o buona impressione sui giudici al concorso di scienze di
terza media tanto è vero che mi ero guadagnato un nastro azzurro
per la creatività .
La ma ina in cui Shelly apparve in fondo al viale o stavo
lavorando alla mia sparacoriandoli. Aveva l’aspe o di un’arma a
raggi da fantascienza pulp, con una larga bocca di o one
ammaccato, e il calcio e il grille o di una Luger (in effe i, l’avevo
realizzata saldando la campana di una tromba a una pistola
gioca olo). Premendo il grille o suonava un clacson, si accendevano
lucine e si sparavano fuori coriandoli e stelle filanti. Mi ero messo in
testa che, se mi fosse venuta bene, papà e io l’avremmo potuta
proporre a una fabbrica di gioca oli, magari breve arla e farla
vendere per corrispondenza. Come la maggior parte degli ingegneri
in erba, avevo affinato il mio talento con gioche i infantili. In fondo,
tu e le menti di Google hanno fantasticato almeno una volta di
proge are un paio di occhiali a raggi X per sbirciare a raverso le
gonne delle ragazze.
Stavo puntando la canna della sparacoriandoli verso la strada
quando notai Shelly proprio sulla linea di tiro. Misi giù il mio
ridicolo archibugio e la osservai in controluce.
Io vedevo lei, lei non vedeva me.
Da dove si trovava, il garage risultava buio e impenetrabile come
la galleria di una miniera.
Stavo per chiamarla quando notai i piedi scalzi, e la voce mi si
fermò in gola. Rimasi zi o a guardarla per un po’. Shelly muoveva le
labbra, parlando da sola.
La vidi occhieggiare nella direzione da cui era venuta, come se
temesse che qualcuno la stesse pedinando. Ma non c’era nessuno
intorno, solo l’aria umida so o il cielo coperto. Ricordo che tu i i
vicini avevano messo fuori i rifiuti, ma il camion della spazzatura era
in ritardo e la strada puzzava.
Intuii quasi subito che era importante non far nulla che potesse
allarmarla. Non c’era nessuna ragione evidente, ma le nostre idee
migliori nascono a livello inconscio e non hanno niente a che vedere
con la razionalità . La parte istintiva del cervello ricava una gran mole
di informazioni da minimi de agli di cui nemmeno ci rendiamo
conto.
Perciò, quando percorsi il viale o in pendenza, infilai i pollici
nelle tasche e non la guardai in faccia. Tenevo gli occhi rivolti
all’orizzonte, come se seguissi il volo di un aereo in lontananza. Mi
avvicinai a lei come si fa con un cane randagio zoppicante, che
potrebbe leccarti la mano con affe uosa speranza, ma anche saltarti
addosso digrignando i denti. Non le rivolsi la parola finché non fui a
un passo da lei.
«Salve, signora Beukes», la salutai, fingendo di vederla solo in
quel momento. «Tu o bene?»
Lei si voltò verso di me. Il viso tondo assunse all’istante
un’espressione piacevolmente benevola. «Be’, sono un po’
so osopra! Sono venuta sin qui, ma non so perché! Non è il giorno
delle pulizie!»
Questa non me l’aspe avo.
Molto tempo prima, ogni martedì e venerdì per un totale di
qua ro ore alla se imana, Shelly era venuta da noi a me ere in
ordine la casa, passare l’aspirapolvere e lavare i pavimenti. Aveva giÃ
una certa età , ma era veloce e vigorosa quanto un olimpionico di
curling. Il venerdì poi ci lasciava un vassoio di bisco i morbidi ai
da eri avvolto nella pellicola trasparente. Accidenti, quanto mi
piacevano. Non si trova più niente di simile in giro, neanche una
crème brûlée del Four Seasons è così buona con il tè.
Ma in quell’agosto del 1988, quando mi mancavano appena un
paio di se imane per andare al liceo, era passata metà della mia vita
da quando Shelly aveva smesso di fare regolarmente le pulizie a casa
nostra. Dopo il suo triplo by-pass di sei anni prima, il medico le
aveva consigliato di prendersi un po’ di riposo e lei l’aveva fa o.
