Sentenza artificiale – Barbara Baraldi

SINTESI DEL LIBRO:
L’ingresso del tribunale era presidiato da un centinaio di poliziotti in
tenuta antisommossa, equipaggiati con caschi, maschere antigas e
protezioni. Barricati dietro una fila di transenne metalliche allineate
alla base della scalinata, imbracciavano fucili caricati con pallottole
non letali.
Di fronte a loro, tra la folla che stipava la piazza, c’era chi
continuava a ripetere ciclicamente al megafono le parole
«responsabilità» e «civiltà», intervallate da cori assordanti che
sovrastavano qualsiasi altro rumore. Al di sopra delle teste dei
manifestanti svettavano striscioni e cartelli con slogan come «No alla
macchina del giudizio» e «Non c’è legalità senza umanità».
«I numeri diffusi dagli organizzatori parlano di diecimila persone
radunate davanti al palazzo di giustizia per protestare contro
l’introduzione delle cosiddette “sentenze artificiali”» disse la
giornalista Valeria Pisani al microfono, mentre il cameraman si
affannava per mantenere stabile l’inquadratura nonostante la folla
continuasse a urtarlo. «Una riforma che migliorerà l’efficienza del
sistema giudiziario secondo la maggioranza di governo, un pericolo
per la democrazia secondo il movimento extraparlamentare dei
Responsabilisti. Sorvegliati dalle forze di polizia per prevenire
disordini, gli attivisti si sono radunati qui, oggi, per manifestare il
loro dissenso, di fronte all’edificio in cui è in corso la conferenza
stampa di Aristotile Damanakis, primo promotore di quella che è
considerata la più grande innovazione nella giurisprudenza
dall’epoca della riscoperta del Codice giustinianeo.» Fece un cenno
quasi impercettibile al cameraman, che allargò l’inquadratura per
includere l’uomo di fianco alla giornalista. «Sono in compagnia di
Saverio Colbran» continuò, «ex giudice di Corte d’assise, fondatore e
portavoce del movimento dei Responsabilisti. Dottor Colbran, si
aspettava una partecipazione così massiccia alla sua
manifestazione?»
Colbran era un uomo sulla cinquantina, non molto alto ma
dall’aspetto affascinante, con capelli brizzolati, occhi verdi sovrastati
da folte sopracciglia e la pelle olivastra. Guardava fisso davanti a sé,
come se non sapesse di essere ripreso.
«Mi permetta una precisazione» disse. «Questa non è la “mia”
manifestazione, né di qualcun altro. Ognuno dei presenti è qui per
far valere la propria voce contro un pericoloso attacco alle istituzioni
democratiche. Il fatto che ci troviamo di fronte a una folla tanto
numerosa è, credo, una grande prova di responsabilità da parte della
società civile, a tutti i livelli.»
«Lei parla di responsabilità: è per questo che ha chiamato il suo
movimento Responsabilismo?»
«Il Responsabilismo è la risposta all’ipocrisia e alla pigrizia di
funzionari miopi, se non corrotti, che preferirebbero appaltare
l’amministrazione della giustizia a una macchina, piuttosto che
impegnarsi in una discussione con le parti sociali per dare vita a una
vera riforma del sistema giudiziario. “Responsabilismo” significa
innanzitutto accettare il ruolo dello Stato come garante dei diritti
costituzionali. È quindi un richiamo alla responsabilità di tutti i suoi
funzionari.»
«Aristotile Damanakis è il nemico, dunque?»
«Damanakis è solo un ingranaggio del meccanismo perverso in
cui si è avvitata la società contemporanea. Individui come lui,
anziché accolti all’interno delle istituzioni, andrebbero fermati prima
che i danni che provocano diventino irreparabili.»
«Lei crede in una forma di giustizia superiore?»
«Le faccio io una domanda» ribatté Colbran. «Se nessun uomo è
al di sopra della legge, può esserlo una macchina?»
La giornalista si schiarì la voce. «Di recente, ci sono state
polemiche sulla presunta ostilità del movimento nei confronti dello
sviluppo tecnologico. Siete stati accusati di complottismo a causa di
alcune dichiarazioni controverse rilasciate da un vostro esponente di
primo piano. Come risponde a queste critiche?»
L’uomo scosse appena la testa. «Non ho il potere, né il desiderio,
di vagliare le opinioni di tutti gli aderenti al movimento, che nasce
unicamente con lo scopo di opporsi all’introduzione delle sentenze
artificiali. Se qualcuno preferisce ridurre l’uso della tecnologia,
d’altronde, lo posso capire. Ogni aspetto della nostra vita, ormai, è
soggetto al controllo di multinazionali il cui principale obiettivo,
ricordiamolo, è raccogliere profitti in totale spregio delle più
elementari regole della convivenza civile.»
