Sono qui – Marc Raabe

SINTESI DEL LIBRO:
Jesse si risvegliò bruscamente dal sogno e si rizzò a sedere nel
letto.
L’oscurità lo avvolgeva. Era madido di sudore.
Gli ci volle un istante per comprendere che non era più un ragazzino,
ma un uomo di quarantacinque anni. Gli sembrava ancora di sentire
il sapore della terra. Oddio, ci era andato di nuovo così vicino, era
tutto così reale. La vecchia cicatrice sulla schiena gli prudeva, come
se qualcuno l’avesse graffiata. Soltanto l’urlo che aveva sentito non
c’entrava nulla in quel sogno. Era l’urlo di una ragazza.
A disagio, scostò di lato le coperte, mise i piedi sul pavimento e si
alzò.
Freddo laminato. Aria fresca sulla fronte umida. Il pavimento era
asciutto, solido e chiaro. Continuava a fare quel sogno. Cominciava
con l’uomo insetto che lo ricopriva di terra e finiva poco prima che lui
soffocasse nella tomba. Nient’altro. Non c’era un dove, né un
quando, nulla prima e nulla dopo. Esisteva solo una variante, un
altro sogno, in cui lui annegava in un lago ghiacciato.
L’urlo della ragazza non gli dava tregua.
Abbassò la maniglia della porta della camera da letto e percorse
velocemente il corridoio, passando davanti agli ultimi scatoloni del
trasloco che non aveva ancora svuotato e inciampando sulla sua
borsa da medico, che teneva sempre pronta davanti al guardaroba.
Imprecò e la spostò di lato con un piede. Sul pavimento vide il fascio
di luce colorata che filtrava dalla fessura della porta. In tre passi fu
nella stanza dei bambini.
«Isa?», sussurrò.
Lei era seduta nel letto, con lo sguardo fisso rivolto verso la finestra
di fronte e i capelli biondi tutti scompigliati.
«Isa!».
«Sshhh», sussurrò lei senza muoversi. «Papà, c’è qualcuno lì».
Jesse guardò verso la finestra. «Là fuori?»
«E dove sennò?», rispose Isabelle a bassa voce, con tutta
l’indignazione che era possibile mettere in un bisbiglio. A volte i
grandi erano un po’ duri di comprendonio.
Jesse sospirò piano e andò alla finestra.
«E che aspetto aveva?»
«Criniera scura e occhi selvaggi».
«Occhi selvaggi?».
Isa annuì. «Mi ha guardata».
Jesse aprì la finestra. L’aria fresca lo investì. Si sporse sul davanzale
e scrutò la strada, prima a sinistra e poi a destra. «Non vedo mostri.
Vuoi venire anche tu a guardare?».
Isa scosse la testa. I suoi capelli biondi volarono di qua e di là. «Non
era un mostro».
Jesse sorrise. «E cos’era allora?»
«Non lo so. Qualcosa che assomigliava a un mostro», sussurrò lei.
Jesse annuì, richiuse con cura la finestra, tornò vicino a lei e si
sedette sull’orlo del letto.
Isabelle si scostò, lasciando libero un po’ del lenzuolo stropicciato.
Jesse sorrise, si infilò nel letto e si sdraiò vicino alla figlia di otto
anni.
Senza dire nulla Isa si voltò verso di lui, sistemò la testa nell’incavo
dell’ascella e prese a fare profondi respiri, come se fosse rimasta in
apnea fino a quel momento. Jesse sentiva il battito concitato del suo
cuore dietro le costole sottili.
«Papà?»
«Mmm».
«Non andartene quando mi addormento, okay?»
«Mmm», mugolò Jesse, stanco. Il letto caldo e la presenza di sua
figlia cominciavano a far svanire i residui del suo incubo. Quel sogno
lo perseguitava da quando aveva memoria e lui odiava il momento in
cui si svegliava e constatava di non essere né annegato, né sepolto
sotto uno strato di terra. Inoltre, quando capitava che il sogno fosse
più lungo o variasse leggermente, era come se potesse vedere se
stesso, come se fosse lì accanto e stesse osservando il proprio
riflesso: un ragazzino che gioca sulla sponda di un lago ghiacciato. A
volte riusciva anche a parlarci. Da Jesse a Jesse.
Quanto di tutto questo fosse un ricordo e quanto frutto della sua
immaginazione non lo sapeva. I suoi ricordi non andavano oltre
l’incidente che aveva avuto a tredici anni. Nella sua vita esistevano
un Prima e un Dopo quell’incidente. Il Prima era avvolto nell’oscurità,
a parte le cose che gli avevano raccontato gli altri all’istituto. Aveva
dovuto ricostruire la propria vita pezzo a pezzo, per quanto possibile.
Suo padre era un capitano, gli avevano raccontato. Di sua madre
invece nessuno sapeva nulla. E comunque non tutto di quello che gli
veniva raccontato su di lui gli piaceva. Anzi, di certe cose si
vergognava.
Per un attimo si chiese chi avesse davvero bisogno di chi in quel
momento. Isa di lui, o lui di Isa? Le punte dei capelli di lei gli
solleticavano la guancia e profumavano di aghi di pino e terra umida,
e di tutto ciò con cui era venuta in contatto durante la gita di quel
giorno. Meno male che Sandra non c’era. Secondo la madre di Isa, i
capelli dei bambini dovevano profumare sempre e solo di shampoo,
non certo di foresta. Fin dall’adolescenza, che avevano trascorso
insieme nell’istituto di Adlershof, Sandra associava la foresta a una
prigione. Le città, invece, significavano libertà. Per Jesse era
esattamente il contrario.