Allora ero troppo piccolo per rifle erci, ma forse mi sarei potuto
chiedere perché venisse a lavorare da noi. Non è che le mancassero i
soldi.
«Signora Beukes? Papà le ha chiesto di venire a dare una mano a
Marie?»
Marie era la ragazza che aveva preso il suo posto: poco più che
ventenne, robusta e non troppo sveglia, rideva forte e aveva un
fondoschiena a forma di cuore che mi ispirava fantasie per le
cerimonie manuali no urne. Non immaginavo però perché mio
padre pensasse che Marie avesse bisogno di aiuto. A quanto ne
sapevo, non aspe avamo ospiti. Non ero nemmeno sicuro che ne
avessimo mai avuti.
Il sorriso della donna vacillò per un a imo. Controllò di nuovo la
strada dietro di sé. Quando tornò a guardarmi, il buonumore era
quasi svanito dal suo volto. Aveva gli occhi spaventati.
«Non lo so, figliolo… dimmelo tu! Dovevo pulire la vasca da
bagno? Non ho fa o in tempo la scorsa se imana ed è proprio
sporca.»
Tastò la borsa, borbo ando tra sé. Quando alzò lo sguardo, serrò
le labbra in un’espressione frustrata. «Porca vacca, sono uscita senza
p
prendere quel cazzo di pulitore.»
Trasalii. Non mi sarei potuto stupire di più se avesse spalancato il
trench mostrando di essere tu a nuda. Shelly Beukes non era certo
l’immagine della vecchia signora d’altri tempi – me la ricordavo
quando puliva casa con indosso una T-shirt di John Belushi – ma
non l’avevo mai sentita dire «cazzo». Persino «porca vacca» era più
volgare delle sue espressioni consuete.
Lei non fece caso alla mia sorpresa e riprese a parlare. «Di’ a tuo
padre che alla vasca ci penso domani. Mi bastano dieci minuti per
lucidarla come se nessuno ci avesse mai ficcato il culo dentro.»
La borsa di tela era mezzo aperta e ne intravidi il contenuto: un
nane o da giardino sporco di terra, qualche la ina vuota, una scarpa
da ginnastica vecchia e malconcia.
«Sarà meglio che torni a casa», concluse lei di punto in bianco, in
tono meccanico. «L’Afrikaner si chiederà dove sono finita.»
Si riferiva a suo marito Lawrence, immigrato da Ci à del Capo
prima che io nascessi. A se ant’anni, Larry Beukes era uno degli
uomini più robusti che conoscessi, un ex sollevatore di pesi con
braccia scolpite e turgide vene sul collo. Essere un omone era stato la
sua fortuna professionale: aveva fa o i soldi aprendo una catena di
palestre alla fine degli anni Se anta, proprio quando i muscoli oliati
di Arnold Schwarzenegger sconvolgevano l’immaginario colle ivo.
Una volta erano persino apparsi entrambi sullo stesso calendario:
Larry nel mese di febbraio, che fle eva i muscoli sulla neve con
indosso soltanto un reggipalle nero; Arnie in giugno, su una
spiaggia, con una ragazza in bikini appollaiata su ciascuna delle
enormi lucide braccia.
Shelly si diede un’ultima occhiata alle spalle, poi strascicò i piedi
in una direzione che l’avrebbe portata ancora più lontano da casa
sua. Si scordò di me appena si voltò. Me ne accorsi da come la faccia
le diventò inespressiva, mentre riprendeva a muovere le labbra
ponendosi domande silenziose.
«Shelly! Ehi, volevo chiedere al signor Beukes se… riguardo…»
Cercai di inventarmi qualcosa di cui avrei potuto discutere con
Larry. «Se per caso gli serve qualcuno che gli falci il prato! Ha un
sacco di cose più importanti da fare, no? Le spiace se vengo a casa
p
p
p
g
con lei?» Allungai la mano verso il suo gomito e l’agganciai prima
che si allontanasse troppo.
