Segreti, bugie e cioccolato – Amy Bratley

SINTESI DEL LIBRO:
La vita ha il brutto vizio di sbatterti in faccia i conti in sospeso più
incasinati proprio quando meno te lo aspetti. Lo sanno tutti. Lo so io. È una
legge non scritta: proprio quando stai navigando in acque felici, la vita ti tira
un pugno allo stomaco, lasciandoti senza fiato. Eppure quell’umido sabato
sera di inizio giugno, quando aprii la porta di casa per accogliere gli ospiti
che avevo invitato a cena, mai mi sarei aspettata di trovare il mio incasinato
conto in sospeso di un metro e novanta in piedi sulla soglia di casa, con una
bottiglia di Chablis appannata e un mazzo di papaveri rossi tra le mani.
«Santo cielo!», esordì lui, rimanendo quasi senza fiato, mentre si piegava
leggermente all’indietro e urtava i rami aggrovigliati del glicine che
penzolavano dal pergolato con i loro soffici boccioli viola. «Eve?».
Mi portai una mano alla bocca. Non riuscivo a credere ai miei occhi. Sbattei
le palpebre, con la bocca spalancata. Era il mio ex, Ethan Miller. Mi guardò,
lo guardai. Fece una risata strozzata mentre io mi sforzavo di non scoppiare a
piangere. Ero rimasta letteralmente senza parole. Mi limitai a fissarlo con
un’espressione da pesce lesso, sentendomi come se mi avessero risucchiato
via tutta l’aria dai polmoni.
Ma chi avrebbe potuto biasimarmi? Erano passati tre anni da quando Ethan
aveva preso e se ne era andato senza dire nulla, scomparendo dalla mia vita
per finire chissà dove, come una stella cadente nel cielo notturno. In quel
momento era lì, e sembrava che le lancette dell’orologio stessero
sferragliando all’indietro, riavvolgendo tutti i giorni, i mesi e gli anni
trascorsi da quando era andato via. Mi ricomposi e cercai di chiudere la porta,
ma lui me lo impedì infilando il suo mocassino Patrick Cox numero
quarantacinque nella fessura. Lo ammetto, non opposi molta resistenza. Feci
un respiro profondo e spalancai la porta, aggrappandomi così saldamente alla
maniglia che le mie nocche diventarono bianche.
«Santo cielo!», ripeté, con gli occhi sbarrati. «Non ci posso credere. Sono
passati quasi tre anni».
Aggrottai la fronte, confusa e disorientata. A quanto pareva eravamo
entrambi rimasti scioccati da quell’incontro inaspettato. Sentivo le guance
bruciare. Scossi la testa, senza riuscire a dire nulla. Alle mie spalle avvertii il
gorgoglio dell’acqua che bolliva in una pentola dimenticata sul fuoco e
l’odore acre del cioccolato fondente che si bruciava. “Il mio dolce”, pensai
vagamente, “si starà sicuramente carbonizzando”.
«Eve», disse.
«Ethan», dissi.
«Non sapevo…». Si schiarì la voce. «Non sapevo vivessi qui. Mi sento
come se stessi per avere un attacco di cuore. Forse dovrei andarmene».
Indicò la strada con il suo triste mazzo di papaveri. I petali scarlatti
penzolavano, ammosciati dalla calura estiva. Un taxi nero rallentò, con il
motore diesel che ronzava rumorosamente, ma Ethan tornò a voltarsi. Tese i
fiori verso di me, abbozzando un timido sorriso, come se stesse ricordando
qualcosa di bello che c’era stato, tanto tempo prima, tra di noi.
«No», dissi. «Non andare».
E nonostante i campanelli d’allarme che mi tintinnavano in testa, feci ciò
che non avrei mai dovuto fare: lo lasciai entrare.
Quel sabato cominciò in maniera bizzarra. Trovai una foto di me e Ethan,
che pensavo di aver perso, tra le pagine di un quaderno. Ero in piedi accanto
a una stupenda bancarella di frutta e verdura al Borough Market, avvolta dal
profumo inebriante delle fragole e dei lamponi, e stavo sfogliando il
quaderno alla ricerca della lista della spesa per controllare di non aver
dimenticato niente. Ero di malumore, poiché avevo accettato controvoglia, e
con un preavviso di sole ventiquattro ore, di preparare una cena di tre portate
per gente che non avevo mai visto prima. Tutto questo con lo scopo di
partecipare al Saturday Supper Club, un concorso (molto popolare)
organizzato dal «London Daily».