«Ti sei lavata i denti?».
Isa non rispose. Il suo respiro era sospettosamente regolare, faceva
sempre così quando fingeva di dormire.
«Ehi», le sussurrò Jesse all’orecchio, pizzicandole lievemente un
fianco. Sua figlia ridacchiò e si girò. «Te ne faccio già passare anche
troppe, signorina, questa no. In bagno. A lavarsi i denti».
«Oh, papà! Sono taaanto stanca».
«Certo. Anche io», sbadigliò Jesse.
«I denti posso lavarmeli domani».
«Oppure la settimana prossima, eh?»
«La settimana prossima sono da mamma. Lei me li fa lavare mille
volte».
«A me invece ne bastano tre. Forza!».
Arrabbiata, Isa scostò le coperte e scese dal letto passando sopra
Jesse, senza risparmiargli una vivace gomitata. Jesse si voltò per
proteggere la cicatrice sulla schiena, perciò Isa lo colpì tra le costole.
«Ahia!», ridacchiò lui. «Devo accompagnarti?»
«No», ribatté Isa.
Trotterellò orgogliosa a piedi nudi sul pavimento, diretta verso il
bagno. Un istante dopo, la porta si richiuse sbattendo.
Jesse emise un sospiro assonnato. Fece scivolare lo sguardo lungo
le pareti della stanza, l’unica del nuovo appartamento che avesse
già finito di arredare. La piccola lampada con il paralume girevole
proiettava vivaci pesci colorati sulla tappezzeria, che facevano
lentamente il giro della stanza. Aveva regalato a Isa quella lampada
sei mesi prima, poco dopo la separazione da Sandra, la prima notte
che lei aveva passato nel suo nuovo appartamento. Una volta Isa
l’aveva svegliato nel cuore della notte. I pesci erano morti. Lui li
aveva riportati in vita sostituendo la lampadina.
Gli occhi di Jesse si chiusero.
Quando li riaprì, sentì freddo. Accanto a lui il letto era vuoto.
L’appartamento silenzioso.
«Isa?».
Nessuna risposta.
Scese dal letto e sentì gelare le gambe. Raggiunse di corsa il bagno.
Niente luce da sotto la porta. Nessun rumore.
Quando l’aprì, fu accolto da una corrente di aria fredda. Il bagno era
buio e vuoto, solo le luci del cortile proiettavano un pallido fascio
luminoso attraverso il vetro opaco della finestra. Passò il pollice sullo
spazzolino di Isa. Asciutto.
Un colpo sordo, di legno contro legno, lo fece sussultare. La finestra
sbatteva contro il telaio, la maniglia era girata. L’aveva lasciata
aperta lui? Di certo con poteva essere stata Isa, non dopo la
faccenda del mostro, o qualsiasi cosa avesse visto.
Jesse tentò di mantenere la calma, spalancò la finestra e guardò
fuori. Il cielo notturno era chiaro e senza nubi, il cortile era grigio e
deserto.
«Isa?».
Silenzio.
Per quale maledetto motivo la finestra era aperta? Una morsa
d’acciaio gli strinse il petto. Jesse si voltò, corse lungo il corridoio,
spalancò la porta del salotto, accese la luce e sbatté le palpebre.
Niente Isa.
Tentò di contenere il panico, ma il suo cuore galoppava.
Andò in cucina, aprì la porta, accese la luce.
Rimase in piedi sulla soglia e buttò fuori l’aria. Un lungo sospiro che
spazzò via la tensione dal suo corpo e gli fece quasi venire le
vertigini per il sollievo.
Era lì.
Sul pavimento accanto al tavolo, con la schiena contro il termosifone
e il mento reclinato sul petto. Aveva qualcosa di marrone all’angolo
della bocca. Per terra accanto a lei c’era un barattolo di Nutella
aperto e semivuoto, da cui spuntava un cucchiaio. Il petto di Isa si
alzava e si abbassava pacifico, seguendo il ritmo del suo respiro.
Jesse si sedette con cautela accanto a lei, vicino al termosifone
caldo. Appoggiò le spalle magre e appuntite di lei sull’avambraccio.
Le loro sagome riflesse sulla porta a vetri della cucina sembravano
una cosa sola. Lui, con i capelli biondi tagliati corti e un principio di
stempiatura, gli occhi marroni, la maglietta nera e le ginocchia
scoperte, e Isa, con i capelli della sua stessa tonalità di biondo e un
identico, inconfondibile vortice. Ancora una volta, Jesse si chiese
cosa avesse fatto per meritarsela. Un conto erano le cose che
Sandra non gli perdonava, soprattutto la sua assenza, il rinchiudersi
in se stesso, l’inquietudine e le decisioni solitarie. Aveva sempre
temuto che per Isa potesse essere lo stesso. Che lo avrebbe
guardato con gli occhi di Sandra. Di tutte le paure che si portava
dietro, questa era la più grande: forse non se la meritava affatto.
Jesse sospirò.
Per quanto odiasse le grandi città, per Isa sarebbe andato a vivere
persino a New York. Vista da questa prospettiva, la decisione di
Sandra di trasferirsi a Berlino era solo la seconda eventualità
peggiore che poteva capitargli.
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