Sentieri neri – Sylvain Tesson

SINTESI DEL LIBRO:
Perché il TGV era così veloce? A che serviva viaggiare tanto in frea?
Era assurdo veder sfilare a 300 chilometri l’ora quel paesaggio che poi
avrei dovuto risalire a piedi impiegando mesi e mesi! Mentre la velocità
cancellava il panorama, pensavo ai miei cari, anzi pensavo a loro con un
affeo molto più grande di quello che sarei riuscito ad esprimere a parole.
In realtà preferivo pensare a loro piuosto che averli vicini. Secondo loro
bisognava sempre «vedersi», come se si fosse traato di un obbligo. E
invece era così bello sentirsi vicini col pensiero!
24 agosto. Alla frontiera italiana
Era il mio primo giorno di marcia. Punto di partenza: la stazione di
Tenda, dove mi aveva lasciato il treno di Nizza. Salii con passo incerto
verso il valico. Delle graminacee bionde oscillavano nell’aria della sera:
quegli inchini erano una prima visione di amicizia, di pura bellezza. Dopo
mesi così tristi, anche i moscerini nel sole sembravano di buon augurio.
el nugolo nel tepore dorato era come un cenno rivolto alla solitudine.
Sembrava quasi un messaggio. Forse ci stavano dicendo: «Smeetela con
questa guerra integrale contro la natura»?
Dei cedri si ergevano austeri sul bordo della strada, serrando con le
radici il terrapieno – spesso l’albero sembra sicuro del suo buon dirio. Un
pastore veniva giù per la discesa con un passo ben più fermo del mio.
Spuntò dalla curva, ossuto: sembrava un personaggio di Giono, uno del
posto. Io invece avevo sempre l’aria di qualcuno che viene da fuori.– Salve, – gli dissi. – Vai in cià?– No, – rispose lui.
– Il gregge è lassù?– No.– Scendi per riposarti?– No.
Avrei dovuto liberarmi di questa abitudine dell’uomo di cià che cerca
sempre di aaccare discorso.
Il colle di Tenda, che segnava un’infossatura nella linea di cresta del
Mercantour, divideva l’Italia dalla Francia. Avevo deciso di cominciare da
lì, dall’angolo sud-orientale del paese, e di raggiungere il nord del
Cotentin. I russi, per tradizione, prima di meersi in viaggio si siedono per
qualche minuto su una sedia, su un baule, sul primo sasso che capita, e
fanno il vuoto in se stessi. Pensano alle persone che stanno per lasciare,
cercano di ricordarsi se hanno spento il gas, se hanno nascosto bene il
cadavere, eccetera. Mi sedei anch’io come un russo, con la schiena
appoggiata a un’edicola lignea dove una Vergine meditava davanti al
paesaggio italiano. All’improvviso mi alzai e partii.
Sul terrapieno, i miei occhi malconci scambiarono le mucche per massi
tondeggianti rotolati giù per il pendio. Le creste irte di pini nerastri
ricordavano le colline dentellate che a vent’anni avevo visto stagliarsi
contro l’orizzonte azzurro dello Yunnan, in Cina. Ma scacciai quei pensieri
nell’aria del tramonto: erano solo un ingombrante miscuglio di analogie.
Avevo giurato di seguire fedelmente per qualche mese il preceo di
Pessoa:
Della pianta dico «è una pianta»,
Di me stesso dico «sono io».
E non dico nient’altro.
Che altro c’è da dire?
In realtà sospeavo che l’inquieto Pessoa non avesse mai tenuto fede al
suo progeo. Come è possibile credere che si sia potuto accontentare del
mondo? La gente scrive manifesti di quel genere e poi passa la vita a
tradire le sue teorie. Durante quelle seimane di marcia avrei tentato di
posare sulle cose il cristallo dello sguardo senza il velo delle analisi e il
f
i
ltro dei ricordi. Fino ad allora avevo imparato a fare della natura e delle
creature una pagina su cui annotare le mie impressioni. Adesso dovevo
assolutamente imparare a godermi il sole senza evocare de Staël, il vento
senza recitare Hölderlin e il vino fresco senza vedere Falstaff sguazzare in
fondo al bicchiere: in una parola dovevo imparare a vivere come uno di
quei cani che assaporano i momenti di tranquillità con la lingua penzoloni
e sembrano voler ingoiare il cielo, la foresta, il mare e anche il tramonto.
