Troppi diritti – L’Italia tradita dalla libertà – Alessandro Barbano

SINTESI DEL LIBRO:
La mala ia si diagnostica dai sintomi. Il primo sintomo è la crisi
della delega. Affligge l’intero edificio della democrazia occidentale.
Ma qui, in Italia, ha un cara ere cronico che ne fa tu ’uno con il
corpo malato del Paese. Perciò parlarne è più difficile, tanto è
lontano oggi il conce o di delega dall’idea che ne ha una parte degli
italiani. La stessa difficoltà incontrò Edmund Burke, uno dei primi
liberali europei, quando provò a spiegarlo per la prima volta agli
ele ori di Bristol nel 1774: «Il Parlamento non è un congresso di
ambasciatori di opposti interessi» disse. «È invece un’assemblea
deliberante di una nazione con un solo interesse, quello dell’intero.»
La delega per l’intero era libertà. Era l’essenza della sovranità
politica che si fonda sul voto e da questo riceve la sua forza. Era il
modo con cui noi abbiamo organizzato e concepito lo sviluppo della
civiltà da quando la democrazia ha fa o irruzione nella storia
umana, insinuandosi nei processi di formazione delle decisioni in
Occidente, e piano piano affermandosi in forme prima imperfe e, e
poi sempre più perfe ibili, ma in quanto perfe ibili altre anto
imperfe e. Perché la coscienza della perfezione della democrazia
coincide con il senso della sua imperfezione.
Sennonché è proprio la delega per l’intero di cui parlava Burke
che è andata perduta. Se n’è accorto, due secoli dopo, David
Cameron. Il primo ministro inglese, rientrato da Bruxelles dopo aver
tra ato le condizioni perché il Regno Unito restasse in Europa, è
stato smentito a Londra da sei ministri del suo gabine o. Da qui
bisogna partire per capire la capitolazione di Brexit. Che, al ne o
della inadeguatezza del leader conservatore, è figlia della
drammatica difficoltà di rendere stabili e prevedibili le scelte fondate
su significati condivisi, e di conciliare il dissenso su una singola
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questione con la difesa del vincolo di appartenenza al gruppo. È crisi
della delega, che per un processo di propagazione mediatica si è
proie ata da Downing Street in ogni periferia del Paese.
In Italia la delega per l’intero si sfarina insieme con l’archite ura
di partiti e corpi intermedi, in cui una diversità di vedute produce
divisioni, quando non frantumazioni. Brucia su una pubblica piazza
dove tu i vociano per sé, tra i fumi suggestivi della democrazia
dire a. Una crisi di fiducia si è impossessata degli uomini e delle
istituzioni. La diffidenza è diventata la cifra del rapporto tra gli
italiani e il potere. La nutre una retorica politica che alza una nebbia
f
i a sulle contraddizioni del suo pensiero. Così si può allo stesso
tempo ergersi a difensori in toto della Costituzione e ignorare ciò che
essa prescrive all’articolo 67: ogni membro del Parlamento
rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di
mandato.
«Senza vincolo di mandato» vuol dire autonomia. Autonomia
perfino di prome ere nel proprio collegio ele orale e tradire a
Montecitorio. Salvo poi essere ricusato nelle urne alla scadenza della
legislatura. È la stupenda imperfezione della democrazia. È la
meraviglia della delega. In nome e per conto, ma libera nei fini. In
rapporto con gli interessi, ma capace di mediare tra questi, in un
esercizio di sintesi. E di sovranità.
Non piaceva, la delega, ai comunisti toglia iani. Nel dopoguerra
imponevano ai propri parlamentari neoele i la firma delle
dimissioni in bianco, da utilizzare nel caso fossero mancati al vincolo
di obbedienza agli ordini del partito. Non piace a Grillo e ai suoi
giovani seguaci, che studiano da tempo contra i e penali con cui
trasformare i rappresentanti in mandatari della volontà della Rete. E
dei loro personali diktat.
