Storia di un figlio – Andata e ritorno – Fabio Geda

SINTESI DEL LIBRO:
Nonostante non ci parlassimo da otto anni, nonostante la mia voce
fosse cambiata, mamma mi ha riconosciuto subito. Io la sua voce
non la ricordavo. I primi tempi mi era capitato di provare a rievocarla,
ma senza successo e con grande dolore. Le voci erano state le
prime a sparire, prima dei volti e di altri dettagli. Ma appena l’ho
sentita – ed era la sua, non c’era dubbio – è stato come riprendere a
respirare dopo una lunghissima apnea. Dal fondo della schiena è
partito un brivido, è corso lungo la spina dorsale e mi è esploso nel
cervello.
Come ho detto, quella prima volta non ci siamo scambiati altro che
singhiozzi, finché non è caduta la linea. Poi l’uomo ha richiamato e
me l’ha passata di nuovo, ma eravamo comunque troppo emozionati
per parlare davvero e non siamo riusciti a fare altro che
ammucchiare parole goffe. Il giorno dopo, allora, terminate le lezioni
nella scuola che frequentavo, il Lagrange, dove stavo facendo la
terza e studiavo per diventare un operatore tecnico per i servizi
sociali, mi sono precipitato in un call center di Porta Palazzo, non
distante dalla sede dell’istituto, e l’ho richiamata.
Ha risposto un uomo che non era mama Asan, ho detto chi ero e
un istante dopo eccola di nuovo, la sua voce, ossigeno, che mi
faceva il solletico dentro la testa. A quel punto ci siamo concentrati
entrambi per non continuare a lanciarci addosso emozioni come
palle di neve a settemila chilometri di distanza, abbiamo iniziato a
parlare davvero, a dire cose che avevano un senso, o per lo meno ci
abbiamo provato – diciamo che è andata sempre meglio, di volta in
volta. Ricordo che la telefonata costava sessantotto centesimi al
minuto e la linea cadeva di continuo per cui ogni volta che rifacevo il
numero mi toccava ripagare lo scatto alla risposta, una cosa che
normalmente mi avrebbe fatto imbufalire visto che non avevo soldi
da sprecare, ma ero talmente felice di parlarle che avrei speso
qualunque cifra.
Come potete immaginare di cose da raccontarci ne avevamo – oh,
se ne avevamo! Da entrambe le parti c’erano avventure
rocambolesche su cui piangere, ridere, spaventarsi, magari tirare un
sospiro di sollievo o che so io, e invece no: la cosa incredibile è stata
che senza dirci niente, senza concordarlo, abbiamo entrambi preso
a parlare di questioni banali – la mia quotidianità, la sua. Insomma,
del presente, non del passato.
Una delle prime cose che mi ha chiesto è stata se mangiavo. Cioè,
dico: se mangiavo. La domanda che una madre qualsiasi farebbe a
un figlio qualsiasi, lontano da casa per una gita o una vacanza
studio. Ho risposto che mangiavo parecchio, su questo poteva
scommetterci, e che da quel punto di vista, a essere sinceri, non
potevo finire in un posto migliore. Ho detto: Mamma, sono in Italia,
certo che mangio!
Abbiamo parlato della famiglia che mi ospitava, della casa, della
scuola. Quanto è stata felice di sapere che mi ero rimesso a
studiare: felicissima. Io, da parte mia, volevo avere notizie di mio
fratello e mia sorella. Stavano bene, erano sempre rimasti insieme,
mia sorella si era sposata. Sposata? E aveva una figlia. Una figlia?
Non potevo crederci. Stavamo parlando della bambina che mi puliva
la faccia quando piangevo e mi spalmava di unguenti se cadevo
lungo la riva del fiume rincorrendo i compagni di scuola; ma che ora,
a pensarci, aveva più di vent’anni e per la nostra cultura era normale
che fosse sposata e avesse dei figli.
Ho chiesto a mamma di parenti e amici che avevo a cuore.
