Riccardino – Andrea Camilleri

SINTESI DEL LIBRO:
Il tilefono sonò che era appena appena arrinisciuto a pigliari sonno, o
almeno accussì gli parsi, doppo ore e ore passate ad arramazzarisi
ammatula dintra al leo. Le aviva spirimintate tue, dalla conta delle
pecore alla conta senza pecore, dal tintari d’arricordarisi come faciva il
primo canto dell’Iliade a quello che Cicerone aviva scrivuto al comincio
delle Catilinari. Nenti, non c’era stato verso. Doppo il ousque tandem,
Catilina, nebbia fia. Era ’na boa d’insonnia senza rimeddio, pirchì non
scascionata da un eccesso di mangiatina o da un assuglio di mali pinseri.
Addrumò la luci, taliò il ralogio: non erano ancora le cinco del matino.
Di certo l’acchiamavano dal commissariato, doviva essiri capitata
qualichicosa di grosso. Si susì senza nisciuna prescia per annare ad
arrispunniri.
Aviva ’na presa tilefonica macari allato al commodino, ma da tempo non
l’adopirava pirchì si era fao pirsuaso che quella piccola caminata da ’na
càmmara all’autra, in caso di chiamata nourna, gli dava la possibilità di
libbirarisi dalle filinie del sonno che si ostinavano a ristarigli ’mpiccicate
nel ciriveddro.
«Pronto?».
Gli era nisciuta ’na voci non sulo arragatata, ma che pariva macari
’mpastata con la coddra.
«Riccardino sono!» fici ’na voci che, al contrario della sò, era squillanti e
f
istevoli.
La cosa l’irritò. Come minchia si fa ad essiri squillanti e fistevoli alle
cinco del matino? E inoltre c’era un deaglio non trascurabile: non
accanosciva a nisciun Riccardino. Raprì la vucca per mannarlo a
pigliarisilla in quel posto, ma Riccardino non gliene dei tempo.
«Ma come? Te lo scordasti l’appuntamento? Siamo già tui ccà, davanti
al bar Aurora, ci ammanchi sulo tu! È tanticchia nuvolo, ma cchiù tardo
sarà ’na jornata bellissima!».
«Scusatimi, scusatimi… tra deci minuti, un quarto d’ura massimo,
arrivo».
E riaaccò, tornanno a corcarisi.
D’accordo, era ’na carognata, avrebbi dovuto diri la virità: avivano fao
il nummaro sbagliato, ’nveci accussì quelli davanti al bar Aurora ci
avrebbiro pirduto ’na mezza matinata aspianno a vacante.
D’autra parti, a voliri essiri giusti, non è consintito a nisciuno di
sbagliari nummaro alle cinco del matino e po’ passarisilla liscia.
Il sonno era oramà perso senza rimeddio. Meno mali che Riccardino gli
aviva dio che la jornata sarebbi stata bona. Si sintì racconsolato.
La secunna tilefonata arrivò che erano passate di picca le sei.
«Doori, addimanno compressione e pirdonanza. Che fici,
l’arrisbigliai?».
«No, Catarè, vigliante ero».
«Sicuro sicuro, doori? O me lo sta dicenno per complimento?».
«No, Catarè, non aviri scruppoli. Parla!».
«Doori, ora ora Fazio acchiamò pirchì dissi che a lui l’avivano
acchiamato».
«E tu pirchì acchiami a mia?».
«Pirchì Fazio mi dissi a mia d’acchiamari a vossia».
«A mia?».
«Nonsi, doori. A Fazio».
Di questo passo, non sarebbi mai arrinisciuto ad accapirici nenti.
Riaaccò e acchiamò a Fazio sul cellulari.
«Che c’è?».
«Mi dispiaci che l’avemo disturbata, doore, ma hanno sparato a uno».
«L’ammazzaro?».
«Sissi. Dù colpi ’n facci. Sarebbi meglio se vossia vinissi ccà».
«Augello non c’è?».
«Doore, si nni scordò? È annato nel paìsi dei soceri con la mogliere e
Salvuzzo».
E subito Montalbano pinsò con amarizza che addimannare se Mimì
Augello stava di servizio era un segno dei tempi, anzi meglio, del tempo al
singolari, quello sò, pirsonali, dell’anni che oramà gli pisavano. ’Na vota
avrebbi fao carti àvuse per tiniri Mimì Augello luntano da ’n’indagini,
non per invidia o per fuirigli la carrèra, ma sulamenti per non spartiri
con lui il piaciri ’ndescrivibili della caccia solitaria. Ora, ’nveci, gli avrebbi
vulanteri lassato ’n mano l’inchiesta. Certo, quanno che gli capitava un
caso e gli aoccava di farisinni carrico ci si ghiava ancora dintra cavallo
e carreo, come aviva sempri fao, ma ora, se ci arrinisciva, prifiriva
scansarisillo sin dal principio.