Ma la crisi della delega che ha infe ato la democrazia italiana va
oltre i ta icismi del populismo nazionalpopolare. È più ampia e
comprende anzitu o il sapere. Sempre meno condiviso e sempre
meno capace di rappresentare la dorsale della cultura civile del
Paese. Lo sfarinamento della cultura civile corre parallelamente alla
crisi del conce o di autorità. Nell’accademia, nelle professioni, prima
ancora che nella politica e nella società.
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Un tempo la trasmissione del sapere seguiva il canale verticale e
gerarchico dell’organizzazione sociale. Il barone universitario
cooptava il suo assistente. Ma per quanto arbitraria potesse essere la
sua scelta, coincideva con un’assunzione di responsabilità. La
geografia del sapere orizzontale e disintermediato ha prodo o
un’eterogenesi dei fini: anziché ancorare la responsabilità alla qualità
e a un controllo democratico, l’ha frantumata in una miriade di
passaggi procedurali in cui l’elemento umano della scelta è andato
scemando. L’effe o di questo processo è che, sopra u o in Italia,
non riusciamo a distinguere e selezionare il merito. Il sapere scollato
dalla scala gerarchica è sogge ivo. Non più appannaggio del
sapiente e non più giustificato dal sapiente. La sua fonte di
legi imazione è puramente quantitativa. Coincide con un consenso
che somiglia a un consumo. Ha il volto di tanti clic interne iani.
Tanti «mi piace», ma non so e non devo dire perché.
II
IL SAPERE SENZA SAPIENTI
Nel 1990, dopo che Donadoni e Serena tirarono due rigori tra le
braccia del portiere argentino Goycochea nella semifinale di Napoli,
i
giornali sportivi iniziarono a interrogarsi sulla perdita di le ori
seguita alla delusione del Mondiale italiano. Un grande gruppo
editoriale affidò una ricerca di mercato al sociologo Giampaolo
Fabris, di recente scomparso. Questi spiegò ai giornalisti, convocati
dall’ufficio marketing, le ragioni dello stillicidio di copie: e cioè, in
primo luogo il cambiamento d’umore di una società passata
dall’euforia ludico-edonista degli anni Oanta a un ripiegamento su
di sé in cui c’era meno spazio per il calcio; e, in secondo luogo la
concorrenza della televisione, che con la sua tempestività modificava
la domanda di informazione dei le ori e imponeva ai quotidiani di
reinventare i propri modelli narrativi. Al termine dell’esposizione, lo
studioso chiese se qualcuno avesse domande da fare. Il dire ore del
giornale, che pure era persona dotata di sensibilità e cultura, si
rivolse d’autorità ai suoi giornalisti e disse: «Be’, ragazzi, adesso
andiamo a lavorare». Il sociologo e gli stessi vertici aziendali del
gruppo ne furono contrariati. Chi scrive era tra quei giornalisti e
comprese per la prima volta che cosa fosse la «valutazione» e quanto
fosse estranea all’esperienza del suo mondo.
Questa memoria torna per contrasto in un tempo in cui la
«valutazione» sembra una mitologia del presente, una sorta di rice a
unica, buona per la scuola, l’università, le professioni, la pubblica
amministrazione e la politica. Un teorema che, dovunque sia
adoperato, garantisce efficienza. Eppure, di primo acchito ti accorgi
che qualcosa è cambiato. La valutazione che proponeva Fabris era
pensiero critico, esterno a ciò che giudicava, dire o a smascherare
quei falsi simulacri che ogni tribù adora, e la tribù dei giornalisti non
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si so raeva al rito. La valutazione che occupa oggi tu e le posizioni
possibili, nei se ori più disparati in cui si insinua, surroga i singoli
saperi e svolge una supplenza che espropria i valutatori del proprio
ruolo e delle proprie prerogative. Così le branche della conoscenza,
dalla le eratura alla scienza, dalla matematica alla medicina, sono
affiancate e lentamente sostituite da una tecnica di misurazione
rigida e capillare, che ruota a orno a poche coordinate logiche. Un
sociologismo malato sta espropriando la cultura della maestà del suo
sapere.
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