Naturalmente il progeo era destinato a fallire. Un europeo non cambierà
mai.
A duemila metri d’altezza, vicino a un bunker di cemento armato, vidi
un trao di terreno erboso e pianeggiante. Accesi un fuoco. La legna era
umida e io soffiavo sulla brace così forte da far girare la mia povera testa
roa. Il calore fece sloggiare dei ragni grassi. Ormai non mi facevano più
paura: ne avevo visti parecchi uscirmi dalle orbite. La tela da bivacco mi
proteggeva appena dalle nuvole umide che si erano addensate
nell’oscurità. Mi sentivo intimidito: dopo la caduta, era la prima noe che
passavo all’aria aperta. Il suolo mi accoglieva di nuovo – questa volta con
meno violenza. Ero tornato nel mio giardino preferito: un bosco soo le
stelle. L’aria era fresca, il suolo irregolare, il terreno in pendenza: si
cominciava bene. Le noi all’aperto al termine di una giornata passata in
movimento, sempre che ci piacciano e che le desideriamo, sono da
considerare delle conquiste. Fanno saltare in aria il coperchio, dilatano i
sogni. Come non sentire il clamore che si innalza dalle cià europee: aria!
aria! L’anno prima, quando giacevo in un leo di ospedale, avevo
desiderato di sdraiarmi soo gli abeti. Ecco: era tornato il tempo dei
bivacchi.
25 agosto. Nella valle della Roya
Era stata una strana noe. Tuo era cominciato verso le undici di sera.
A due o trecento metri si era sentito uno sparo; subito dopo un altro. Poi le
detonazioni erano continuate a intervalli di un minuto, talvolta anche di
trenta secondi. Chi sparava nella noe? Uno starec un po’ tocco che
odiava le tenebre?
Feci i primi passi pensando che, se riuscivo a compiere quella traversata
della Francia, l’avrei preso per un segno di remissione, mentre se fallivo
avrei visto quell’insuccesso come una ricaduta. Ero ben lontano dal
pensare alla guarigione! Lontano quanto il Cotentin! Riponevo nel
movimento la mia speranza di salvezza.
Al maino, in un avvallamento del terreno, vidi una stalla. Una donna
rosea e paffuta, con delle grosse guance da fiamminga e i bicipiti nudi, era
affaccendata sulla soglia. Pareva uscita da un quadro di Bruegel e tornava
dalla mungitura.– Stanoe ho sentito degli spari, – dissi.–È un meccanismo a gas che serve a tenere lontani i lupi. Bum! Bum!
disse lei.– Ah!– Che vuoi? – chiese lei.–ello che c’è.– Formaggio di mucca. Stagionato.– Tre ei. I lupi hanno paura?– E chi lo sa? Tre euro.
Le cose avevano preso una brua piega. Gli uomini si erano moltiplicati
spargendosi per il mondo, avevano cementificato la terra, occupato le valli,
popolato gli altopiani, ucciso gli dèi e sterminato gli animali selvatici. Per
generazioni e generazioni avevano lanciato sul territorio i loro figli e le
loro greggi di erbivori geneticamente manipolati. Trent’anni fa il lupo era
tornato dall’Abruzzo nel Mercantour. alcuno si era messo in testa di
proteggerlo e i pastori si erano infuriati perché la presenza del predatore li
costringeva a rafforzare la vigilanza. «elli che amano i lupi, avevano
deo gli allevatori, dormono al caldo nelle cià». Adesso nei pascoli
d’altura bisognava meere delle macchine che imitavano il rumore delle
fucilate per proteggere gli erbivori dagli animali selvatici tornati nel loro
territorio. Se fossi stato un lupo, mi sarei deo: «Il progresso? Che presa in
giro!».
