Sventura – Chuck Palahniuk

SINTESI DEL LIBRO:
Il bene e il male sono sempre esistiti. Esisteranno sempre. Solo le
nostre storie che ne parlano cambiano di continuo.
Nel VI secolo prima di Cristo, il legislatore greco Solone si recò
nella città egizia di Sais e ne riportò il seguente racconto della fine del
mondo. Secondo i sacerdoti del tempio di Neith un cataclisma
investirà la Terra con fiamme e fumo velenoso. Nel giro di un giorno e
di una notte, un intero continente sprofonderà, colando a picco nel
mare, e un falso messia condurrà tutta l’umanità alla catastrofe.
Secondo l’annuncio dei profeti egizi, l’Apocalisse comincerà in una
notte tranquilla, sulla cima di un’alta collina sovrastante il regno di
Los Angeles. Lì, cantano gli antichi oracoli, una serratura si aprirà di
scatto. Tra le grandi case cintate di Beverly Crest, un robusto
catenaccio scivolerà di lato. Come riferito da Solone, i due battenti di
un cancello di sicurezza ruoteranno sui cardini. Fuori dal cancello, in
basso, i regni di Westwood e Brentwood e Santa Monica attendono,
nel sonno, adagiati in una ragnatela di lampioni. E quando l’ultimo
ticchettio d’orologio della mezzanotte sarà sfumato, dentro quel
cancello spalancato abiteranno solo tenebre e silenzio, finché non si
sentirà un motore prendere vita con un ruggito, e due fanali
sembreranno condurre avanti quel rumore. E da quei cancelli uscirà
una Lincoln Town Car che avanzerà pigramente cominciando la sua
lenta discesa lungo le curve a gomito sopra l’Hollywood Boulevard.
Quella notte, secondo l’antica profezia, sarà placida, senza un alito
di vento; cionondimeno, nella scia della Lincoln in lento progresso
monterà la tempesta.
Nella sua discesa da Beverly Crest verso le Hollywood Hills, la
Lincoln si stiracchia lunga e nera come la lingua di un impiccato. Con
chiazze rosacee di lampioni che scivolano sulla sua corazza brunita, la
Town Car luccica come uno scarabeo sacro in fuga da una tomba. E
quando arriva in North Kings Road le luci di Beverly Hills e di
Hancock Park con un ultimo guizzo si oscurano, non una casa alla
volta: interi isolati vengono completamente cancellati dalla rete. E in
North Crescent Heights Boulevard, il quartiere di Laurel Canyon
viene spento nella sua totalità: non solo le luci, bensì anche il rumore e
la musica nella notte fonda ammutoliscono. Ogni luminoso indizio di
vita in città viene cancellato a mano a mano che l’auto scende a valle,
da North Fairfax Avenue a Ogden Drive fino a North Gardner Street.
E così le tenebre sommergono la città, seguendo l’ombra di quella
splendida auto.
E si leverà anche un vento impietoso. Come previsto da quei
sacerdoti di epoche passate, la burrasca trasforma le torreggianti
palme di Hollywood Boulevard in spazzoloni imbizzarriti che
strigliano il cielo. Le loro frasche mulinanti proiettano a terra orribili
figure mollicce che si spiaccicano al suolo urlando. Con occhi come
grani di caviale e code squamose da serpente, queste frenetiche figure
mollicce vanno a sbattere contro la Town Car che passa. Cadono con
gemiti di strazio. I loro artigli graffiano l’aria annaspando. I loro
violenti impatti non rompono il parabrezza, che è a prova di proiettile.
Le ruote della Lincoln rombante le schiacciano, facendo poltiglia della
loro carne riversa a terra. E queste figure abbattute, strillanti,
brancolanti sono roditori: corpi di opossum che si contorcono
spiaccicati a morte. Gli pneumatici della Lincoln fanno esplodere
questo tappeto rosso di pelliccia maciullata. I tergicristalli ripuliscono
la visuale del guidatore dal sangue ancora tiepido, e le ossa
frantumate non bucano le gomme, perché anche le gomme sono a
prova di proiettile.
E il vento è tanto potente da ripulire la strada, sospingendo avanti
questo fardello di schifosi animaletti mutilati, continuando a
raccogliere questa marea di sofferenze nella scia della Town Car, che
raggiunge Spaulding Square. Le crepe dei fulmini fratturano il cielo, e
l’acqua scroscia, mitragliando le tegole dei tetti. Il tuono spara una
fanfara, mentre la pioggia saccheggia i bidoni della nettezza urbana,
spargendo borse di plastica e bicchieri di polistirolo.
Negli immediati dintorni della torre incombente del Roosevelt
Hotel, invece, il boulevard è deserto, e l’esercito di spazzatura marcia
sulla città senza l’ostacolo di semafori o di altre automobili. Le vie, gli
incroci, tutto deserto. Anche i marciapiedi sono disabitati, come
promesso dagli antichi divinatori, e le finestre tutte buie.
Il cielo ribollente è orbo delle lucine ardenti degli aerei, e i canali di
scolo intasati lasciano le strade allagate di pioggia e di pellame. Le
strade sdrucciolevoli di interiora. E all’altezza del Grauman’s Chinese
Theatre l’intera Los Angeles è ridotta a un macello, nel caos.