La vera virità era che da qualichi tempo gli fagliava la gana. Doppo anni
e anni di pratica si era fao capace che non c’era pirsona cchiù scarsa di
ciriveddro di chi pinsava che la soluzioni d’un problema potiva essiri
l’omicidio. Autro che De incey e L’assassinio come una delle belle arti!
’Mbecilli tui, sia quelli che ammazzavano al minuto per avidità, gilosia,
vinnia, sia l’autri, quelli che massacravano all’ingrosso in nomi della
libbirtà, della democrazia o, pejo ancora, in quello di Dio stisso. E lui si era
stuffato di aviri sempri a chiffari con li ’mbecilli. Che certe vote erano
furbi, certe vote erano macari ’ntelligenti, come aviva acutamente notato
Leonardo Sciascia, ma, zarazabara, sempri scarsi di ciriveddro ristavano.
«Indove capitò?».
«In mezzo a ’na strata, manco ’n’orata fa».
«Ci sunno tistimoni?».
«Sì».
«indi hanno visto l’assassino?».
«Per vidirlo, l’hanno viduto, doore. Ma, a quanto pari, nisciuno è stato
in grado d’arraccanoscirlo».
E come ti sbagli, in questa nostra bella terra? Vidi, ma non arraccanosci.
Sei prisenti, ma non puoi pricisari. Hai viduto ma confuso, pirchì ti sei
scordato a casa l’occhiali. D’autra parti, oggi come oggi lo sbinturato che
s’azzarda ad addichiarari d’aviri arraccanosciuto a ’n assassino mentri che
assassina, s’arova automaticamenti l’esistenzia arruvinata, non tanto
dall’assassino stisso che si voli vinnicari, quanto chiuosto dalla polizia,
dai giudici e dai jornalisti che lo tartasseranno ’n commissariato, ’n
tribunali e davanti alla tilevisioni.
«L’hanno inseguito?».
«Voli babbiare?».
E come ti sbagli, in questa nostra bella terra? Sissignore, c’ero, ma non
ho potuto corrergli appresso perché avevo una scarpa slacciata. Sissignore,
ho visto tuo, ma non sono potuto intervenire perché soffro di
reumatismi. D’autra parti, quanto coraggio ci voli per miirisi a curriri,
disarmato, appresso a uno che ha appena finuto di sparari e che ha
minimo minimo ’n autro colpo in canna?
«Hai avvertito il pm, il doore, la scientifica?».
«Tui».
Stava piglianno tempo, se ne capacitava pirfeamenti. Ma non potiva
scapoarisilla. Spiò di malavoglia:
«Come si chiama ’sta strata?».
«Via Rosolino Pilo, dalle parti di…».
«La conosco, arrivo».
Facenno voci, santianno e sonanno il clacson fino a ’ntronarisi, arriniscì
a farisi largo in mezzo a ’na cinquantina di pirsone, accorse subitanee
come mosche al feto di una cacata, che auppavano la trasuta a via
Rosolino Pilo a chi, come lui, viniva da via Nino Bixio. L’auppamento era
dovuto al fao che l’accesso era sbarrato da ’na machina della polizia
assistimata di traverso e oltretuo presidiato dagli agenti Inzolia e
Verdicchio, meglio accanosciuti ’n commissariato come «i vini da tavola».
All’autro capo della strata, che dava su via Tukory, ci stavano di guardia,
con ’na secunna machina, le «vestie serbagge», vali a diri l’agenti Lupo e
Leone. La sezione «pollaio» del commissariato, e cioè Gallo e Galluzzo, era
al centro della via ’nzemmula a Fazio. E sempre ’n mezzo alla strata si
vidiva un corpo stinnicchiato ’n terra. Poco distanti, tri òmini stavano
addossati a ’na saracinesca.
Dalle finestre, dai balcuna, dai terrazzini, vecchi e piccioi, ìmmine e
mascoli, picciliddri, cani e gai s’affacciavano a taliare, autri si sporgivano
a rischio di annare a catafoirisi supra alle basole per vidiri meglio quello
che stava capitanno. Ed era tuo un chiamari, arridiri, chiangiri, prigari,
fari voci, un gran virivirì che pariva priciso ’ntifico alla festa di San Calò. E
propio come nella festa c’era chi scaava fotografie e chi ripigliava la
scena con quei tilefonini nichi nichi che oggi sanno manoprare macari i
neonati.
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