«Sto per chiederti un favore enorme», mi disse al telefono il mio ragazzo,
chiamandomi dalla sua scrivania nella redazione del quotidiano a Canary
Wharf, dove lavorava come reporter freelance. «Preparati».
«Mi stai spaventando», risposi con voce stridula, consapevole che qualsiasi
cosa fosse, avrei dovuto soddisfare la sua richiesta. Joe era un vero tesoro e
quando mi domandava di fare qualcosa – che non includesse guanti in latex e
catene zincate – lo facevo.
«Okay. Hai letto sul giornale del concorso Saturday Supper Club, vero?»,
mi interrogò. «Quello in cui un gruppo di sconosciuti si invitano a cena a
vicenda per poi darsi un voto su una scala da uno a dieci? E il vincitore si
becca mille sterline? Be’, il concorrente di domani sera si è ritirato…».
Joe si interruppe, come se si sentisse in colpa. Socchiusi gli occhi e ascoltai
il suo delizioso accento irlandese farsi più marcato per il crescente
nervosismo. Riuscivo a immaginarlo con il corpo snello ricurvo sulla
scrivania, mentre faceva quella telefonata privata strofinandosi la mascella
con la mano libera; l’ispida barbetta bionda che gli punzecchiava il palmo, le
ciglia chiare che facevano ombra ai suoi occhi di un castano brillante.
«Bene», dissi. «Mi stai per caso suggerendo di prendere il suo posto?».
Avevo cercato di essere delicata, anche se ero un po’ seccata. Joe sapeva
che stavo attraversando un periodo in cui ne avevo fin sopra ai capelli. Non
trovavo il tempo per invitare i miei amici a casa, e avrei dovuto cucinare, da
sola, una cena di tre portate per dei perfetti sconosciuti? Di cui, per di più,
avrebbe letto tutta Londra? Avvertendo il mio malumore, Joe si schiarì la
gola un paio di volte e abbassò la voce. Costringendomi a premere il telefono
contro l’orecchio per sentirlo.
«A te piace cucinare, no?», domandò tutto d’un fiato, come se fosse quello
il punto. «Sei una cuoca fantastica, e a dirla tutta, se riuscissi a trovare
qualcuno, tipo te, farei una bella figura e potrei guadagnarmi un posto qui,
Eve. Avrei un ufficio tutto mio».
Fece una pausa per prendere fiato, poi riprese quasi bisbigliando.
«Prova a immaginartelo. Il mio nome scritto in oro sulla porta, i piedi sulla
scrivania, mentre fumo un sigaro e abbaio ordini ai miei sottoposti…».
Stava cercando di farmi ridere, ma c’era anche una vena di serietà nelle sue
parole. Joe aveva lavorato per anni come freelance per diverse testate ed era
alla disperata ricerca di un posto fisso e a tempo pieno presso un quotidiano
rispettabile. Voleva dimostrare di essere in gamba quanto lo era stato suo
padre – anche se non avrebbe mai confessato la sua motivazione a qualcun
altro a parte me. Mi morsi la guancia. Dovevo accettare.
«E la redattrice ha detto che sarà felice di lasciarti parlare della tua
caffetteria e persino di citarla nell’articolo», aggiunse. «Una pubblicità del
genere non guasta di certo. Questo giornale è letto da più di seicentomila
persone. Pensa se venissero tutti a prendersi un caffè e una fetta di torta da te.
Diventeresti milionaria!».
Mi lasciai sfuggire un sospiro. La caffetteria era il mio tasto dolente. Avrei
dovuto aprirla di lì a otto settimane e, dal punto di vista finanziario, stava
diventando un cappio al collo piuttosto che un sogno che diventa realtà,
quindi la possibilità di ottenere pubblicità gratuita era indubbiamente
allettante. Ciononostante, l’idea di avere a cena gente che non conoscevo mi
sembrava troppo impegnativa. Pensai alle mutandine e ai reggiseni lasciati ad
asciugare sul termosifone, alla montagna di stoviglie, lampade e foto
comprate per la caffetteria impilate dentro le scatole nell’ingresso a
intralciare il passaggio.
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