Eppure, non molto più avanti, nell’isolato 6700… lì la luce al neon
risplende ancora. In quell’unico isolato dell’Hollywood Boulevard la
notte è tiepida e quieta. Non c’è pioggia a bagnare l’asfalto, e i tendoni
verdi del Musso and Frank Grill pendono immobili. Le nuvole sopra
quell’isolato cittadino si aprono come un tunnel a mostrare la luna, e
gli alberi sui marciapiedi sono imperturbati. I fanali anteriori della
Lincoln sono a tal punto rivestiti di rosso da proiettare un sentiero
scarlatto, come un tracciato che l’auto debba seguire. Questi potenti
raggi rossi svelano la presenza di una giovane fanciulla sul
marciapiede opposto a quello dell’Hollywood Wax Museum, il museo
delle cere. Nell’occhio dell’orrenda tempesta, lei fissa una stella di
cemento rosa incastonata a raso nel marciapiede. Ai lobi sfoggia
zirconi cubici dal taglio a brillante, grossi come decini. E i piedi
calzano un paio di Manolo Blahnik contraffatte. Le morbide pieghe
della sua gonna a tubino e del maglione di cashmere sono asciutte.
Masse ondulate di capelli rossi le scendono a cascata sulle spalle.
Il nome inciso nella stella rosa è “Camille Spencer”, ma la giovane
fanciulla non è Camille Spencer.
Un grumo rosa di gomma da masticare rappresa, svariati grumi,
anzi, rosa e grigi e verdi, sfigurano il marciapiede come croste. Oltre ai
segni della masticazione umana, la gomma reca impresso anche lo
zigzag delle suole di passaggio. La giovane fanciulla ci lavora su con il
tacco aguzzo di una falsa Blahnik, fino a quando non riesce a staccare
quella scabra gomma. Finché la stella, se non proprio pulita, è
quantomeno più pulita.
In questa bolla di notte placida, immobile, la giovane fanciulla
afferra l’orlo della gonna e se l’avvicina alla bocca. Sputa sul tessuto e
si inginocchia per lustrare la stella, facendo brillare il nome inciso a
lettere d’ottone, incastonato nel cemento rosa. Quando la Town Car le
si ferma accanto, lungo il marciapiede, la ragazza si rialza in piedi e
gira intorno alla stella con il rispetto che si potrebbe riservare a una
tomba. In una mano stringe una federa. Le dita dalle unghie smaltate
di bianco sbeccato, strette a pugno, reggono questo sacco di tela
bianca gonfio e appesantito di Tootsie Rolls, Charleston Chews e
stringhe di liquirizia. Nell’altra mano tiene un Baby Ruth mangiato a
metà.
I denti rivestiti di porcellana masticano pigri. Una linea di
cioccolato sciolto le contorna le labbra tumide e imbronciate. I profeti
di Sais mettono in guardia contro la bellezza di questa giovane donna,
perché chiunque la vedrà dimenticherà qualunque piacere a parte
quelli del cibo e del sesso. La sua forma terrena è a tal punto
seducente che chi la vede viene ridotto a null’altro che stomaco e
pelle. E, come cantano gli oracoli, non è viva né morta. Né mortale né
spirito.
E la Lincoln ferma in folle presso il cordolo gronda rosso. Il
finestrino posteriore dal lato del marciapiede si schiude di un filo
ronzando, e una voce si annuncia dall’interno lussuoso. Nell’occhio di
quell’uragano, una voce maschile domanda: «Dolcetto o scherzetto?».
Oltre il raggio di un tiro di sasso, la notte continua a ribollire dietro
una muraglia invisibile.
Le labbra della fanciulla lucide di rossetto rosso-rosso – una tinta
denominata “Caccia all’uomo” – quelle labbra piene si arricciano in un
sorriso. L’aria, qui, incombe così calma che si può cogliere la fragranza
del suo profumo, come di fiori posati dentro una tomba, premuti ed
essiccati per mille anni. Lei si sporge verso il finestrino aperto e dice:
«Sei arrivato troppo tardi. È già domani…». Tace il tempo di una
lunga e lussuriosa strizzatina d’occhio con palpebra coperta di
ombretto azzurro e poi domanda: «Che ora è?».
Ed è evidente che l’uomo sta bevendo champagne, perché in
quell’attimo di silenzio persino le bollicine fanno baccano. E anche il
ticchettio dell’orologio da polso dell’uomo fa baccano. E la sua voce
dall’interno dell’auto dice: «È l’ora in cui anche le ragazze monelle
devono andare a letto».
La giovane donna, ora, sospira malinconica. Si umetta le labbra, e il
suo sorriso sfuma. Tra il civettuolo e il rassegnato dice: «Mi sa che ho
violato il coprifuoco».
«Essere violati» dice l’uomo «può essere meraviglioso.»
La portiera posteriore della Lincoln si spalanca ad accoglierla, e la
fanciulla sale a bordo senza esitazioni. E quella portiera, cantano i
profeti, rappresenta una soglia. L’auto stessa è una bocca che inghiotte
dolcetti. E la Town Car la rinchiude nel proprio stomaco: interni
rivestiti di spesso velluto come quelli di una bara. Il finestrino
oscurato si richiude ronzando. L’auto è accesa, in folle, il suo cofano
esala vapore, il suo corpo è lucente e affusolato, bordato ora di una
frangia rossa, una barba di sangue coagulato sempre più lunga. Tracce
cremisi di pneumatici dal luogo della sua provenienza fino a dov’è ora
parcheggiata. Dietro l’auto la tempesta infuria, ma qui gli unici rumori
che si sentono sono le soffocate eiaculazioni di un uomo che grida. Gli
antichi descrivono questo rumore come un miagolio, uno spiaccichio
mortale di roditori.
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