«Lei possiede un cellulare?» lo incalzò Valeria Pisani.
Colbran sogghignò. «No.»
L’inquadratura sobbalzò quando il cameraman venne urtato da un
individuo vestito di nero, con un passamontagna calato sul viso, che
avanzava a passo spedito tra la folla, spintonando chiunque gli fosse
di intralcio.
«Ma cosa…» farfugliò Valeria Pisani, rendendosi conto che gli
uomini in nero erano almeno una ventina, sparpagliati tra la gente.
Erano armati di mazze, tubi di metallo e chiavi inglesi. Alcuni
indossavano maschere antigas o caschi integrali.
In pochi secondi raggiunsero le prime file, e di lì le barricate a
protezione dell’ingresso del tribunale. Da qualche parte sbucarono
altri gruppi, macchie di nero che spiccavano nella moltitudine
eterogenea dei manifestanti, muovendosi come formiche intorno a
una carcassa da smembrare. Alcuni cominciarono a strattonare
energicamente le transenne, picchiando con i loro bastoni sulle
cerniere e scalciando con forza, incoraggiando con urla selvagge i
manifestanti a imitarli.
Qualcuno arretrò, ma l’euforia per il brusco cambio di programma
contagiò l’animo di altri, che si unirono agli agitatori nel tentativo di
sfondare lo sbarramento.
I poliziotti reagirono serrando gli scudi e cominciarono ad
avanzare con passo marziale lungo le gradinate.
Un attivista con il megafono urlò: «Calma, per favore! Questa è
una manifestazione pacifica!».
Ma in pochi raccolsero il suo appello. Nelle prime file si scatenò
un parapiglia sfrenato in cui era difficile distinguere chi fossero i
facinorosi e chi si trovasse semplicemente nel posto sbagliato al
momento sbagliato.
Una delle transenne cedette sotto la pressione esercitata dalle
decine di contestatori che si erano ammassati a una delle estremità,
rovinando a terra con clangore di metallo contro asfalto. Fu il segnale
per gli agenti in prima linea, che sfoderarono i manganelli e
partirono alla carica, mentre dalle retrovie cominciavano i lanci di
lacrimogeni.
In meno di un minuto la piazza antistante il tribunale si trasformò
in un teatro di guerriglia urbana. I poliziotti avanzavano compatti
nella nebbia per proteggere l’ingresso dell’edificio, senza esitare a
colpire duramente chiunque cercasse di avvicinarsi.
Una bottiglia molotov si infranse alla base delle scalinate,
innalzando una fiammata che costrinse i poliziotti nei dintorni a
serrare i ranghi e proteggersi dietro gli scudi. Un altro ordigno
artigianale esplose nelle immediate vicinanze, seguito da una
gragnuola di sassate dirette alle forze dell’ordine.
Dalla sua postazione, Pisani assisteva sbigottita alla scena.
«Quella che è cominciata come una manifestazione pacifica è
degenerata in un vero e proprio assedio al tribunale» disse, mentre
l’operatore teneva la telecamera puntata sulla zona più calda dello
scontro. «Al momento non è chiaro se si tratti dell’intervento di
piccoli gruppi di sovversivi o di una strategia pianificata.» Si guardò
rapidamente intorno alla ricerca dell’interlocutore di poco prima, ma
il fumo rendeva le persone sagome grigie prive di volto.
«Maledizione, dov’è finito Colbran?» aggiunse tra i denti.
Dal ponte alle spalle della piazza si fece strada rombando un
mezzo blindato dei carabinieri, che si arrestò con uno stridore di
pneumatici e dal quale scese un gruppo di agenti in divisa, che subito
si mise all’opera per disperdere la folla.
La situazione, tuttavia, era ormai fuori controllo. Svariate decine
di manifestanti erano riuscite ad attraversare il varco nelle barricate.
Capitanati dagli uomini in nero, alcuni di loro raggiunsero il portone
del palazzo di giustizia e tentarono di forzarne l’apertura con
rudimentali strumenti di scasso.
Un elicottero della polizia sorvolava l’area, diffondendo appelli ai
manifestanti perché cessassero le ostilità. «Gli agitatori saranno
identificati e arrestati» ripeteva la voce attraverso gli amplificatori.
Nessuno sembrava farci caso.
Il fumo emesso dai lacrimogeni e dal carburante in combustione
saturava l’aria, obbligando chi non indossava maschere antigas a
proteggere le vie respiratorie con mezzi di fortuna come sciarpe e
fazzoletti, sollevando la maglia sul viso e tamponando la bocca con la
manica del giubbotto.
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