26 agosto. L’uscita dal Mercantour
Già annoava e io avanzavo a fatica. Per il momento non andava molto
bene. Tre giornate sulle pietraie mi avevano massacrato la schiena. «Che
senso ha trascinare questo corpo a pezzi fino all’estremo nord di un paese
in rovina?» pensavo seguendo con lo sguardo le evoluzioni di due
camosci, madre e figlio, in un caos di massi rocciosi. Chissà se eravamo in
molti a invidiare gli animali? Il cucciolo mi era piombato tra le gambe da
dietro una roccia. Per uno o due secondi era rimasto indeciso. Nel
Seecento, gli animali selvatici delle isole vergini andavano a prendere il
cibo nella mano dei primi esploratori e venivano subito centrati da un
colpo di moscheo in segno di celebrazione dell’incontro con l’uomo. Il
piccolo camoscio, però, ubbidendo a un provvidenziale richiamo, aveva
fao dietro front. Si era reso conto che non ero un compagno
raccomandabile.
Ero passato vicino a una cascata che rimbalzava sul muschio, avevo
costeggiato l’acqua verde di un lago, avevo risalito qualche pendio. Avevo
aggirato da nord il Monte Bego disertato dagli spiriti preistorici, mi ero
seduto su un terrapieno a leggere Knulp e quella leura mi aveva
definitivamente scoraggiato. Hermann Hesse aveva ambientato il suo
racconto nella ridente campagna tedesca, resa ancora più dolce
dall’autunno. Certo il buon Knulp era morto in solitudine ma almeno,
prima di pagare a caro prezzo la sua estetica dell’irresponsabilità, aveva
mostrato alla gente del luogo quanto fosse nobile una vita errabonda. Ma
io per camminare sognando, scortato da pensieri sereni, avevo bisogno di
un paesaggio boscoso con lunghi sentieri e, di tanto in tanto, una locanda
con boccali di birra traboccanti su tavoli di legno.
Al Pas de Colomb vidi, nel vallone, la chiesea della Madone de
Fenestre. In Francia, nelle groe e vicino alle sorgenti, si incontrano molti
luoghi dedicati al culto mariano. La Vergine Maria si è accaparrata ogni
accidente del terreno. Conoscevo persino una «Notre-Dame des Falaises»,
sul fianco di Cap Canaille. La fede caolica recuperava l’antico
paganesimo: era un modo per non rompere con lo spirito dei luoghi.
Andai a cercare un po’ di penombra soo le volte della chiesa. Alle
pareti erano appesi gli ex-voto degli alpinisti sopravvissuti a una caduta.
Era stata la corda a traenerli, ma a loro piaceva pensare di essersi salvati
grazie all’aiuto del Cielo. A sinistra dell’entrata era stata posta di recente
una stele in memoria della guida alpina Hervé Gourdel. Nato in Vesubia,
era stato sgozzato l’anno prima in Cabilia da un gruppo di fanatici
musulmani. Nel mio leo d’ospedale, ero stato ossessionato dal pensiero
del suo martirio: avevo immaginato l’alpinista legato, con la testa coperta,
in aesa del verdeo coranico, e m’ero sentito unito a lui da una sorta di
fraternità. ella sera risorgeva il suo ricordo.
Su una colonna della chiesa, una targa ricordava la morte dei Templari
decapitati. Per mano dei saraceni? Nel X secolo, quando devastavano la
Provenza, in quello stesso luogo avevano distruo un santuario.
E quella sera mentre mi avvolgevo nel telo, prima che i miei pensieri si
trasformassero in sogni, resi omaggio a Gourdel. Una mucca, inquieta per
chissà quale altro motivo, muggiva il suo requiem nell’oscurità
dell’alpeggio.
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