Tempi duri per i romantici – Tommaso Fusari

SINTESI DEL LIBRO:
Il piccolo ventilatore puntato a velocità tre mi stava escludendo
temporaneamente dal suo raggio d’azione, mentre le primissime luci
del ma ino filtravano dai buchi delle tapparelle abbassate. Le
lenzuola mi coprivano solo la gamba sinistra, tu o il resto del mio
corpo elemosinava un accenno di brezza.
Guardai la sveglia, erano le se e e mezzo. Accanto a me, Michela
dormiva sdraiata a pancia in su, il seno nudo che si sollevava
imperce ibilmente a ogni respiro, le lenzuola che la coprivano fino
all’ombelico. I nostri vestiti giacevano sparsi sul pavimento, i calzini
chissà dove.
Il camioncino della ne ezza urbana passò so o la finestra per
svuotare i cassone i, facendo un fracasso infernale. Sentii Michela
muoversi appena ed ebbi la strana e irresistibile tentazione di
mandare un messaggio al mio capo e chiedergli se potessi aprire il
negozio con due ore di anticipo. La stanza odorava di crema solare e
sudore, le mie mani sulla mia pancia leggermente appiccicosa e
lucida, mani che avrebbero dovuto cercare qualcosa, quelle di
Michela, i suoi capelli, una te a, il fianco morbido. Qualcosa.
Qualunque cosa.
Il coprimaterasso si era sfilato all’altezza dei due angoli del mio
lato del le o. Era una cosa che mi aveva sempre dato fastidio, ogni
volta che lo rime evo a posto non era mai come prima, non
ritornava tu o liscio e dava chiaramente l’impressione che si sarebbe
sfilato di nuovo alla prima girata su un fianco. Succedeva che
rime evo a posto un angolo, poi mi occupavo dell’altro e, nel
tentativo di rime ere bene anche quello, ecco che il primo si sfilava
di nuovo. Come se mi avessero ingrandito il le o durante la no e.
Con Michela succedeva più o meno la stessa cosa.
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Ogni tanto le voltavo le spalle e la sentivo scivolare via. Lei
cercava ogni volta di rime ersi a posto, ma non riusciva mai a
coprirmi tu o, rimanevano sempre delle parti di me scoperte. Non
combaciavamo.
E allora che diavolo ci facevo lì? Cosa ci facevo in una stanza
dall’altra parte di Roma con in so ofondo il rumore di bo iglie di
vetro che venivano rovesciate dentro un gigantesco container di
ferro, mentre già in strada c’era un gran via vai di macchine e
clacson?
Michela. Ci aveva fa i incontrare il mese di agosto di quasi un anno
prima.
In realtà già ci conoscevamo, ma ci limitavamo a salutarci, quello
lo facevamo benissimo, i maghi del “ciao come stai?”.
Ci ritrovammo a scambiarci i numeri di telefono e a scriverci nel
bel mezzo della mia routine estiva solitaria e stranamente piacevole.
Ci sentivamo sempre dopo le sei di sera, dopo aver passato gran
parte del pomeriggio dentro casa con le tapparelle abbassate e il
soggiorno in penombra e l’aria condizionata e i film degli anni
Novanta ritrasmessi in tv, quelli con Jerry Calà e Lino Banfi, le
notizie di calciomercato, la Roma che anche quell’anno puntava un
a accante che prome eva grandi cose e alla fine avrebbe avuto una
media gol misera.
Ci incontravamo verso le nove e mezzo dieci, quando Roma era
deserta e i parcheggi abbondavano persino sul Lungotevere, persino
a Ponte Milvio.
La prima volta fu a piazza Trilussa. Michela era molto bella, i
pantaloncini di jeans e una maglie a un po’ larga con una spalla
calata, le converse nere coi lacci bianchi. Camminammo un sacco,
prendemmo una birra in bicchiere di plastica al “Ma che siete venuti
a fa’”, un locale lì vicino, appena addentrati nei vicoli. Ogni tanto ci
arrivavano le foto dei nostri amici in vacanza, quelle dei miei amici
erano tu e di culi in discoteca, quelle dei suoi erano selfie e
paesaggi, e drink. Eppure a noi quella Roma piaceva, un sacco di
turisti, donne alte e bionde che parlano in tedesco, americani pallidi
e vistosamente sco ati, qualche italiano che come noi non era
partito.
Camminammo tantissimo, parlando di cose stupide, e
rallentammo quando la discussione si fece interessante, le uscì un
laccio dalla scarpa, si aggrappò al mio avambraccio per tenersi in
equilibrio su una gamba e rime erlo al suo posto, tu o molto
spontaneo, tu o molto semplice.
Nei giorni seguenti, sempre più spesso, andammo a fare la spesa
insieme nelle ore morte, rimanendo molto tempo al reparto surgelati
a goderci il fresco, ognuno col suo carrello, io che prendevo la carne,
lei i Cuccioloni, io i pacchi di pasta, lei i sofficini.
La prima volta che andai a prenderla, usai il navigatore per
arrivare a casa sua e lo feci sparire prima che lei scendesse, per farle
credere che conoscevo esa amente la zona in cui abitava, che ero un
veterano delle strade. Aveva i capelli neri che profumavano di
f
iordila e con un retrogusto di crema doposole. Mi disse tu a
esaltata che finalmente si era abbronzata, in realtà aveva il colore
delle Big Babol alla fragola. Già me la vedevo quella no e, stesa sul
le o, con la schiena contro il muro fresco, nel tentativo di ricevere un
po’ di sollievo, rigirare il cuscino come una bistecca, alla ricerca del
lato meno caldo. Michela sembrava la rivoluzione di cui questo
Paese aveva decisamente bisogno.
Aveva un piccolo neo sulla te a destra, lo colsi di sfuggita mentre
si guardava nello specchie o per controllare l’eyeliner. Viaggiammo
con i finestrini abbassati, ma il semaforo rosso interruppe la nostra
corsa. Vicino a noi, un chiosco di fiori gestito da un piccolo indiano.
L’ome o ci guardò, si avvicinò.
«Amigo, prendi fiori per bella ragazza» mi disse.
«Sono fiori di zucca?» chiese Michela. Il piccolo omino indiano la
guardò senza capire, mantenendo il sorriso.
«Come non de o» gli disse educatamente. Il semaforo divenne
verde e ripartimmo. Arrivammo ai Fori Imperiali, al Colosseo
illuminato, c’era umidità nell’aria. Michela aveva la fronte un po’
lucida, gli occhi nerissimi, si sede e sul mure o e io mi sdraiai
appoggiando la testa sulle sue cosce. Si tirò indietro i capelli
distra amente guardandosi in giro, dalla mia prospe iva aveva il
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viso incorniciato dal cielo. Qualcuno lì vicino cominciò a suonare la
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isarmonica e a intonare stornelli romani, l’aria si impregnò
dell’odore di rigatoni alla carbonara misto a quello dell’erba delle
aiuole.
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