The game – Lucia Vaccarino

SINTESI DEL LIBRO:
I giochi le piacevano perché avevano delle regole, e bastava seguirle
per far andare tu o bene. Cioè, poi si poteva vincere o perdere, ma
sempre in modo chiaro e ordinato. Tu o il contrario della vita reale.
Lì le regole non c’erano proprio. Oppure, quando c’erano, non
funzionavano mai.
«Su, su, Cece. Non fare quella faccia.»
«Quale faccia?»
«Lo sai.»
Cece staccò la testa dal finestrino dell’auto e si voltò verso il papà
al volante. Sorrideva. Sorrideva, però aveva certe borse nere so o gli
occhi, e le mani stringevano lo sterzo così forte che stavano
diventando azzurrine.
«È solo per poco tempo.»
«Non è vero» rispose lei.
Un uomo non vende la sua casa e tu i i suoi mobili, e acce a un
nuovo lavoro dall’altra parte del mondo, “per poco tempo”. Uno fa
una cosa del genere se ha deciso di andarsene e non tornare mai più
indietro. Ed era stata questa, la decisione di papà.
«Ti ho già spiegato come funziona» mormorò piano, come per
convincere se stesso più che lei. «Vado lì e capisco com’è. Se il posto
è bello, e il nuovo lavoro mi piace, ed è tu o okay, allora comincerò
subito le pratiche per farti venire. Potresti finire l’anno scolastico di
là.»
“Di là” significava in America. In Colorado. A Denver. Dove lui
stava per trasferirsi abbandonando Cece al suo destino.
«Se invece capisco che non funziona, mollo tu o e torno. Mi
cercherò un altro lavoro qui in Francia e, comunque, saremo di
nuovo insieme.»
Staccò gli occhi dalla strada per rivolgerle un sorriso rassicurante.
«È davvero solo per poco. E nel fra empo…»
Stava per aggiungere “sono sicuro che starai benissimo”, ma si
morse il labbro appena in tempo. Meglio per lui, perché Cece
avrebbe potuto sbranarlo. Non era mai stato molto bravo a mentire.
La stava mandando all’inferno, e lo sapeva.
«È stata molto contenta, sai?»
Ora il papà si riferiva a Denise. Cioè la mamma di Cece.
«Penso che abbia preparato camera tua da almeno un mese. Non
vede l’ora di rivederti.»
«Se voleva vedermi, poteva restare con noi.»
«Lei… io… noi…» Il papà sospirò. La guardò di nuovo. «Sei
abbastanza grande per capire certe cose. La mamma ha passato un
bru o periodo. Ma ora va meglio.»
Come se questo potesse me ere a posto le cose fra loro. Cece non
aveva nessuna intenzione di rivederla. Né di andarci a vivere
insieme. Né di lasciare la sua scuola, e tu i i suoi amici, per
trasferirsi in quel paesino dimenticato di cui non riusciva a ricordarsi
neanche il nome.
«Andrà tu o bene» mormorò il papà, con un debole sorriso. «E
comunque è per poco tempo.»
Cece sbuffò e allungò la mano per alzare al massimo il volume
dell’autoradio.
mer : 16 : 07 : 23
gg h min sec
Il paese era ancora più piccolo di come se l’era immaginato.
Iniziava con una strada alberata e un cartello bordato di rosso
mezzo coperto dai rami. Più avanti comparivano alcune case,
facciate di ma oni rossi e te i spioventi ancora più rossi, finestre
orlate di bianco, steccati grigi. Alla prima rotonda c’erano un
distributore di benzina, un caffè e quello che sembrava l’ufficio
postale. Alla seconda rotonda c’era uno spiazzo su cui si
affacciavano una chiese a grigia con il campanile squadrato e un
palazzone lungo a forma di artiglio. Doveva essere la scuola.
Poi altre case, un ristorantino con un vaso di fiori all’ingresso.
Fine.
«Non è un posto incantevole?» disse suo padre, gridando sopra il
volume assordante della radio. «Sono sicuro che ti troverai
benissimo.»
Cece evitò di rispondere. Le sembrava di non avere mai visto
niente di più disgustoso. Non voleva stare lì, voleva tornare a casa
sua. Quella che suo padre aveva appena venduto a una coppia di
gentili signori polacchi, che si erano trasferiti in Francia e volevano
me er su famiglia. Così avevano de o. E per me er su famiglia,
c’era proprio bisogno di impadronirsi di casa sua?
La macchina uscì dal paesino e svoltò in una strada secondaria,
quindi inforcò un sentiero sterrato tu o curve. Schizzi di fango
macchiarono i finestrini come lacrime.
«Ecco» disse il papà. «Siamo arrivati.»
E fermò la macchina.
Cece si guardò ostinatamente le mani per qualche secondo, prima
di alzare gli occhi e puntarli oltre il finestrino. Non aveva nessuna
voglia di vedere la casa di Denise. O meglio, la casa dei nonni: era
diventata di sua madre solo perché i nonni erano morti da poco. Una
delle ragioni per cui la donna aveva passato un “bru o periodo”,
così bru o che non aveva telefonato a Cece per duecentoventuno
giorni esa i e non le aveva fa o nemmeno gli auguri di compleanno
o di Natale. Non che a lei piacesse il Natale, comunque.
Cece la guardò con disgusto. Era un incrocio tra una fa oria e un
castello degli orrori.
Sembrava fa a di cinque case e diverse schiacciate insieme, tu e
di altezze differenti e tu e con il te o spiovente inclinato in una
direzione a caso. Erano disposte grossomodo a forma di L a orno a
un cortile centrale pieno di erbacce. A un’estremità c’era un capanno
sbilenco circondato di a rezzi agricoli arrugginiti, sacchi di sabbia e
una catasta di legna mezzo crollata.
g
Dall’altro lato c’era un’alta te oia di lamiera.
In un punto il te o era sfondato e i vetri ro i delle finestre del
primo piano erano stati rappezzati con ritagli di cartone.
Si sarebbe de a una casa abbandonata, se non fosse stato per il
f
ilo di fumo che usciva da uno dei comignoli, e per la macchina di
Denise, una vecchia Citroën Saxo, parcheggiata di traverso so o la
tettoia.
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