Lei sussultò nel vedermi, come se l’avessi assalita a tradimento,
poi mi rivolse un sorriso di sfida. «È tanto che glielo dico di prendere
qualcuno per tagliare il… il…»
Gli occhi le si appannarono. Non ricordava più che cosa si
dovesse tagliare. Alla fine scosse il capo e proseguì: «… il coso. Torna
a casa con me. E… lo sai?» Mi diede una lieve pacca sul dorso della
mano. «Credo di avere qualcuno di quei bisco i che ti piacciono
tanto!»
Ba é le palpebre e per un istante fui certo che sapesse chi ero e,
sopra u o, sapesse chi era lei. Era tornata lucida. Poi ripiombò nella
confusione, glielo lessi in faccia. Sembrava una lampada quando un
variatore la riduce al minimo dell’intensità .
Così l’accompagnai a casa.
Mi spiaceva per i suoi piedi scalzi sull’asfalto bollente. C’era afa e
le zanzare erano in caccia. Dopo un po’ notai che aveva il viso
arrossato e un velo di sudore sui baffe i da vecchia signora. Pensai
che si dovesse togliere il trench, ma devo amme ere che ormai
temevo che so o fosse davvero nuda. Disorientata com’era, non si
poteva escludere. Cercai di ignorare il mio imbarazzo e le chiesi se
potessi portarle il soprabito. Lei scosse rapida la testa. «Non voglio
che mi riconoscano.»
Era una risposta così assurda che per un a imo dimenticai la
situazione e reagii come se Shelly fosse ancora se stessa, una donna
di buon senso che andava ma a per i telequiz e puliva il forno con
brutale determinazione.
«Chi?» domandai.
Lei si protesse verso di me e rispose quasi sibilando: «L’Uomo
Polaroid. Quello stronzo in decappo abile che sca a foto quando
non c’è l’Afrikaner. Non so quanto mi abbia portato via con quella
sua macchina fotografica, ma non voglio che si prenda altro.»
Mi afferrò il polso. Era ancora una donna corpulenta, ma la mano
era ossuta come quella di una strega delle favole. «Non lasciare che
ti faccia una foto. Non lasciare che cominci a portar via le cose.»
«Ci starò a ento. Ma davvero, signora Beukes, starà cuocendo con
indosso quel soprabito. Glielo porto io e staremo a enti se si vede
quel tipo. Può sempre rime erselo, se lo vediamo comparire.»
Shelly alzò la testa e mi scrutò, come se studiasse le scri e in
piccolo in calce a un contra o poco affidabile. Infine tirò su con il
naso, si sfilò il voluminoso trench e me lo porse. So o non era nuda,
ma indossava un paio di pantaloncini neri da ginnastica e una
maglie a a rovescio e al contrario, con il disegno all’interno e
l’etiche a che le pendeva so o il mento. Le gambe nodose erano di
un biancore inquietante. Mi misi sul braccio il soprabito sudaticcio e
spiegazzato, la presi per mano e riprendemmo il cammino.
Le strade di Golden Orchards, la nostra piccola zona residenziale
a nord di Cupertino, erano un labirinto di curve senza neanche una
linea re a. Le case a prima vista erano un’accozzaglia di stili: qui una
spagnolesca intonacata di bianco, là una coloniale in ma oni. Ma
dopo un po’, bussando alle porte, si scopriva che erano tu e più o
meno identiche, nella pianta, nel numero dei bagni, nelle finestre,
solo «travestite» in modo diverso.
Quella dei Beukes era in stile finto vi oriano, con un tocco da casa
al mare: conchiglie incastonate nel cemento del viale o e una stella
marina sbiadita sopra la porta. Le palestre di Larry si chiamavano
forse Neptune Fitness o Atlantic Athletics? O era un’allusione ai
macchinari Nautilus usati per il bodybuilding? Non me lo ricordo
più. Rammento molti de agli di quel giorno, il quindici agosto del
1988, ma non quello.
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