Qualcuno era morto. Altri erano stati costretti a trasferirsi. Altri erano
ancora nei campi profughi e chissà per quanto tempo ci sarebbero
rimasti. Di molti non aveva notizie. Pochi erano riusciti a restare nelle
proprie case, qualcuno vi era tornato ed era dovuto andare via di
nuovo. La sofferenza, nell’Hazarajat, la mia terra meravigliosa, era
ancora ovunque, come l’umidità, nell’aria che si respirava, nel fango
delle strade, nelle mine antiuomo che assomigliavano a giocattoli, tra
i
rami dei pruni e il fumo dell’oppio. Mamma ha detto che dovevo
considerarmi fortunato, molto fortunato, che era come se avessi
trovato un passaggio segreto per uscire dall’altra parte del mondo.
Una porta magica. Come – mi viene in mente – quelle di cui parla
Mohsin Hamid in Exit west, un romanzo bellissimo che ho letto
tempo fa. Ci entri e quando superi la soglia ti ritrovi in Europa o in
America.
Mamma ha detto questo – il passaggio segreto, eccetera – perché
ovviamente non le avevo raccontato nulla del mio viaggio.
Gliel’avessi raccontato, avrebbe scoperto che altro che passaggio
segreto: non era certo andata così. Niente magia, nessuna soglia da
superare per poi – hop! – prodigiosamente ritrovarsi a Londra o che
so io.
Mamma non ha mai chiesto cos’era successo dopo che mi aveva
lasciato a Quetta; non l’ha mai chiesto e io non gliel’ho voluto dire.
Non ha mai saputo ciò che ho attraversato in quei cinque anni. Non
ha saputo della fabbrica di Qom e della pietra che mi è caduta sulla
gamba aprendomi la carne; del poliziotto di frontiera che mi ha
rubato l’orologio e di quelli che mi hanno quasi ucciso sparandomi
addosso al confine con l’Iran. Non ha mai saputo dei ventisei giorni
di cammino in mezzo alla neve per arrivare in Turchia, dei morti a cui
ho rubato le scarpe, dei tre giorni nel doppio fondo del camion,
lanciato attraverso la Cappadocia, con due bottiglie: una per bere,
una per pisciarci dentro. Non ha saputo di Liaqat, caduto in acqua
mentre stavamo attraversando il tratto di mare che separa Ayvalik da
Lesbo, della vita terribile ad Atene, delle notti confuse a Ostiense;
della paura e delle domande; della rabbia e della spossatezza. Quel
logorio che ancora oggi, di tanto in tanto, sento scavare nelle ossa,
come certi vermi del deserto. Dei fantasmi che a lungo mi hanno
fatto visita la notte. Non le ho mai detto nulla – raccontato nulla.
Perché avrebbe sofferto. E non volevo.
Cosa sarebbe cambiato?
Informarla non avrebbe modificato i miei ricordi né certamente
cancellato i fatti. Le ho detto che il viaggio era stato complicato, sì, i
soliti casini coi trafficanti – vatti a fidare, di quelli – ma che non
valeva la pena stare lì a rivangare; la cosa importante era avercela
fatta. Ero arrivato in un posto sicuro, andavo a scuola, avevo degli
amici, e soprattutto mi era stato riconosciuto lo status di rifugiato,
cosa che mi consentiva di progettare una nuova vita in Europa.
È andata così. Dal momento in cui ci siamo sentiti e abbiamo
ricominciato a parlare è stato come se avessimo, senza dircelo,
concordato di concentrarci sul presente e sul futuro senza tirare in
ballo un passato che rischiava di ingolfare i discorsi. Perché parlarne
avrebbe voluto dire affrontare la notte d’autunno al samavat Qgazi di
Quetta, quando mi aveva fatto fare tre promesse e al mattino non
l’avevo trovata più; significava decidere se ero arrabbiato e se c’era
qualcosa da perdonare, se l’avevo già perdonata o se invece dovevo
ringraziarla.
Troppo difficile.
Ma questo significa che anch’io, per molto tempo, non ho saputo
esattamente che cos’era capitato a loro dal ritorno di mamma da
Quetta agli attentati dell’undici settembre, e poi, ancora, dall’inizio
dei bombardamenti americani al giorno in cui un uomo, incaricato da
me di cercarli, era misteriosamente apparso alla porta
accompagnato da una signora di Nava che molto tempo prima si era
beccata un proiettile in fronte – lo so è strano, ma poi ve lo spiego.
Una storia così.
Una storia che, alla fine, mi ha raccontato mia sorella.Non molto
tempo fa.
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