The Perfect Game – Francesca Redeghieri

SINTESI DEL LIBRO:
Era da più di un’ora che Archer si stava facendo oscillare sulla
vecchia sedia a dondolo posta sotto il portico della casa di Butch. Il
sole stava tramontando all’orizzonte e tante piccole lucine erano
state agganciate alla veranda di legno, sprigionavano bagliori
splendenti, simili a lucciole intente a salutare la sera in arrivo.
Un piccolo tornado gli corse incontro e lo tramortì, saltandogli sulle
ginocchia, tanto da rischiare di farlo cadere dalla sedia
scricchiolante.
«Ehi, piccola D, attenta!» disse Archer, afferrando la bambina per i
fianchi avvolti in un paio di pantaloncini gialli. «Che combini?»
«Io ho fame, papà mi ha mandato a chiamarti» gli disse Dizzy
Dean, guardandolo con i suoi profondi occhi blu.
Il cuore dell’uomo si sciolse dinanzi a quella creatura meravigliosa,
che era la figlia di Dillon e Rafe.
Il
sole era un’aureola infuocata; raggi indistinti scintillavano
attraverso gli alberi frondosi, proiettando bagliori e ombre nell’aria
che profumava d’estate.
Archer sorrise e, accarezzandole i capelli, si sollevò dalla sedia a
dondolo. «Allora, rimediamo subito!» La tenne tra le braccia e scese
dalla veranda. Girarono intorno alla casa, dirigendosi sul retro dove
era in atto un barbecue.
«Ehi, Cowboy!» gridò Rafe, sollevando la pinza con cui stava
girando la carne sulla griglia. «Vedo che Didi è riuscita a trovarti.»
Archer depose a terra la bimba, che corse via come un piccolo
furetto, raggiungendo la madre e il fratellino sdraiati sulla trapunta
posta accanto alla casetta sull’albero. Con un paio di falcate,
raggiunse Rafe e gli mise una mano sulla spalla, sorridendo. «Hai
bisogno di aiuto, Baseball?»
«No, è tutto sotto controllo e tra un po’ avrai l’onore di mangiare gli
hamburger più buoni del Vermont.»
Un sorriso si distese sulle labbra di Archer ma, prima che riuscisse
a rispondergli, la voce tonante dello zio Butch richiamò la sua
attenzione. «Archer, qualcuno ha bisogno di te!» gli gridò.
Il cowboy, con passo svelto, attraversò il prato, saltò i gradini con
un unico balzo e si diresse verso l’ingresso. Intravide sul fondo del
portico un uomo in giacca e cravatta che, con fare esasperato,
cercava di allentarsi il colletto della camicia con una mano, mentre
con l’altra si faceva aria sul viso accaldato e smunto. Portava un
paio di occhiali dalle lenti spesse e, dietro di esse, si nascondevano
due occhi da insetto.
«Salve» disse Archer avvicinandosi.
L’uomo si aggiustò gli occhiali sul naso, scrutandolo con
attenzione. «Archer Ripley?»
«Sono io» rispose lui, compiendo l’ultimo passo che li separava.
L’uomo si piegò in avanti ed estrasse da una borsa che aveva
appoggiato a terra un’enorme busta gialla; gliela porse, schiarendosi
la voce. «È convocato, tra tre giorni da oggi, nello studio notarile
Willegam di Rochester.»
Il cuore di Archer si fermò all’improvviso quando sentì il nome di
quella città mai del tutto dimenticata, percepì i suoi battiti impazziti,
mentre sfilava la busta dalle dita lunghe e scarne dell’uomo.
I pensieri iniziarono a vorticargli in testa selvaggiamente.
Alzò lo sguardò e scrutò oltre le lenti dell’altro; erano tanto spesse
che parevano fondi di bottiglia e rendevano i suoi occhi grandi e
scuri come quelli di una mosca. Strinse la busta tra le dita e deglutì
le schegge di vetro che gli raschiavano la gola.
«Troverà tutte le indicazioni che le servono all’interno dell’atto di
convocazione.» L’uomo si piegò appena sulle ginocchia e si
congedò, raccogliendo la borsa da terra. «Arrivederci, signor
Ripley.»
Archer guardò l’uomo, avvolto nel suo completo scuro, allontanarsi
lungo il viale ghiaiato e scomparire una volta salito in macchina.
Non riuscì a muovere un muscolo, perché ciò che stava stringendo
tra le mani lo spaventava.
Era curioso di sapere cosa contenesse la busta ma, al contempo,
aveva paura di scoprire qualcosa che sicuramente l’avrebbe fatto
soffrire; nonostante fossero passati sei lunghi anni, sentiva ancora
un coltello affondato nel petto che lo straziava ogni giorno. Portava
sulle spalle un grosso fardello, un’ammenda che non sarebbe mai
riuscito a risarcire e, in quell’attimo, il passato arrivò prepotente,
torcendogli le viscere al punto che le sentì arrampicarsi fin nel petto
dove, perfide, gli stritolarono il cuore.
Con movimenti lenti aprì la busta, scollandone i lembi, ed estrasse
un foglio dattiloscritto. Poche righe e capì all’istante che era la
convocazione per la lettura di un testamento.
Si lasciò cadere sui gradini della veranda e, sedendosi, si strinse la
testa tra le mani, afferrando tra le dita le ciocche scure dei suoi
capelli. Le tirò, mentre un dolore pungente lo colpiva e un tuono gli
rombò tra le costole.
Lui, l’uomo che più di tutti l’aveva aiutato nella vita, raccogliendolo
dalla strada come fosse stato un gatto randagio che nessuno voleva,
era morto.
Il respiro gli si mozzò nei polmoni, ostruito da un macigno grande
quanto l’intero stato del Vermont. In un attimo, Archer sentì la sua
anima che si spezzava, crollò allo stesso modo di un enorme
castello di cartapesta e il rimpianto lo trapassò al pari di un coltello
smussato.
«Ehi, amico, tutto a posto?» domandò Rafe, arrivandogli davanti.
Non ebbe nemmeno la forza di sollevare lo sguardo. «No.» Non
riuscì a dire altro, così gli allungò il foglio che, senza neanche
accorgersene, stava stropicciando tra le dita.
«Che cos’è?» chiese Rafe, poi senza fare altre domande iniziò a
leggere. «È una convocazione per un atto notarile?»
Archer chiuse gli occhi e alzò la testa verso il cielo, si lasciò
scaldare dai raggi estivi che trapassavano le fronde degli alberi,
trafiggendolo in volto. Cercò d’ingoiare il groppo doloroso che,
all’improvviso, gli aveva ostruito la gola.
Era una tortura pulsante che sembrava voler dissanguare il suo
cuore.
«Chiunque sia questo Patrick Walsh, sei nel suo asse ereditario.»
Rafe sollevò lo sguardo dal foglio e si avvicinò ad Archer, sedendo
accanto a lui sui gradini. «Chi è quest’uomo? Credevo non avessi
parenti.»
Il cowboy venne colto da una strana frenesia alle gambe, si sollevò
di scatto e iniziò a camminare avanti e indietro davanti all’amico.
Lesse curiosità nello sguardo di Rafe. «Infatti non ne ho»
sentenziò infine. Si portò le mani sui fianchi e inspirò una lunga
boccata d’aria, prima di rivelare le verità che aveva sepolto nel
cuore, sotto tonnellate di sensi di colpa e rammarichi. «Era il padre
di mia moglie.»
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